lunedì 8 giugno 2015

Repubblica 8.6.15
“Non volevo cambiare l’Italia volevo cambiare il giornalismo”
La fondazione di due testate, Pertini e Ulisse, il nuovo libro, i genitori, la politica, l’amore e il potere Eugenio Scalfari sul palco del Teatro Carlo Felice racconta i suoi novant’anni di passione
di Michele Smargiassi


GENOVA «NON mi proponevo di cambiare l’Italia. Però volevo cambiare il giornalismo». Che Eugenio Scalfari, con i due giornali che ha fondato, L’Espresso e la Repubblica, ci sia riuscito, non è in discussione. Sarebbe bello invece sapere da lui stesso come lo ha fatto. Eppure, nello scaffale dei libri che ha scritto come giornalista, filosofo, narratore, manca la storia di Repubblica, che si affacciava sul finale di Alla sera andavamo in via Veneto. Perché non hai mai scritto il seguito, gli anni del quotidiano?, gli chiede Simonetta Fiori sul palco del Teatro Carlo Felice di Genova, dove in chiusura della Repubblica delle Idee il fondatore racconta i suoi novant’anni («già novantuno, sto marciando per i novantadue...») intrecciati a un secolo di storia d’Italia. La risposta è una metafora nautica: «Un grande giornale è come un transatlantico che naviga su mari aperti. I macchinisti cosa possono raccontare? Al massimo descriveranno la sala macchine...».
Be’, sarebbe interessante anche un racconto di motori e manovelle. Strano bastimento, il giornale fondato nel 1976 con il proposito esplicito di diventare il primo, «figuratevi i commenti», obiettivo raggiunto dopo pochi anni. «Volevamo cambiare il giornalismo e lo facemmo, prima di tutto il giornalismo politico. Questo già con l’ Espresso, che per noi era l’amplificazione a un pubblico di massa del Mondo di Pannunzio. Abolimmo il pastone dove tutto si confondeva, decidemmo di scegliere, di andare addosso al cuore della giornata. Era una lettura orizzontale, su una linea che andava dalla sinistra socialista di Lombardi alla Banca d’Italia di Carli, dai liberali alla sinistra extraparlamentare. Nelle foto di Moro prigioniero, le Br gli misero in mano una copia di Repubblica , eppure avevamo scelto la linea della fermezza. La nostra lettura dell’Italia era trasversale».
Giornale anomalo, fondato da un giornalista imprenditore. «Credo non esista un quotidiano al mondo che abbia avuto due soli direttori in quarant’anni », ricorda Scalfari. Il suo successore Ezio Mauro lo ascolta dalla platea, sul finale salirà al palco per abbracciarlo, «è un gesto che facciamo tutti i giorni». Fu Mauro a volere che il nome di Scalfari restasse sotto la testata come fondatore, «io feci resistenza, so bene che quando un amministratore delegato lascia, il successore non lo vuole fra i piedi... Fra me e Ezio invece esiste tuttora un rapporto, lui prende le decisioni, ci raccontiamo le cose, a volte non siamo d’accordo ma lui non toglie neanche una virgola dai miei articoli ».
Di quel viaggio che fra pochi mesi doppierà la boa dei quarant’anni, però, Scalfari macchinista (in realtà comandante e anche armatore: «Ho scritto solo su giornali che avevo fondato») racconta volentieri pagine del diario di bordo. Cartoline, appunti, ritratti. Retroscena. L’incontenibile invadenza di Sandro Pertini, ad esempio. Vecchio amico di Scalfari, da presidente della Repubblica telefonava al direttore di Repubblica , «e lo faceva alle undici del mattino, sapeva che a quell’ora incontravo lo staff del giornale, lo faceva apposta, diceva: mettimi in viva voce, e io: ma vuoi partecipare alla riunione di redazione?, sono un giornalista anch’io, rispondeva, potevi dirgli di no?, e cominciava questo spasso, lui partecipava davvero, segnalava, diceva dovreste approfondire questa notizia».
Anni più tardi, la relazione altrettanto sorprendente con papa Francesco, «mi dicevano attento, proverà a convertirti, io lo dissi a lui, e Francesco mi rispose: non ce la farei mai, comunque non ci provo nemmeno, io parlo con lei proprio perché non è credente e questo mi stimola, se la convertissi dovrei cercarmi un altro non credente come lei».
Non sarebbe però, il libro del macchinista, un libro di aneddoti. Ci sarebbe una filosofia del giornalismo, che non è solo la vocazione degli uomini curiosi, fra i quali Scalfari si annovera volentieri. In un’intervista a Federico Fellini, Scalfari paragonò i rispettivi mestieri: entrambi mettono in scena la realtà secondo un punto di vista, ma lo fanno orchestrando il lavoro degli altri. «Bisogna essere curatori o possessori di anime», ammette. Nel suo prossimo libro, che uscirà a settembre, si parlerà di questo, rivela, del rapporto fra amore e potere. «Mentre il potere contiene l’amore (si desidera possedere l’amato), l’amore non può contenere il potere senza diventare esso stesso potere. Per noi animali pensanti, il potere è più importante ». Eppure la navigazione di Ulisse, sovrano astuto, che Scalfari ha riletto da adulto cercandovi tracce di se stesso, «fu dominata dall’amore di cinque donne: Minerva, Circe, Calipso, Nausicaa e Penelope». La vita come la storia è imprevedibile. Scalfari svela il suo abbandono dello storicismo crociano: «Storia maestra di vita? Ma il mutamento è improvviso, e quella che chiamiamo storia è memoria del passato, non previsione razionale del futuro, e se invece di credere al destino riconosci il caso, la storia non è più maestra di vita ma solo una legge delle probabilità».
Vale anche per la biografia? Quando ti sei accorto di essere diventato vecchio?, gli chiede a bruciapelo Fiori, Scalfari non si scompone: «I miei genitori ebbero momenti difficili, io desideravo solo che continuassero ad amarsi, facevo di tutto per tenerli uniti, cercavo di essere il primo della classe, dovetti in qualche modo diventare io il genitore: ecco, io diventai vecchio verso i sette-otto anni. Più tardi sono tornato bambino».