martedì 2 giugno 2015

La Stampa 2.6.15
“Non vittoria”: Pd di nuovo nel caos
Per la minoranza la Liguria e l’emorragia di consensi dimostrano che senza la sinistra si perde
I Bersaniani di nuovo all’attacco: “Siamo tornati al 25%”
E Alfano chiede di cambiare l’Italicum
di Carlo Bertini


Dice con l’amaro in bocca uno degli uomini più vicini al premier, «se candidavamo Andrea Orlando, lui vinceva a mani basse in Liguria e sarebbero stati tutti zitti oggi». Invece non è andata così e la sconfitta ligure ora fa esplodere il Pd: la minoranza con orgoglio nota come a vincere siano solo candidati dichiaratamente di sinistra, Emiliano, De Luca, Rossi e Marini, mentre le renziane Paita e Moretti perdono. E si prepara a dare battaglia sulla scuola, sulla riforma costituzionale e sui decreti fiscali in arrivo: quelli che entro fine giugno devono sciogliere il famoso nodo della soglia di depenalizzazione dell’evasione fiscale.
L’avviso di Alfano
Ma non è il solo effetto di elezioni che provocano pure un mezzo maremoto nel partito di Alfano. Il quale pur garantendo che il suo non è un ricatto, alla luce del suo 4% ora chiede di cambiare l’Italicum, «per poter costruire coalizioni che scongiurino che un partito con il 15-20% come quello Grillo possa arrivare al ballottaggio». Ma non sfugge che aprire alle coalizioni sarebbe anche un argine alle tentazioni centrifughe dei suoi verso altri lidi. Lo fa capire la De Girolamo quando dice «per costruire un centrodestra unito, via dal governo». Alfano la stoppa subito, «ci sarà tempo per ragionare come costruire un nuovo centrodestra».
La trincea del Senato
Nel Pd invece esplode la voglia di rivalsa degli ex Ds guidati da Bersani, la cui linea ora è «stare col governo ma tirarlo a sinistra sui contenuti». Tutti aspettano al varco Renzi, facendo notare che se «il Pd torna al 25%», come dice D’Attorre, se ne ricava che Renzi non potrà più sferzare i compagni con l’argomento che con lui si va al 40%. Perché «non è vero che Renzi è l’argine per contenere le forze antisistema, questa è una “non sconfitta”», è analisi di Miguel Gotor, che rovescia su Renzi l’accusa che fu fatta nel 2013 a Bersani.
I più “responsabili” alla Damiano dicono che «la strada del conflitto permanente non paga, va ripresa quella del dialogo nel Pd», i più duri, cioè gli uomini di Bersani si preparano a dare filo da torcere: al Senato domani approda in aula la riforma della scuola, «che va cambiata su diversi punti, stiamo facendo errori che per cinque o dieci anni ci verranno rimproverati» dice Gotor: i numeri sono dalla loro parte, visto che la ventina di voti di cui dispone l’ex leader sono essenziali per la maggioranza. Così come lo sono quelli di Ncd per le unioni civili che Renzi vuole varare entro l’estate. Dunque ora la minoranza si interroga sull’atteggiamento che assumerà Renzi. Se cioè forzerà la mano spingendo ai margini la sinistra che vuole condizionare la sua azione di governo. O se accetterà di scendere a patti.
E riparte la rottamazione
A sentire il cerchio stretto del leader («sono elezioni di medio termine in cui scontiamo un anno di un governo che ha pestato i piedi a categorie e corporazioni») se c’è una colpa è non aver rivoltato ancora il partito da cima a fondo. Cioè quello che sarà fatto ora. Lunedì ci sarà una Direzione che si annuncia pepata e il premier non sembra nutrire in queste ore sentimenti pacati da mediatore. Quando i renziani parlano di «portare a termine la rottamazione», di «bisogno di mettere mano al partito rivoltando gli apparati locali», si capisce bene che aria tira.