Corriere 1.6.15
Rodchenko, la rivoluzione multimediale
In mostra a Vaduz
di Sebastiano Grasso
Lili Brik è infagottata in un enorme abito che, cadendo, ricopre la sedia su cui sta. Una mano fa da cuscino alla testa appoggiata al muro, l’altra tiene il libro Pro eto («Per questo») di Vladimir Majakovskji, di cui è stata musa ispiratrice e amante. Più che un abito, sembra una di quelle grandi coperte colorate che una volta si stendevano sui letti matrimoniali, nelle case di campagna dove si andava solo in estate, perché di notte c’era freddo.
Viso bello e spavaldo, quello di Lili; sguardo intelligente, bocca semiaperta e sorriso lievemente ironico, capelli raccolti sulla nuca. Più in là, Varvara Stepanova indossa il berretto dei venditori delle edizioni Gosizdat.
Entrambe, ritratte da Aleksandr Rodchenko (1891-1956), sono presenti nella rassegna Fotografia e design dedicata agli anni Venti e Trenta del costruttivista russo al Kunstmuseum Liechtenstein (Vaduz, sino al 21 giugno), a cura di Friedemann Malsch. Poco meno di un centinaio di lavori fra le immagini della Leika — salto con l’asta dell’atleta (sopra) , studenti a Lefortovo, centri di Cultura, zoo, parate sportive, immagini circensi — e la ricostruzione di arredamenti-tipo e soluzioni di interni al padiglione russo all’Esposizione internazionale delle Arti decorative e industriali di Parigi (1925).
«Quando bisognava promuovere in Occidente l’arte rivoluzionaria di sinistra — scriverà Majakovskji — il comitato per l’organizzazione dell’Esposizione di Parigi chi ha mandato in Francia? Rodchenko, che ha decorato quasi tutti i padiglioni del nostro settore. È lui che ha realizzato la sala di lettura, proprio quella che, assieme al club operaio, alla chiusura della mostra è stata regalata al partito comunista francese. Quel dono era l’immagine pubblica dell’Unione Sovietica all’Esposizione».
«Artista multimediale», Rodchenko spazia dalla fotografia alla grafica, dalla pittura alla scultura, dalla scenografia all’architettura, al teatro, al cinema, al design, alla pubblicità, alle installazioni (persino all’abbigliamento), riuscendo a ricreare l’atmosfera che, con le teorie costruttiviste, si respirava nella Mosca di Tatlin, Stepanova, Majakovskij, Popova.
La fotografia, soprattutto. Rodchenko ne rovescia i canoni tradizionali: cambia la prospettiva, fa esperimenti con luce e fotomontaggi, scandaglia i particolari geometrici, le varie angolazioni dei soggetti, ne coglie scorci, dettagli. Lo sanno bene i suoi studenti dello Vchutemas (Atelier superiore d’arte e tecnica, considerato il Bauhaus russo), cui suggerisce una sorta di vademecum: caratterizzazione dei passeggeri alle fermate dei tram (mattina e pomeriggio), andare per mercati, commerci all’aperto e uffici di collocamento, stazionare davanti alle fabbriche (entrata e uscita degli operai).
Estende l’indagine a natura, a funzioni e fini dell’arte, così che la nuova generazione di artisti, designer, architetti possa guardarsi intorno, in maniera diversa dai loro predecessori. Il nuovo, dice Rodchenko, ha bisogno di altri mezzi di espressione: «Dobbiamo creare e costruire basandoci su scienza e tecnica». Rodchenko aveva fatto tesoro degli insegnamenti avuti alla scuola d’arte di Kazam e all’Istituto di Belle arti di Mosca. A sua volta, li trasmette agli studenti. Quando, negli anni Venti, guarda i propri dipinti, ritenendoli «poco rivoluzionari» scuote la testa. Gli viene in mente persino di bruciarli, ma desiste perché «rappresentano dieci anni di lavoro», anche se «sono inutili come una chiesa». Trent’anni dopo cambierà idea. Ma solo sull’arte, non sulle chiese .