Corriere 5.6.15
«Italiani made in China»: se la cultura è sospesa tra due mondi
di Aldo Grasso
«Non ci deve dolere di non essere capiti dalle persone, ma di non capire»: è stata forse questa massima di Confucio a ispirare il viaggio di sei ragazzi che sono partiti alla volta della Cina per riscoprire e capire le proprie radici.
Alex, Francesca, Alessandro, Lucia, Massimiliano e Connie fanno parte di quelli che si definiscono italiani di «seconda generazione»: figli d’immigrati, nati in Italia oppure arrivati nel nostro Paese in tenera età. In certi casi, la Cina non l’hanno nemmeno mai vista. I dati dicono che i cinesi residenti in Italia sono circa 320 mila e il 50 per cento di loro ha meno di trent’anni. Un’intera generazione che è spesso chiamata in causa, a volte anche in modo strumentale, nei dibattiti sulla cittadinanza o nei discorsi sull’integrazione. È molto più raro, invece, che se ne parli cercando davvero di capirne la cultura meticcia, sospesa tra due mondi, occidente e oriente, o il modo sostanzialmente nuovo di intendere il concetto di nazionalità e appartenenza.
Per questo l’idea di partenza di «Italiani made in China», il nuovo programma di Real Time, dedicato alle storie di questi giovani italiani di seconda generazione, è molto interessante (mercoledì, ore 23.05). Che cosa vuol dire essere «nuovi» italiani oggi? Il docu-reality prova a uscire dagli stereotipi per raccontare le loro vite, le storie difficili che molti hanno alle spalle, il rapporto con le famiglie, ancora molto legate alle tradizioni e alla cultura cinese, i gesti di razzismo che alcuni hanno dovuto subire. È quasi un programma di servizio: attraverso gli occhi dei sei partecipanti, disorientati all’arrivo a Shanghai, scopriamo degli aspetti sconosciuti di questo enorme Paese, proiettato nel futuro ma con un’anima ancora molto arcaica.
Forse non servirà a promuovere l’integrazione, ma sicuramente «Italiani made in China» mostra (quando non cede troppo alla retorica) uno spaccato di una realtà che merita molta attenzione.