La Stampa 31.5.15
Medio Oriente, l’Europa non può chiamarsi fuori
di Roberto Toscano
Ci vuole davvero una straordinaria dose di ottimismo per scrivere (come si legge nel titolo di un commento pubblicato questa settimana dal New York Times): «Calma. L’Isis non sta vincendo». Possiamo anche giustificare il disperato auspicio del cittadino iracheno che firma l’articolo, ma si farebbe molta fatica a condividerlo.
Quelli che ancora ci si attarda a definire «terroristi» sono in realtà un esercito, anzi un quasi-Stato, e sono capaci non solo di resistere a quella che sulla carta è una formidabile coalizione militare, ma anche di avanzare sia verso Baghdad che verso Damasco.
Sulla carta, appunto. Perché per cercare di comprendere quello che sta accadendo in una parte ormai consistente del territorio sia dell’Iraq che della Siria il conteggio del potenziale militare schierato contro lo Stato Islamico non solo non basta, ma risulta anzi un elemento di confusione ed equivoco.
Si tratta infatti di un potenziale del tutto teorico. L’esercito iracheno, che sarebbe nettamente superiore alle forze jihadiste sia dal punto di vista numerico che degli armamenti, e sostenuto da Washington con centinaia di milioni di dollari, in realtà è una struttura svuotata da livelli incredibili di corruzione e da uno scarso spirito combattivo. Ha ragione quindi il Segretario alla Difesa americano, Ashton Carter, quando dice – come ha fatto un paio di giorni fa parlando fuori dai denti: «Le forze irachene non hanno dimostrato alcuna volontà di combattere. Erano infinitamente superiori al nemico dal punto di vista dei numeri, eppure si sono ritirate».
Al di là delle carenze sul piano militare, il fatto è che il governo di Baghdad non è in grado, e questo anche prima della comparsa del Califfato sulla scena, di rappresentare il popolo iracheno nel suo complesso. Dovrebbe poter contare sull’appoggio delle tribù sunnite, ma non si fida – e ancor meno i sunniti si fidano di un governo settario che li ha sistematicamente emarginati dal potere. Per resistere all’offensiva jihadista può solo puntare – oltre che sulla tenuta dei curdi sul fronte Nord-Est - sulle milizie sciite: una soluzione solo a breve termine, dato che la loro preponderanza, e prepotenza, aumenta la disaffezione dei sunniti iracheni, molti dei quali hanno finito per aderire al Califfato non certo per ideologia quando per un riflesso di identità e autotutela.
Se aggiungiamo al quadro il comportamento dei Paesi arabi che partecipano alla coalizione anti-Isis, si conferma con tutta chiarezza che il problema è essenzialmente politico piuttosto che militare. Come qualcuno ha scritto, per l’Arabia Saudita «combattere lo Stato Islamico non è la priorità numero uno». La vera guerra dei sauditi è contro l’Iran e i suoi alleati, al punto che non bisogna essere esperti di intelligence per sapere che ci sono i soldi e le armi saudite dietro a Jabhhat al Nusra, il gruppo combattente anti-Assad affiliato ad Al Qaeda.
Ormai è diventato quasi impossibile ricostruire, in tutta la regione medio-orientale, un quadro di alleanze che non sia contraddittorio, per non dire assurdo.
Gli americani appoggiano l’azione militare dei Sauditi contro gli Houti yemeniti, appoggiati dall’Iran, ma sono di fatto schierati con l’Iran, e con i Pasdaran iraniani, a fianco del governo di Baghdad.
I sauditi appoggiano Al Qaeda in Siria, ma non sostengono i jihadisti dello Stato Islamico, che – anche se costituiscono una potente forza d’urto contro gli odiati regimi filo-iraniani di Damasco e Baghdad – destano preoccupazioni in quanto minacciano di estendere la loro spinta al territorio saudita.
Quello che c’è di nuovo in questa situazione non è certo la contrapposizione spesso violenta fra gli Stati, ma una loro crisi generalizzata, la tendenza alla loro frammentazione. Il fenomeno, prodotto da una globalizzazione che svuota gran parte della legittimazione dello Stato-nazione, è evidente un po’ dappertutto, ma in Medio Oriente ha assunto ormai proporzioni catastrofiche, modalità di estrema violenza e ritmi accelerati. Lo Stato Islamico ha celebrato trionfalmente il superamento della linea «Sykes-Picot» e si parla ormai, ipotizzando frammentazioni su base etnica e religiosa, della fine degli «Stati artificiali» creati dal colonialismo in Medio Oriente. Non è certo che in altre parti del mondo gli Stati si siano formati come fenomeno naturale invece che politico, ma quello che è vero è che nella regione non ha mai preso corpo un radicamento basato sul consenso, sulla cittadinanza, e quindi gli Stati (dall’Iraq alla Siria alla Libia) hanno retto finché un sistema dittatoriale è stato in grado di costituire una sorta di impalcatura apparentemente ferrea ma in realtà estremamente fragile. Ma non basta. Chi non ha i mezzi per trarre i benefici dall’attuale «società liquida» e non ha più lo Stato come riferimento non solo riscopre le proprie identità tribali o settarie, ma tende ad identificarsi con quelle ipotesi politiche che sembrano fornire una prospettiva di grandezza e di rivincita. Alcuni recenti sondaggi di opinione nel mondo arabo fanno addirittura emergere un inquietante livello di simpatia nei confronti dello Stato Islamico. Vengono in mente le magliette con l’immagine di Bin Laden in vendita nei mercati arabi dopo l’11 settembre.
Certo, chi ha (ancora) molto più potere degli altri, gli Stati Uniti, ha anche più responsabilità di fronte a questa micidiale spinta ad una frammentazione ingovernabile – una frammentazione che, in quanto scatena feroci pulsioni settarie e tribali, ben presto ci farà rimpiangere lo Stato-nazione, pur con tutti i suoi limiti e le sue ottusità. Ma sarebbe indecente se noi europei – fra l’altro più esposti degli americani alle conseguenze della destabilizzazione medio-orientale - dovessimo chiamarci fuori.
Tuttavia, nemmeno un consistente sforzo congiunto trans-atlantico – che mobiliti tutta la politica possibile e tutta la forza militare necessaria - riuscirà a contrastare questa seria minaccia se non sapremo fare chiarezza sulle nostre priorità in termini di sicurezza e libertà e soprattutto sui prezzi da pagare per trasformarle in realtà.
Paradossalmente, la feroce utopia regressiva del Califfato ci obbliga ad un’inquietante riflessione sul nostro futuro.