lunedì 11 maggio 2015

Repubblica 11.5.15
Chi minaccia la supremazia americana
di Moisés Naìm


GLI Stati Uniti continueranno a essere il Paese più potente del mondo? Molti sono convinti che la Cina finirà per soffiargli il primato, per le sue dimensioni smisurate e per il suo progresso economico, sociale e militare che ha quasi del miracoloso. Ma al colosso asiatico manca ancora parecchio per spodestare gli Stati Uniti. La Cina è ancora molto povera: il suo reddito pro capite è equivalente a quello del Perù o delle Maldive. Ma se non sarà la Cina, allora chi sarà? Oppure gli Stati Uniti rimarranno a tempo indefinito la superpotenza planetaria? Non credo. L’influenza internazionale di cui gode l’America è minacciata da divisioni politiche interne ormai croniche e che limitano la sua capacità di guidare il mondo.
Quattro esempi recenti sono indicativi. Il primo ha a che vedere con il Fondo monetario internazionale (Fmi), un’istituzione criticata, ma che se non esistesse bisognerebbe crearla. La sfida non è eliminarla, ma migliorarla. E questo hanno cercato di fare gli Stati Uniti nel 2010 con riforme destinate ad adeguare l’istituzione alla realtà del XXI secolo. Barack Obama aveva proposto di accrescere la partecipazione della Cina al Fondo, portandola dal 3,8 al 6 per cento, percentuale che non rispecchia comunque il fatto che il colosso asiatico presto avrà l’economia più grande del pianeta e che rimarrebbe al di sotto del 16,5% degli Stati Uniti. Le riforme consentirebbero anche di accrescere il peso all’interno del Fondo dei Paesi emergenti, che rappresentano la metà dell’economia mondiale. E questo si tradurrebbe in cambiamenti dell’obsoleta composizione del direttorio dell’istituzione, ancora concepito per riflettere l’ordine mondiale del 1944. Le proposte sono state approvate da tutti i Paesi e si aspetta solo, per tradurle in pratica, il Congresso Usa. Da cinque anni non si riesce ad ottenere questa approvazione. Jeb Hensarling non è d’accordo. Chi? Hensarling, deputato eletto nel quinto distretto del Texas, a capo della commissione incaricata di approvare queste riforme. E né a lui né ai suoi alleati del Tea Party va a genio il Fmi. Così, un gruppo ristretto di parlamentari ha il potere di impedire che un’istituzione vitale per l’economia mondiale possa essere riformata in un modo che va incontro agli interessi sia del mondo sia degli Stati Uniti.
Dopo aver aspettato per cinque anni, la Cina nel 2014 ha fondato una sua istituzione, la Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali, e ha invitato altri Paesi a partecipare. Washington ha messo in campo una campagna diplomatica di dissuasione. Senza risultato. Perfino gli alleati di sempre, come Regno Unito, Australia o altri Paesi europei, hanno ignorato le pressioni americane e siedono fra i 57 fondatori della nuova banca. Washington dovrà limitarsi a guardare la nuova istituzione, senza poter influire sulle sue decisioni.
Un altro organismo che proietta l’influenza economica degli Stati Uniti nel mondo è la Eximbank, la banca per il finanziamento delle esportazioni. Un gruppo di parlamentari minaccia di chiuderla. A loro non importa che i grandi Paesi esportatori del mondo abbiano istituzioni analoghe, o che solo negli ultimi due anni la Cina abbia erogato prestiti per 670 miliardi di dollari a supporto delle sue esportazioni, mentre dalla sua creazione (nel 1934, per opera di Roosevelt) l’Eximbank ha prestato in tutto 570 miliardi di dollari.
A volte le situazioni meno visibili per l’opinione pubblica consentono di capire meglio le tendenze future. Dal 1959 la Banca interamericana per lo sviluppo (Bis) è la principale fonte di finanziamento per i Paesi dell’America Latina. La Bis ha deciso di accrescere la sua capacità per sostenere il settore privato della regione, e ha incrementato il suo capitale di 2 miliardi di dollari. È riuscita a farlo nonostante gli Stati Uniti si siano rifiutati di contribuire. Per mantenere l’influenza in quest’area gli Stati Uniti — i maggiori azionisti della Bis — avrebbero dovuto apportare 39 milioni di dollari all’anno per sette anni. Gli altri Paesi azionisti hanno dato l’assenso alla partecipazione. Così, l’effetto combinato della cecità ideologica del Congresso e della incompetenza dei burocrati del dipartimento del Tesoro ha fatto sì che gli Usa perdessero un altro strumento per essere rilevanti in una regione che, a sentire i discorsi ufficiali, rappresenta una priorità per la Casa Bianca.
Larry Summers, economista che ha ricoperto incarichi di primo piano nel governo statunitense, ha scritto: «Finché uno dei nostri due partiti si oppone costantemente agli accordi di libero scambio con altri Paesi e l’altro è sempre contrario a finanziare le organizzazioni internazionali, gli Stati Uniti non potranno influenzare il sistema economico mondiale». La minaccia alla supremazia globale degli Stati Uniti non viene da Pechino. È annidata a Washington, nell’infra-Congresso che può mettere al tappeto la superpotenza. Twitter @ moisesnaim (Traduzione di Fabio Galimberti)