La Stampa 7.5.15
I volti da non dimenticare della Resistenza dei giusti
Il nuovo libro di Aldo Cazzullo “Possa il mio sangue servire” vuole salvare le storie di chi si sacrificò per i valori della libertà
di Marcello Sorgi
I piemontesi hanno con la storia recente un rapporto forte e motivato, dato che spesso l’hanno attraversata da protagonisti. Aldo Cazzullo, giornalista e scrittore, nativo di Alba, ha dedicato l’ultima serie dei suoi libri a un’opera di anti-revisionismo, o se si preferisce di correzione del revisionismo storico affermatosi quasi come una dottrina.
Ha cominciato con il Risorgimento, proseguito con la Grande Guerra ’14 -’18, ed è approdato adesso alla Resistenza, nell’anno in cui, per la prima volta dal 1975, il 25 Aprile ritrova la dimensione di festa nazionale, grazie anche all’impegno personale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È stato Mattarella, infatti, a compiere come primo atto della sua presidenza la visita alle Fosse Ardeatine, luogo del più efferato massacro nazista, avvenuto a Roma solo un mese prima della Liberazione.
E a spiegare che, sebbene dopo l’8 settembre ’43 in Italia si sia assistito a una guerra civile, e malgrado ci fossero combattenti in buona fede pure dalla parte dei fascisti, è giusto riconoscere che non tutto era uguale, c’era chi aveva ragione e chi torto, e le ragioni dei vincitori sono quelle che hanno dato origine alla democrazia repubblicana.
Anche Cazzullo nel suo Possa il mio sangue servire (Rizzoli, pagine 399, euro 19,00), contesta la rilettura storica tesa a dimostrare che la lotta partigiana, o fu ininfluente, visto che l’Italia alla fine fu liberata da americani e inglesi, o fu animata da sentimenti di vendetta, o accompagnata da una retorica mirata ad arrotondare, quando non ad ingigantire, l’esiguità dei fatti realmente accaduti. Lo fa citando fonti e storici tedeschi, che invece riconobbero il valore militare dei partigiani, pur essendo, in fondo, i meno interessati ad ammettere il ruolo di chi si oppose al fascismo e al nazismo e rifiutò di arruolarsi, alla chiamata del Duce da Salò.
Di qui in poi il libro, attraverso la diversità delle storie dei partigiani e delle partigiane, del loro coraggio e del loro martirio, del ritrovato desiderio di allearsi, di restare uniti, anche a dispetto di idee, nascite ed esperienze differenti e della mortificazione dei sopravvissuti, descrive fin dalle radici le ragioni, la disperazione, le ambizioni di un popolo che cercava riscatto da una guerra in cui gli era toccato essere sconfitto due volte.
Il filo conduttore sono le lettere dei condannati a morte e le lapidi abbandonate, di cui Cazzullo rianima i nomi, le vicende personali, le città e i paesi, la vita quotidiana, gli affetti, le paure, il dolore di lasciarsi senza sapere se ci si ritroverà. Così che la Resistenza prende corpo e rivive nelle ultime ore di un parroco, di un colonnello o di un generale, dei soldati che rimasero fedeli al re, di fratelli, sorelle e famiglie distrutte, di una donna violata con un ferro incandescente che dirà di se stessa «mi hanno lasciato come una pianta secca», di tanti contadini e operai, di un ex-fascista e di un prigioniero russo, dei carabinieri che combattevano a fianco dei partigiani, dei giornali clandestini diffusi a rischio della fucilazione, delle radio partigiane che più facilmente potevano essere individuate.
A scandire il racconto è la scarna prosa delle lettere dei prigionieri che aspettano il plotone d’esecuzione. Tutti, chi crede e chi no, pensano che in qualche modo torneranno vicini ai familiari, raccomandano piccole cose, un oggetto, un gesto, un’abitudine da non cancellare, una casa da riaprire, un orto da non trascurare. E, senza scriverlo, chiedono di non essere dimenticati. Come è stato per tanti anni; e come adesso, grazie anche al libro di Cazzullo, forse non sarà più.