domenica 21 giugno 2015

Repubblica 21.6.15
Sergio Donadoni
Lo studioso ricorda un secolo di passioni e di grandi scoperte archeologiche
“L’Egitto è stata tutta la mia vita ma oggi penso solo alla sua sabbia”
colloquio con Antonio Gnoli


IL FASCISMO La prima volta che sentii la parola la pronunciò il maestro in terza elementare parlando di una “marcia su Roma” Ma lì a Terrasini, non lontano da Palermo, sembrò una frase irreale

L’anno in cui scoppiò la Grande Guerra venne alla luce Sergio Donadoni. Nessuno avrebbe potuto garantirgli una vita così lunga e in larga parte felice. Di quella felicità innocua che avvolge le esistenze di certi uomini che non danno eccessivo peso a ciò che fanno. Vado a trovarlo. Mi trovo davanti a un signore piccolo e vagamente somigliante all’etnologo Lévi-Strauss. Aver superato la boa dei cent’anni lo lascia indifferente: «A novanta decisi che non avrei più scritto né parlato del mondo di ieri e di ciò che vi scoprii. L’Egitto fu tutta la mia vita. Ma oggi mi viene in mente solo la sua sabbia».
La sabbia, perché?
«Cancella ogni traccia di civiltà. Avanza, cresce, si muove. Copre ogni testimonianza. Ha fatto caso alla sua vitalità? I miei pensieri sono ormai sotto qualche duna. Serve riesumarli?».
Lo dica lei.
«Ricordo una frase di Pierre Loti riferita all’Egitto, dove viaggiò agli inizi del Novecento: “Tutto quanto quel popolo faceva, pareva fatto per l’eternità”. Che idea abbiamo oggi dell’eternità? Cosa resta di quella lotta titanica contro il tempo? C’è solo il presente eterno, arrogante e conformista a insidiare le nostre menti e i nostri gesti».
Forse vale ancora la pena scavare.
«In fondo non ho fatto altro. Anche nascere è scavare, un venire alla luce».
Dove è nato?
«A Palermo. Madre siciliana, insegnante di inglese. Padre bergamasco. Eugenio Donadoni fu un grande storico della letteratura italiana. Cattedra a Messina. Poi in altre parti d’Italia. Infine a Pisa dove si trasferì con tutta la famiglia».
Come fu il rapporto con quest’uomo importante, amico sia di Croce che di Gentile?
«Avevo sette anni quando mi fece leggere l’ Iliade . Attraverso la sua e la mia voce familiarizzavo con eroi e dèi. Per la prima volta avvertii oscuramente il senso incommensurabile di una grande civiltà. Poi mio padre morì. Avevo dieci anni. Era il 1924. L’anno in cui il fascismo mostrò il suo volto peggiore».
Ne ebbe consapevolezza?
«No, c’era stato, è vero, l’assassinio di Giacomo Matteotti. In famiglia quel nome girava con tristezza. Ma non avevo l’età per comprendere. La prima volta che sentii la parola “fascismo” fu quando, in terza elementare, un maestro la pronunciò. Parlò con qualche enfasi di una “marcia su Roma”. E mi sembrò da Terrasini, non lontano da Palermo, dove frequentai per poco tempo quella scuola, una frase irreale».
Poi ci fu Pisa.
«Fu l’approdo definitivo. Dove ho trascorso una parte significativa della mia vita. Presi la maturità a 16 anni. Un professore di greco mi suggerì di andare alla Normale. Occorreva l’ammissione. Vinsi. Tutto era facile. Troppo. Avevo la sensazione di bruciare le tappe. Decisi di fermarmi. Decisi di rifiutare l’ingresso in quel tempio della cultura classica e scientifica. Giovanni Gentile che ne era il direttore mi mandò a chiamare. Volle sapere di quel rifiuto».
Cosa le disse?
«”So di chi eri figlio. Noi ti abbiamo accolto. Farai sempre in tempo ad andartene se la Normale non ti piacerà”. Vidi quella figura corpulenta allungare il braccio e stringermi la spalla. Era un uomo generoso. Fu maestro tra l’altro di Adolfo Omodeo. Del quale mia sorella sposò il figlio. E quando Omodeo ruppe con Gentile ci fu il dilemma per chi schierarsi. Ammiravo entrambi. Perciò decisi di restare amico di tutti e due. Arrivò l’ultimo anno dei miei studi alla Normale. Mancava la tesi quando mi fu proposta una borsa di studio per un anno a Parigi».
Per fare cosa?
«Mi ero appassionato all’archeologia grazie alla sapienza di Ranuccio Bianchi Bandinelli e alla storia dell’arte, con Matteo Marangoni. Un personaggio davvero insolito che aveva girato tutta l’Europa. Frequentato i migliori musei. Visto e conosciuto le cose più belle. Sempre con una libertà di pensiero unica. La sua passione per i dipinti — il modo che aveva di leggere i quadri — mi fu utile quando con la mamma decidemmo di visitare a Londra il British Museum. Fu allora che per la prima volta mi imbattei nel favoloso mondo egizio. Fu allora che pensai che quelle collezioni magnifiche sarebbe state parte della mia vita. E quando, grazie alla borsa, andai a Parigi cominciai a frequentare l’ambiente degli egittologi».
Che anno era?
«Il 1935 e lo ricordo come un periodo bellissimo. L’Egitto, grazie alle scoperte di Jean-François Champollion, viveva nell’ombra culturale della Francia. Di quegli studiosi come Auguste Mariette, Gaston Maspero, e poi la mia amica, la straordinaria Christiane Desroches, che avevano fatto progredire enormemente la conoscenza del mondo egizio».
Il nome di Christiane Desroches le evoca qualcosa di particolare?
«Fu una donna eccezionale. Aveva solo un anno più di me, ma possedeva un’esperienza incredibile. Amava due cose nella vita: scavare e ballare. Quando mi incontrò la prima volta mi disse con un piglio che non ammetteva repliche che avrebbe desiderato che la portassi a ballare».
Parigi era una città invitante.
«Straordinaria. Uscivamo il sabato cambiando spesso locale. Una sera finimmo in una bettola frequentata da émigré russi. Ballammo tutta la notte sui tavoli al ritmo delle balalaike. Presi una tale sbornia di vodka che mi ritrovai il giorno dopo disteso e inconsapevole in un letto sconosciuto. Seppi, in seguito, che all’alba mi avevano trascinato in un albergaccio non distante».
Frequentava solo egittologi?
«Diciamo che dividevo il mio tempo tra molte relazioni. Mi ero fatto dei nuovi amici. Tra questi Bruno Pontecorvo. Si era laureato l’anno prima con Enrico Fermi. A Parigi stava specializzandosi con Frédéric Joliot- Curie, il genero di Marie Curie. Bruno era simpaticissimo. Mi stupiva la sua mostruosa capacità di elaborare calcoli matematici. E poi vedevo di frequente Gianfranco Contini».
Anche lui era a Parigi?
«Arrivò prima di me. I suoi interessi si orientavano verso la filologia e la critica letteraria. Frequentava il suo mondo, come io il mio. Ma nessuno, lo dico con la massima riconoscenza, mi è stato di insegnamento come lui. Non importa l’età o il rango: per me fu un maestro ».
Un maestro lontano dai suoi interessi.
«Sì, ma era il metodo. L’onestà. Le sterminate conoscenze. L’acutezza dello sguardo con cui indagava le cose, che riuscì in parte a trasmettermi. Girammo in quella Parigi di ottant’anni fa con l’innocenza di chi si avventurava in un mondo sconosciuto. Ai tempi di quella giovinezza ci scapicollavamo nei musei e nei teatri dove c’era ancora l’eco dei balletti russi di Diaghilev, o si rappresentava l’ Opera da tre soldi di Brecht. Proprio quell’anno Brecht pronunciò a Parigi il suo j’accuse contro i nazisti e fu privato della nazionalità tedesca. Un quadro di Bonnard ci riempiva di gioia. Picasso ci stupiva e ci lasciava senza fiato. Seguivamo le conferenze dei migliori scrittori e una serenità non disgiunta da una sotterranea inquietudine — stava per scoppiare la guerra civile in Spagna — ci invase. Ricordo, come fosse ieri, l’acquisto di una piccola e rudimentale cinepresa con la quale girammo qualche decina di metri di pellicola sui luoghi di Parigi che avevamo particolarmente amato».
E Christiane?
«Già Christiane. Mi insegnò il francese come si parlava nella vita quotidiana. Fu la prima donna a guidare una missione di scavi nel 1938. E fu lei a salvare l’inestimabile patrimonio artistico della Nubia, quando alla fine degli anni Cinquanta i templi nubiani rischiavano di essere travolti dalle acque della diga di Assuan. Convinse l’Unesco di cosa rischiavamo di perdere. Mobilitò l’opinione internazionale. Fece confluire le più attrezzate missioni. Ministro della cultura era André Malraux, che si unì all’appello».
Il suo Egitto quando ebbe inizio?
«La mia prima missione fu immediatamente dopo Parigi. Tornai a Pisa. Il professore col quale nel frattempo mi ero laureato era stato direttore del Museo di Alessandria, Evaristo Breccia il suo nome. Si prese una polmonite e invece di partire lui, mandò me. Impiegai tre giorni di navigazione. Approdai ad Alessandria che non era ancora il vero Egitto».
Come fu l’impatto?
«Stordente. C’era un tumulto inenarrabile: facchini che tentavano di impadronirsi del bagaglio, un via vai di carrozzelle, di asini, di venditori. Una folla turbinosa e vociante. Le donne se non portavano il velo avevano pesanti velette viola. Alessandria viveva però di rendita letteraria».
Si riferisce a Lawrence Durrell e al suo Quartetto di Alessandria?
«Durrell venne solo alla fine con il suo estenuante erotismo. Ma c’era già stato Kavafis e prima ancora la cultura alessandrina. Il Cairo era un’altra cosa. Era la fibrillazione di un organismo vivo e ancora discreto. Non la megalopoli mostruosa che ho rivisto di recente ma la città eccitante per la varietà dei suoi quartieri e la vitalità della sua gente. Prendevo un tram per andare a Giza e da lì ancora un altro tram che si inoltrava nella campagna. Lontane si intravvedevano le piramidi. Mi apparivano circondate dalla solitudine. Avvertivo la loro semplice razionalità in contrasto con la fluidità primordiale dell’ambiente».
E quella fluidità era soprattutto rappresentata dal Nilo.
«La prima volta che compresi la sua grandezza fu durante il viaggio in treno che dal Cairo mi portava verso l’Alto Egitto. Da un lato i palmizi, gli agrumeti, i campi di datteri messi a seccare. Dall’altro il colore a volte azzurro a volte scuro e limaccioso del fiume. La mattina frotte di piccoli pesci saltavano nell’acqua, in quel groviglio di correnti e di barche, che lente rientravano dopo la pesca. Pensavo alle inondazioni benefiche del Nilo. Accadevano da quando il fiume esisteva. E lasciavano puntualmente il limo che fecondava la terra. E pensavo anche al modo in cui l’intervento umano, con la costruzione di bacini e di dighe, stava distruggendo tutto questo».
Ha avuto la fortuna di poter vedere un mondo ancora straordinariamente bello e poterlo raccontare.
«Non ci sarebbe stata una civiltà così avanzata, che per tremila e cinquecento anni ha rivaleggiato con il mondo, senza quel fiume. Proprio per questo l’Egitto non sviluppò una cultura della morte come si è creduto sulla base dei reperti e delle migliaia di tombe. Ma fu una civiltà della vita con una cultura altissima che ho raccontato nelle sue diverse accezioni».
Dunque “egizio” non è l’equivalente di funereo.
«Per carità. Le mode hanno imposto l’immagine dell’Egitto come metafora del funebre. Ma quel mondo seppe esprimere tutt’altro. Ricordo che il mio primo libro che incuriosì Bernard Berenson insisteva proprio su questo aspetto».
Ha conosciuto Berenson?
«Benissimo. Mi giunse una lettera con la quale mi invitava nella sua villa, I Tatti, dalle parti di Fiesole. Lo incontrai. Vidi quest’uomo piccolo, elegante, ieratico. Mi disse che era stato da poco in Egitto e che aveva trovato oltre modo utile il mio libro sulla civiltà egiziana. Lo colpivano l’ottimismo e la competenza con cui era stato scritto. Poi andammo a tavola. Mi parlò di un’ala della biblioteca dedicata alla letteratura copta. Gli chiesi se potevo frequentarla. Mi rispose: quando vuole. Fu così che passai un po’ di tempo a lavorare ai Tatti».
Accennava a un viaggio recente fatto in Egitto.
«L’ultima volta ci sono stato quattro o cinque anni fa. Ho visto solo desolazione. Lo dico con il cuore spezzato. Che epoca è mai la nostra?».
Provi a dirlo.
«Magari tra cent’anni si dirà che il nostro fu un tempo meraviglioso. In fondo pensa che la gente nel Quattrocento fosse meno triste di oggi? Più allegra? Macché. Però faccio fatica a immaginare la nostra epoca come la migliore.
Non capisco più niente e mi rassegno al giogo della vecchiaia che mi ha consentito di superare il secolo. Leggo sempre meno. E ogni tanto metto su una specie di disco mentale. Gira, gira, gira. Parlano i ricordi in mia vece».
E il corpo?
«Il corpo va da un’altra parte. Ci sono i dolori. Ma dico: appartengono all’altro me. È curioso, se voglio alzarmi devo prima deciderlo. Non è più un gesto naturale. Mi sembra di far parte di una piccola recita amatoriale. A volte il disco chiede: com’è stata la tua vita? Dovrei rispondere: fortunata, è stata. Ma un senso di insoddisfazione mi afferra. Alla bocca dello stomaco e qui sulla fronte. Mi tolgo gli occhiali. Vorrei piangere. Ma so di non averne il diritto. Lunghissima è stata questa mia vita».