domenica 10 maggio 2015

Repubblica 10.5.15
Carlo Sini
“La filosofia ha assorbito tutto il mio narcisismo”
Dalla passione per la musica alla cattedra di teoretica a Milano a “maestri” come Enzo Paci
Spinoziano convinto, dice: “Dio ha tanti ruoli e contribuisce al Pil della felicità”
colloquio con Antonio Gnoli


Jacques Derrida
Lo incontrai a Palermo quando ci venne conferito insieme a Popper il premio Nietzsche: una targa d’oro Il suo nome era scritto male ma lui si divertì molto
Alberto Mondadori
Assomigliava ad un principe rinascimentale con la sua corte di intellettuali: Argan
Fortini, Cantoni, De Benedetti
De Martino. Non aveva il senso del denaro per questo fallì

SULLA piccola altura di Velia (un tempo Elea) dove presumibilmente Parmenide mostrò la sua concezione dell’Essere, due ragazzi si baciano. Di lì a poco Carlo Sini terrà una lezione sul divenire e un’onda di studenti siederà chi sull’erba chi sulle sedie allestite per questo piccolo festival di filosofia sulla costa del Cilento. Nell’attesa vola nell’aria Bésame mucho. Non so perché quella canzone. Il cui effetto è struggente e irreale. Ma le canzoni restituiscono attimi. E questo attimo, in cui Sini seduto guarda uno spicchio di mare e io guardo lui, sembra racchiudere qualcosa di irripetibile. Sembra dirci che davvero è l’ultima notte e che qualcosa si è perso. Ma ancora siamo in tempo per parlarne. Sini è un maestro senza il desiderio di esserlo. Lo è diventato nei tantissimi anni che ha insegnato filosofia teoretica a Milano. Ironia socratica verrebbe da attribuire a quest’uomo che ha scritto libri bellissimi e parlato spesso come se fosse “la ùltima vez” . «Parlare come se fosse l’ultima volla ta è privilegio di pochi. Credo di essere riuscito a farlo raramente. C’è una responsabilità terribile in ciò che si dice». Non so che replicare. Dico solo che abbiamo ascoltato una canzone molto triste. Di una tristezza che libera la visione in mezzo a questa distesa di pietre e di erba.
C’è un’ultima volta della filosofia?
«Ogni volta è sempre anche l’ultima volta. Non solo perché il futuro è ignoto, ma perché ciò che accade porta con sé l’intero mondo, nella circostanza di quell’accadere. Si potrebbe dire allora che il “sapore” della filosofia, o meglio di un pensiero, è legato all’attimo del tempo vissuto che lo formula. E solo può tornare nella memoria il ricordo, cioè la testimonianza, di ciò che non è più».
Ciascuno testimonia con il proprio passato?
«Siamo testimoni fin dalla nascita. La responsabilità è già dentro le nostre radici».
Lei dove è nato?
«Anagraficamente a Bologna. La mia famiglia dopo la rotta di Caporetto fuggì da Venezia destinazione Roma. Mia madre aveva tre anni e quaranta di febbre. I suoi si fermarono a Bologna e lì, alla fine, decisero di restare. Sono figlio di due padri. Il primo andò via che avevo 13 anni. Mia madre si sposò con il secondo da cui ereditai il cognome ».
Non ha tenuto quello del suo padre vero?
«Non potevo. Le leggi di famiglia lo impedivano. Lui era già sposato. Ero un N.N. E una mattina mi risvegliai “Sini”. C’eravamo trasferiti a Milano. Vi ho vissuto la guerra, i rifugi, le morti con un senso di superficiale allegrezza. L’ultimo periodo fu terribile. Gli aerei mitragliavano a bassa quota. Si sentiva l’urlo dei motori. Il crepitio delle pallottole. Vivere o morire dipendeva spesso se eri su un marciapiede o sull’altro. Per due volte fui coinvolto dalle raffiche. Poi tutto ebbe fine».
Ci fu Piazzale Loreto.
«Arrivammo tardi. Con i miei eravamo partiti dalla periferia di Milano. Ma quando giungemmo sul posto avevano rimosso i corpi. C’era una strana elettricità nell’aria. La folla aveva annusato il sangue. Se ne era impregnata. Come in un sacrificio estremo, fatto di ferocia e rivalsa. Fu un bene dopotutto aver mancato quell’appuntamento con la storia. Ho spesso pensato che la morte degli altri ci riguarda più di quanto siamo disposti ad ammettere. O ad accettare. Ricordo che negli anni del liceo – quelli in cui si passa dalla spensieratezza alle prime forme di impegno - pensavo alla nostra impotenza davanti alla morte. La vedevo come la sola relazione mo- dalla quale non ci si libera».
Cosa le ha insegnato la scuola?
«Poco o nulla. Ero uno studente svogliato. Fui a volte rimandato e perfino bocciato. Non amavo niente di quel mondo. Poi esplose una passione profonda, inspiegabile, per la musica. Chiesi ai miei di pagarmi lezioni di pianoforte. Acconsentirono a patto che migliorassi il rendimento scolastico. Fu così, grazie alla musica, che arrivai all’università. Scelsi filosofia senza convinzione. Senza una ragione, salvo forse quella che il professore di liceo era il solo a trattarci come fossimo degli adulti».
L’università andò meglio?
«Decisamente. Cercai un approccio con Antonio Banfi. Ma lui c’era e non c’era. Come senatore del Pci era spesso a Roma. Cominciai a frequentare Giovanni Emanuele Barié, allievo di Piero Martinetti. Fu lui a fondare la cattedra di filosofia a Milano. Un personaggio stravagante tra D’Annunzio e Nietzsche. Molto aristocratico. Era stato ufficiale di cavalleria e ferito durante uno scontro aereo. Per quei cieli macedoni gli avevano dato una medaglia d’argento. Non so se ai suoi occhi era più importante l’onorificenza o i testi di Kant che ci leggeva direttamente in tedesco. Si sparò un colpo di pistola alla fine del 1956. Milano era sotto una tormenta di neve. E io senza più un maestro».
Cosa vuol dire maestro?
«Non l’ho mai capito veramente. Lo devi venerare? Lo devi sopprimere? La questione non è semplice alla fine ho creduto che la cosa migliore fosse di ricordarlo».
Immagino alluda a Enzo Paci su cui ha scritto un libro di recente.
«Sì, alla fine ne è uscita una elaborazione del lutto: la storia mia e di Paci fino alla sua morte».
Che personaggio era?
«Incantevole, se non altro per il fatto di lasciarti completamente libero di fare ciò che volevi. Però poteva trascorrere ore a discutere. Restai affascinato dalla sua cultura incredibilmente vasta. Era amico di Sartre e quando fondò la rivista Aut Aut nel primo numero comparve una lettera di Thomas Mann a lui indirizzata. Questo dava il tono della sua statura europea».
Non era solo un accademico.
«No. Poteva invitare alla Statale il regista Antonioni per parlare dell’alienazione, davanti a un corpo docente costernato per le scelte e geloso delle proprie prerogative. Il suo antiaccademismo lo si vide anche nel contributo che diede allo sviluppo della casa editrice Il Saggiatore ».
Fu un grande sogno editoriale partito dall’ambizione culturale di Alberto Mondadori. Lo ha conosciuto?
«Sì, a me faceva pensare a un principe rinascimentale con la sua corte di intellettuali: oltre a Paci, Franco Fortini, Remo Cantoni, Giacomo Debenedetti, Giulio Carlo Argan, Ernesto De Martino. In quegli anni, alla fine dei Cinquanta e gran parte dei Sessanta, costoro diedero un impulso nuovo alla cultura. Il solo appunto che si poteva muovere ad Alberto Mondadori è che non aveva il senso del denaro e per questo fallì».
Quel gruppo di intellettuali creò nuove tendenze, svecchiò la cultura italiana. Ma alla fine non riuscirono a riconoscersi in un progetto editoriale come invece seppero fare Einaudi e pochi anni dopo Adelphi.
«Fu un limite dettato anche dall’eccesso di personalismi. Fortini, dietro la sua ruvidezza era anche un uomo molto disponibile. Peccato la sua litigiosità. Debenedetti viveva a Roma, con i suoi problemi di cattedra, De Martino era splendidamente concentrato sui temi del Sud e quanto a Paci fu il solo a tentare una saldatura con la politica, con Marx rivisto attraverso Husserl».
Aveva l’autorevolezza ma fallì.
«Siamo un paese dove le teorie professate dagli intellettuali scadono spesso nel ribellismo. Paci non fu un’eccezione. Come non lo furono certi personaggi della nostra vita pubblica. Altri ebbero un profilo più dignitoso».
A chi pensa?
«Pasolini. Mi piaceva quel modo di stare nella vita, più che nei “ragazzi di vita”. Le sue parole non stonavano con quello che si vedeva intorno».
Le parole a volte cantano.
«Mostrano il loro legame con la musica. Ma è un’altra storia. La parola nasce dal ritmo, come la musica. La poesia utilizza il ritmo in modo letterale e la filosofia, che non canta, si muove sulle tracce del ritmo e attraverso di esso vede. Vede il Ritorno. Vede l’Enigma».
C’è molto Nietzsche
«È vero. La verità è la tomba dei filosofi».
Nessuno la degna più di uno sguardo.
«La signora è decisamente invecchiata».
Perché ha lasciato la musica?
«Presi il diploma di pianoforte, ma senza particolari ambizioni. Avevo il talento per andare avanti? Forse sì. Ma non avevo il tempo per curarlo. La filosofia mi ha occupato interamente. Assorbito tutto il mio narcisismo. È buffo».
Cosa è buffo?
«Pensandoci non c’è mai stato un momento in cui abbia detto: da oggi smetto di suonare e di comporre. Ma è accaduto. Ci sono cose che muoiono da sé. Senza proclami, né decisioni, né sacrifici».
Dicevamo di Nietzsche. In fondo un autore molto distante dai suoi maestri.
«Che maestri sarebbero se non avessimo il coraggio di metterceli alle spalle. Una delle ultime volte in cui incontrai Paci, mi guardò con infinito smarrimento. L’università lo aveva messo in disparte. Mi disse: non mi faccia del male. Gli chiesi cosa intende professore? Dovrei dirle: non mi deluda. Ma sarebbe poco visto il rapporto che c’è stato tra noi. Dopodiché mi rimproverò per essere passato da Marx e Husserl a Nietzsche e Heidegger».
Le vite speculative dei filosofi sono tremendamente serie.
«Ne parlavo spesso con il mio amico Jacques Derrida».
Come vi siete conosciuti?
«La prima volta che lo incontrai fu a Palermo. Quando gli venne conferito il premio Nietzsche, assieme a Popper e al sottoscritto. Ci fu consegnata una targa d’oro. Su quella di Derrida il nome era scritto in modo errato. Avevano invertito le doppie. Non disse niente. Ma a tavola me la fece vedere di nascosto. Rideva divertito. Era un uomo spiritoso e sensibile».
Tutto qui?
«Avevamo alcuni punti in comune, Peirce per esempio. E altri che ci dividevano. Ma in fondo in filosofia lo scambio non può avvenire in modo fecondo senza una qualche reciproca ostinazione e sordità. Il nostro incontro più lungo avvenne a Meina, non distante da Novara. Discutemmo per tre giorni. E alla fine scoprimmo una certa assonanza con Spinoza. Potrei definirmi spinoziano ».
Cosa significa?
«Spinoza fu il più limpido tentativo di costruire una filosofia che si facesse carico della rivoluzione scientifica moderna, senza cadere nel feticismo scientifico».
Ossia?
«Lasciamo alla scienza il compito della conoscenza oggettiva e destiniamo la filosofia alla costruzione di un soggetto politico-morale che sia all’altezza della rivoluzione copernicana».
Traduca.
«Essere spinoziani è non sentire il bisogno di una spiegazione, di un senso, di una giustificazione che sia oltre questo mondo. Nessuna superstizione».
Niente al di là?
«Era l’accusa di ateismo al povero Baruch».
Non l’ha mai tentata Dio?
«Da bambino andavo in chiesa. Era la nostra educazione. Il nostro pane quotidiano. Poi tutto questo è sparito. Anche a causa, forse, dell’inettitudine dei preti. Non ho mai avuto nostalgia del sentimento religioso. Non capisco le persone che si affannano a cercare un senso oltre: la vita basta a se stessa».
Non c’è arroganza intellettuale in quel che dice?
«Non ho alcuna pretesa di imporre punti di vista sul mondo. Ma non ho nessun desiderio di accettare punti di vista esterni al mondo. Poi è evidente che Dio ha tanti altri ruoli e contribuisce al “pil” della felicità».
Cos’è per lei una vita felice?
«Una vita davvero felice è quella che realizza nella vecchiaia il sogno della giovinezza. Mi sono stati dati tanti talenti e non li ho sprecati. Naturalmente questo è difficile dirselo. Devono essere gli altri a riconoscerlo. Pierce diceva: il significato della tua vita non appartiene a te ma agli altri. Penso sia vero. Sono io che riconosco i miei maestri. Non loro me».
Li riconosce come?
«Con tutte le loro scarpe. Intendo secondo la loro vita reale: pregi, difetti, drammi. Paci, ricordo, aveva perso il senso della fame. Era stato rinchiuso a lungo in un campo di concentramento e lì aveva disimparato a mangiare. Aveva rimosso ogni stimolo. Paul Ricoeur, che fu con lui prigioniero, gli lasciò sulla pancia mentre dormiva un pezzo di pane nero. Fu un gesto di affetto e di amicizia. Ma anche simbolico. Erano i giorni della liberazione. Alcuni, come Ricoeur, partirono prima e altri dopo, come Paci. Raccontò questo episodio l’ultima volta che lo vidi. Come fosse la ùltima vez. Morì in un torrido luglio del 1976. Mentre in treno tornavo a Milano».