lunedì 1 giugno 2015

La Stampa 1.6.15
Sicurezza oltre il carcere
di Vladimiro Zagrebelsky


Dopo la sentenza con cui la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto che la ristrettezza dello spazio destinato ai detenuti italiani fosse causa, in se stessa, di trattamento inumano, sono stati presi provvedimenti. Da un lato alcune modifiche legislative hanno prodotto la diminuzione del numero dei detenuti in carcere e dall’altro la gestione di varie carceri è stata rivista per consentire ai detenuti la maggior possibile permanenza fuori delle celle durante la giornata. In questo modo sembra risolto o almeno rinviato il contenzioso che esponeva anche l’Italia (insieme a altri Paesi) a gravi addebiti in sede europea per il fatto del sovraffollamento carcerario.
Ma la questione del rapporto tra lo spazio disponibile e il numero dei detenuti è solo una di quelle che riguardano il carcere. E lo schematismo della sentenza europea (meno di 3 mq per detenuto eguale trattamento inumano) ha condotto a credere che quello e solo quello fosse il problema da risolvere. Mentre il senso e il contenuto della politica penitenziaria deve avere più ampio respiro e la stessa esigenza di evitare trattamenti inumani va ben oltre. Nei prossimi mesi verrà approvata una legge di delega al governo per la riforma di diversi aspetti dell’esecuzione della pena detentiva. E il ministero della Giustizia accompagna ora i lavori parlamentari con un’ampia consultazione di persone, associazioni e organismi che, per la loro esperienza, vanno coinvolti e possono offrire sostegno e consiglio. La riforma che verrà introdotta riesaminerà il complesso di strumenti che già ora consentono di gestire il corso dell’esecuzione della pena. E’ augurabile che insieme e forse prima dell’innovazione legislativa il governo si applichi a rendere pienamente praticati tutti gli strumenti che già oggi sono scritti nelle leggi. Per consentire il lavoro nelle carceri non c’è bisogno di cambiare le leggi. E così per far sì che le forme non carcerarie di esecuzione delle pene siano serie nella loro concreta applicazione.
La Costituzione prescrive che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Per definizione le pene procurano sofferenza; è la loro natura ed anche il loro scopo. Se la ricerca della giustificazione della pena rinvia alle discusse radici filosofiche del diritto di punire, quella dei risultati ottenuti punendo potrebbe essere più fattuale e incontrovertibile. Essa conduce a un marcato scetticismo. Il tasso di recidiva in chi ha scontato una pena in carcere è alto. Oltre alla pervicacia di chi, a causa della sua personalità, non ha ottenuto forme di esecuzione diverse da quella carceraria, la recidiva dimostra la scarsa efficacia del carcere e del trattamento rieducativo che dovrebbe accompagnarlo.
Ma nessuna riforma può contraddire l’esigenza di garantire la sicurezza di tutti. La separazione dalla comunità sociale che deriva dalla carcerazione è l’estremo strumento a disposizione dello Stato. Certo vi sono emozioni sollecitate ad arte e false impressioni che percorrono l’opinione pubblica. Ma per la fiducia che deve poter esser riposta nello Stato è devastante vedere che alla commissione di reati non fa seguito nessuna reazione, che sia rigorosa e rapida. Ed è indiscutibile che la garanzia della sicurezza sia un dovere dello Stato. Occorre tener conto della grande varietà di situazioni, della personalità dei condannati, della loro pericolosità, della praticabilità di alternative alla pena detentiva. E vi sono casi in cui non esistono ora alternative immaginabili alla carcerazione. Insieme alla condanna per le condizioni inumane della detenzione, la Corte europea ha condannato l’Italia per non aver garantito la vita di due donne, uccise da un pericoloso criminale scriteriatamente ammesso a scontare la pena all’esterno.
Ma poiché il carcere spesso abbrutisce, costringe all’ozio in cattiva compagnia, interrompe anche i legami positivi come quelli familiari (con questo affliggendo anche coniugi e figli innocenti), occorre sostituire ad esso, quando sia possibile, alternative che siano serie, sia visibili nella loro natura di sanzioni dovute alla commissione di reati, siano concretamente eseguite. La pluralità di alternative, capaci di adattarsi a situazioni molto diversificate, consente di sfuggire all’alternativa del carcere o (quasi) niente, riducendo il primo al suo ruolo di estremo rimedio.
In questo quadro, il secco titolo di un recente libro «Abolire il carcere» (di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta) appare provocatorio e tale da chiudere anziché aprire il necessario dialogo e la necessaria considerazione di esigenze diverse e tutte gravi. Ma la copertina e soprattutto il contenuto del libro indica anche ch’esso vuole essere «Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Infatti non si può pensare di «abolire», e nemmeno di ridurre il ricorso al carcere senza garantire, più e meglio di ora, la sicurezza dei cittadini: la sicurezza e la sensazione di sicurezza. In caso contrario forti opposizioni nell’opinione pubblica renderebbero impraticabile ogni riforma. E allora l’interesse del libro risiede nell’illustrazione di possibili sanzioni e misure alternative al carcere, siano esse pecuniarie, o risarcitorie per le vittime dei reati, oppure tali da privare effettivamente il colpevole del profitto del reato, o fargli compiere lavori di utilità pubblica. Si tratta di sanzioni che possono essere efficaci e tali da evitare il problema di una risocializzazione difficile, se non impossibile, nel carcere. Naturalmente simili sanzioni diverse dal carcere per essere serie e realmente scontate richiedono che lo Stato e le comunità locali impieghino mezzi, che costano. Ma anche il carcere costa, e costa molto.