martedì 14 luglio 2015

La Stampa 14.7.15
Cosa rimane del sogno europeo
di Massimiliano Panarari


C’era una volta il sogno americano. O, meglio, quello, nonostante le difficoltà e qualche delusione, è ancora in campo, e, tutto sommato, bello forte. È un altro «sogno», invece, che morde il freno, e corre il serio rischio, come sostengono ormai in tanti, di naufragare (anche se la Grexit non è avvenuta). Ovvero, il sogno europeo: quell’aspirazione che ha attraversato, lungo i secoli, i pensieri e le opere di uomini di cultura e intellettuali tra loro diversissimi, inducendoli a credere che si potesse arrivare a un continente unito, cementato dall’umanesimo – e le cui radici affondano nel mondo classico, in primis la Grecia del Logos da anni alle prese con lo spettro del default finanziario. E con quello di un debito sovrano assai simile al gigantesco macigno di Sisifo del mito che – nella versione esistenzialista di Albert Camus – piace all’inflessibile ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble.
Quel complicato e ora criticatissimo paradigma di governance che è l’Unione europea per non vedersi dipinta come tecnocrazia allo stato puro, o come un «mostro buono» (secondo la formula dello scrittore Hans Magnus Enzensberger), dovrebbe allora riscoprire lo spirito e la tensione che animavano il sogno europeo degli intellettuali. Come Erasmo da Rotterdam (al quale è stata intitolata la rete di scambi di studenti che ha rappresentato uno dei programmi comunitari di maggiore successo della storia della Ue), il grande umanista e autore di quell’autentico best-seller che fu l’«Elogio della follia» che voleva un continente unito e pacificato contro il dogmatismo e il fanatismo sanguinario che nutrirono le guerre di religione del Cinquecento. Gli scrittori che nel Settecento e nell’Ottocento facevano il Grand Tour (come Goethe), girando per il nostro continente e ammirandone le vestigia e la varietà di popoli e culture, ritornavano a casa ammirati e, spesso, si convertivano in storyteller di una «comunità di destino» (e, al proposito, non sarebbe male ricordarci del fatto che furono proprio gli archeologi del Nord Europa, innanzitutto tedeschi, di quei due secoli a «inventare» la Grecia antica partendo dagli scavi e dai ritrovamenti).
I pensatori federalisti del nostro Risorgimento – come, nelle loro differenze, il Carlo Cattaneo degli «Stati Uniti d’Europa» e il Giuseppe Mazzini della «Giovine Europa» – nell’invocare appassionatamente l’unità d’Italia la pensavano saldamente inserita in un continente dove la fratellanza tra i popoli avrebbe offerto il rimedio ai nazionalismi e alle guerre e, in prospettiva, le nazioni sarebbero state superate da una federazione. Dopo l’immane carneficina della Grande guerra, furono figure come lo storico Paul Hazard e il poeta Paul Valéry a interrogarsi sulla triste fine dello spirito europeo. E intellettuali furono i visionari architetti politici del federalismo e dell’Europa unita, i confinati dal fascismo Altieri Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, autori (insieme a Ursula Hirschmann) del Manifesto di Ventotene del 1941.
L’«umanesimo militante» di Thomas Mann, che guardava impietrito alla terra desolata lasciata dal secondo conflitto mondiale, trovò una delle proprie bandiere nell’idea di un Paese riunificato capace di non spaventare più gli altri europei, e collocato al centro di un continente unito, con l’auspicio di sciogliere in modo positivo (vale a dire nel secondo senso) il suo famoso dilemma su «un’Europa tedesca o una Germania europea». Parole davvero profetiche, come quelle che soltanto i letterati, in alcuni momenti, riescono a concepire e pronunciare.
E ora che l’Europa è un’unità economica e istituzionale a mancare sembra proprio quell’anima comune tanto invocata dai suoi padri spirituali del passato. Mentre l’American dream, che non ha mai avuto una dimensione culturale «di lunga durata», né grandi schiere di intellettuali impegnati a celebrarlo (e, paradosso dei paradossi, si è trattato più di europei che di statunitensi), gode di una salute decisamente migliore. Un sogno certamente soggetto a ridefinizioni e revisioni nel corso della pur giovane (se comparata al nostro Vecchio continente) storia nazionale a stelle e strisce. Ma fondato sul talento e l’etica individuali, fortissimamente pragmatico e concreto, e comunicato attraverso gli strumenti della cultura popolare (come il cinema). Tanto da essere diventato, a differenza dell’oggi ferito sogno europeo, un pezzo solidissimo dell’immaginario di massa del Villaggio globale. E se, per rimanere dalle parti della «madre Ellade», non vogliamo assistere a un altro «ratto di Europa» né farci sovrastare dalla paura sarebbe forse bene ragionare sull’efficacia e sull’attrazione, ancora valide, del sogno d’Oltreatlantico.