sabato 11 luglio 2015

La Stampa 11.7.15
Gay, il distinguo su adozioni e matrimonio
di Carlo Rimini


Condivido il metodo e il tono dell’argomentare del prof. Orsina su queste colonne. Per questo anch’io voglio dichiarare innanzitutto quale è la mia posizione: penso che la recente sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti che ha affermato che è un diritto fondamentale dell’individuo contrarre matrimonio, anche con una persona dello stesso sesso, sia una conquista della civiltà oltre che, come scrive Gianni Riotta, una pietra miliare nell’evoluzione giurisprudenziale.
Penso che anche la nostra società sia ormai pronta per recepire una scelta analoga. Ho letto il manifesto funebre di un uomo di cinquant’anni, morto improvvisamente con una moglie e due figli. Molti segni lasciavano capire che si trattava di un uomo profondamente cattolico. La morte era annunciata dalla moglie, dai due figli e dai loro giovani fidanzati: «i figli Laura con Dario e Marco con Massimo». Ho pensato al coraggio della mogliettina madre dietro a quelle tre lettere: “con”. Il coraggio di una madre, come il coraggio della Corte suprema degli Stati Uniti. Non è scontato: che cosa avremmo fatto noi? C’è più coraggio in una madre, segnata dal dolore, che parla in nome di un figlio che nei giudici supremi che parlano in nome del popolo americano.
Eppure sono d’accordo che non possiamo cancellare per legge le nostre tradizioni. Penso che la convivenza civile si basi sul rispetto delle idee degli altri, ed anche dei loro simboli. La parola «matrimonio» viene ancora percepita con un valore simbolico e sacrale da molti di noi. Fino a che tale percezione persisterà (giacché Zagrebelsky ci ha dimostrato ieri come cambia rapidamente la percezione della tradizione) le persone di buon senso potranno accettare una mediazione «fra le due anime della nostra gente», come ha scritto tanti anni addietro – quando si discuteva del divorzio – Angelo Falzea, un grande giurista. Penso quindi che si possa accettare di non chiamare matrimonio l’unione omosessuale. Penso anche che la mediazione possa spingersi oltre: dal piano dei simboli a quello della sostanza e delle regole. In questa prospettiva penso che sia ragionevole prevedere che una coppia omosessuale non possa adottare un bambino in stato di abbandono o ricorrere a tecniche di procreazione assistita. Istintivamente sarei portato ad essere più coraggioso, ma – quando si parla di figli – i diritti degli adulti cedono il passo di fronte alle necessità dei bambini.
Oltre questo confine, ogni ulteriore istanza di riduzione dei diritti delle copie omosessuali deve essere rigettata con granitica fermezza. Le famiglie omosessuali hanno diritto a tutte le garanzie che la legge prevede a favore dei coniugi. Le coppie dello stesso sesso non hanno solo il diritto – come scrive Orsina – a vivere la propria sessualità come meglio credono e alla luce del sole (e ci mancherebbe altro!), ma hanno il diritto a costituire una famiglia regolata da norme identiche a quelle che disciplinano il matrimonio e riconosciuta dallo Stato nello stesso modo, con l’unica eccezione della adozione dei minori in stato di abbandono. Se la legge introducesse ulteriori differenze fra l’unione omosessuale e il matrimonio, la discriminazione sarebbe inaccettabile. Questa regola va applicata sin dal primo problema che si incontra al di là del confine: l’adozione del figlio del partner omosessuale. La legge riconosce al coniuge il diritto di adottare il figlio dell’altro. È una adozione che produce effetti diversi e minori rispetto all’adozione del minore in stato di abbandono ed ha lo scopo di attribuire un rilievo giuridico ad un legame affettivo che si è già formato e consolidato nei fatti, nella vita. Nessuna ragione può consentire di escludere le coppie omosessuali da questo strumento giuridico.
Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano