lunedì 6 luglio 2015

Corriere 6.7.15
I medici di domani a scuola di umanità
di Gianciacomo Schiavi


«Quale giorno vorreste cancellare dalla vostra vita?», hanno chiesto ai malati di un ospedale londinese. Quello della diagnosi infausta, è stata la prima risposta. Un verdetto di tumore, per esempio, è una fucilata che piega le gambe. Ma la malattia non porta via emozioni e sentimenti: il medico può gettare un ponte tra l’imbarazzato silenzio del paziente e il benefico rumore dell’esistenza. Come dev’essere questo medico? «Deve capire la sofferenza», ripete da anni il grande oncologo Gianni Bonadonna. E qual è la prima cosa da fare? «Sostituire la parola paziente con la parola persona», dice Umberto Veronesi, il chirurgo che più di ogni altro ha legato il suo nome alla battaglia delle donne contro il cancro.
Dopo anni di false partenze e slogan sui «malati al centro» o «protagonisti della propria malattia», ripetuti ad ogni congresso medico un po’ come quando si cita Beccaria nelle aule di giurisprudenza, si può parlare di un nuovo inizio per la formazione del medico. Con il dipartimento di Oncologia, inaugurato martedì scorso dall’Università Statale di Milano, che mette insieme Istituto dei Tumori, Ieo, San Paolo, Policlinico e Niguarda in un grande polo della ricerca, oltre all’esplosione dell’ impact factor scientifico debutta una nuova materia di insegnamento, sottostimata per anni nelle scuole di medicina: l’umanità. È come un risarcimento morale ai due grandi vecchi dell’oncologia che il mondo ci invidia; finalmente il paziente diventa materia di studio al pari dell’anatomia e dell’informatica, finalmente nelle facoltà arriva una lezione fondamentale per chi crede nell’alleanza tra medico e paziente: la medicina della persona.
Ci sono voluti molti anni e la fine di un inutile ostracismo, perché il messaggio di Bonadonna e Veronesi diventasse un atto formativo, qualcosa che si studia e si verifica sul letto del malato con l’umiltà dell’ascolto e la forza della comprensione. Guarda a loro, ma soprattutto alla medicina etica, il progetto che Gabriella Pravettoni, docente di psicologia, ha realizzato per mettere nella valigia dei futuri medici il patto con il paziente, la presa in carico della persona malata nella sua intierezza. Ed è così che l’Università degli studi di Milano apre un percorso nuovo per i dottori di domani: li invita a pensare come fa il malato, a mettersi dall’altra parte, a non fermarsi alle aree anatomiche da vivisezionare come entomologi. «È più importante sapere quale tipo di paziente è colpito da una determinata malattia che non quale malattia affligge il paziente», raccomandava il pioniere dell’oncologia americana David Karnowsky al giovane Bonadonna. Per saperlo occorre che l’arte medica sia nutrita da componenti psicologiche, filosofiche, etiche ed empatiche. Si possono insegnare? Alcune sì, altre si possono certamente imparare, prendendo esempio dai volontari, cominciando a dire che il tempo dell’ascolto è tempo di cura, parlando del male per razionalizzarlo e poi, insieme, combatterlo meglio. Usando le parole giuste contro la resa e la solitudine dell’addio, come scrive Marco Neirotti nell’autobiografia sul cancro intitolata Stazione di sosta : «Il primo morso del cancro non è la fatalità, il fastidio, il dolore che l’ha fatto scoprire. È il metterci di fronte a quanto sia piombato su un’esistenza che non gli aveva offerto armi o, viceversa, a quanto siamo colpevoli o abbiamo trascurato o fatto per generarlo...».
Capire la sofferenza, offrire al malato un punto al quale aggrapparsi, avviare la ristrutturazione di una vita, fa parte di un percorso che non è solo di studio: è una sfida sociale e umana. Le facoltà di medicina per anni si sono occupate più delle nozioni che gli studenti non hanno che dell’uso che di queste nozioni si fanno. «Oggi è facile togliere un nodulo al seno, ma è difficile toglierlo dalla mente», ripete Veronesi. La nuova oncologia della Statale si occuperà anche di questo. Era giusto incominciare.