giovedì 4 giugno 2015

La Stampa 4.6.15
È l’architettura della luce a modellare il tempio cristiano
Architetti, docenti universitari, teologi e artisti discutono alla Comunità di Bose sul rapporto della liturgia con gli spazi luminosi, tra realtà e significati simbolici
di Enzo Bianchi priore di Bose


L’architettura di una chiesa dovrebbe riuscire nell’operazione - o meglio nella predisposizione architetturale - di rendere possibile che la luce, nella quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28), ci riveli chi è la luce del mondo, colui che ha detto: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). E se «nel Lógos era la vita, la vita luce degli uomini» (cf. Gv 1,4), se «il Lógos è la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (cf. Gv 1,9), allora in un’architettura di assemblea cristiana la luce deve sempre tendere a essere simbolica, sacramentale.
Questo non significa che la luce debba abbagliare, ma che il suo potere rivelativo deve modularsi in luce, penombra e oscurità, dicendo e non dicendo, mai abbagliando e mai lasciando regnare le tenebre. È significativo lo spazio di qualsiasi chiesa cristiana, nella quale la luce del giorno entra in molteplici modi: in squarci di ogiva, oppure attraverso filtri che la rendono dolce, attraverso vetrate che ne dettano un racconto… E quando scende la sera e lo spazio della chiesa potrebbe essere invaso dalle tenebre, ecco la lampada palpitante, che impedisce alle tenebre di regnare.
«Sia la luce!» (Gen 1,3), è stata la prima parola uscita dalla bocca di Dio sulla terra che era «informe e vuota» (Gen 1,2), mentre «le tenebre ricoprivano l’abisso, e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque» (ibid.). In questa gestazione, la parola di Dio crea la luce prima di ogni sorgente luminosa, prima del sole, della luna e delle stelle, creati il quarto giorno. Luce che non si vedeva, ma che faceva vedere; luce creata e rivolta verso l’altro da sé, verso le creature, in uno slancio in cui si può cogliere come in Dio la luce sia amore e vita.
Il desiderio di Icaro
Ecco perché noi umani siamo rivolti alla luce, cerchiamo la luce, siamo affascinati dalla luce. Il desiderio di Icaro abita le profondità dei nostri cuori, e tale desiderio nel cristianesimo è stato disciplinato, ma non negato. Basterebbe pensare all’orientamento verso Oriente delle nostre chiese, soprattutto antiche e medievali, alle trifore o alle monofore cistercensi nelle absidi, alle fenditure che consentono di segnare il tempo, con la luce del sole che penetra attraverso di esse nelle chiese. Ma anche agli inni che nelle lodi mattutine della liturgia horarum cantano alla luce, al sole, alla stella del mattino. Se davvero ci fosse consapevolezza della bellezza e della forza della luce, i cristiani potrebbero capire che cosa significano le parole di Gesù: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,15), o quelle dell’Apostolo: «Voi siete figli della luce e figli del giorno» (1Ts 5,5; cfr. Ef 5,8). Ma la cecità oggi pare inguaribile, perché chi non vede è convinto di vedere (cfr. Gv 9,41)…
La chiesa di Bose non è una chiesa che possa vantarsi per qualche aspetto. È stata pensata, progettata e costruita da noi monaci e monache di Bose, attraverso una lunga meditazione, durata almeno un decennio. Abbiamo anche commissionato il progetto ad architetti italiani ed europei, ma poi siamo stati incapaci di accogliere le loro suggestioni, per noi poco modeste. Volevamo infatti una chiesa modesta, una chiesa che nascesse con lo stesso spirito che aveva guidato i cistercensi a costruire le loro prime chiese monastiche. E da loro ci siamo lasciati ispirare, in particolare dalle loro granges della Francia del Nord.
Esuli nel deserto
Quella di Bose è una chiesa monastica nella quale l’assemblea si sente popolo di Dio pellegrino, esule nel deserto, dunque una chiesa che deve significare l’icona di una carovana in cammino verso il Regno. L’abside è lo spazio di gloria che raccoglie gli sguardi e le preghiere di tutti. Nell’abside la luce penetra dalla trifora, luce unica e capace di alludere alla Triunità di Dio. Sull’assemblea la luce giunge tenue, accogliente, non diretta, e permette l’habitare secum, il raccoglimento, il silenzio adorante, l’assemblea ordinata e composta.
Avendo costruito la chiesa rivolta a Nord, come quelle certosine rivolte alla stella polare - secondo l’antico adagio «Stat crux dum volvitur mundus» -, essa riceve il sole direttamente dalle finestre unicamente a mezzogiorno, quando i raggi penetrano lungo la linea centrale sulla quale stanno ambone, altare, tabernacolo e libro; e il 6 agosto, solennità della Trasfigurazione del Signore, la luce cade proprio a mezzogiorno sull’ambone. È una povera chiesa monastica, a immagine della nostra comunità; una chiesa senza pretese, non degna di essere guardata, ma capace di in-segnare, di fare segno, a chi sa guardare.