Corriere 20.6.15
La compagna che amava i fascisti
Storia autobiografica di una donna dall’animo ribelle. Al partito e alla famiglia
La politica c’entra, ma fino a un certo punto. Come la militanza degli anni Settanta, che facilmente diventava estrema, consumando menti e corpi. Il resto — la perdita dell’innocenza e la discesa verso inferi mai immaginati prima — l’hanno determinato uno spirito ribelle, la voglia di autoaffermazione contro le decisioni altrui e il conflitto con un padre che si rifiutava di capire (anche perché capire non era semplice).
Però sullo sfondo è sempre l’ideologia ad ammantare di presunta nobiltà meccanismi molto più banali. Come quello di un ragazzo pieno di sé e di fascino che strappa il primo appuntamento a una ragazza senza troppa autostima, le dice semplicemente «mi piaci», e all’improvviso tutto si scioglie. Nonostante lui sia fascista e lei comunista. Il nero ammalia la rossa, e lei si sente finalmente apprezzata, non solo come angelo del ciclostile o per la solerzia nel diffondere il giornale di partito.
È una storia d’amore e di odi, prima ancora che di schieramenti contrapposti, quella raccontata in Non mi abbracciare (Aliberti Wingsbert House) da Elena Venditti, ragazza degli anni Settanta, padre, madre, sorella e zie con solide radici a sinistra, e lei stessa militante del Pci, fino alla telefonata galeotta di un capopopolo dell’estrema destra, e al fatidico appuntamento. Dal quale nasce un rapporto sentimentale che porta con sé il cambio di campo e lo stravolgimento di frequentazioni, amicizie e abitudini. Provocando nuovi conflitti, in casa e fuori.
Perché nel partito non possono sopportare che una «compagna» frequenti un fascista, e tantomeno il papà di Elena; il quale, a differenza di madre e sorella, non lascia spazio a mediazioni e riversa sulla figlia degenere tutto il livore e un po’ della frustrazione del padre-padrone che caccia di casa la «traditrice» (lui che tradisce la moglie con una ragazza quasi coetanea delle figlie, e quando lo scoprono si limita a dire «devo decidere», facendo esplodere tutto il risentimento di Elena). Dopo il primo fascista arriva il secondo, più giovane e più romantico, almeno ai suoi occhi. Livio è il nome letterario, l’identità reale è quella di un neofascista appena diciassettenne nel 1980, coinvolto nelle gesta dei Nuclei armati rivoluzionari e in un paio di omicidi, e poi nella strage alla stazione di Bologna (che lui non ammette, come i suoi complici di allora); uno che si vantava di essere parte di una banda di «magnifici sette» disposti a tutto, «pazzi meravigliosi che sono contro tutto e tutti, in grado di ammazzare chiunque vogliono».
Al fianco di Livio, anche durante la latitanza di lui, Elena entra nell’abisso: lo aiuta in una rapina per dimostrargli di essere all’altezza del suo ideale di donna combattente, viene arrestata (provocando nuovi drammi in famiglia) e diventa una detenuta politica, sottoposta a tensioni e regole (soprattutto non scritte) che in quasi cinque anni di reclusione le fanno scoprire un’altra umanità. Che le trasmetterà dolore, ma pure legami sinceri e profondi, forse più di quelli intrecciati quando era fuori.
Le pagine sul periodo della prigionia sono le più belle e toccanti del libro, perché raccontano di come Elena si sia spogliata dell’abito che s’era autoimposta per sfuggire alle imposizioni altrui, e a scoprirsi finalmente libera.
Finché la libertà arriva davvero: dal carcere e dalla militanza con i «camerati» che non ha voluto tradire, ma con i quali non ha quasi più nulla da condividere; da quell’amore sbagliato che le ha deviato la vita e da una famiglia complicata che non le ha mai fatto mancare affetto e vicinanza. Offrendole un braccio al quale aggrapparsi per risalire dal buio e tornare a vivere. In un mondo completamente diverso da quello dei suoi vent’anni. Nel quale, trascorsi altri lustri e la giusta distanza dai fatti e dai traumi, ha trovato la voglia e la forza di ricordare in pubblico; offrendo una narrazione aspra ma genuina, utile a chi c’era (e non sempre s’è accorto di quello che gli accadeva intorno) e a chi non c’era.