sabato 23 maggio 2015

La Stampa 23.5.15
Il paese reale che la politica non capisce
di Mario Deaglio

Sono circa 23 milioni – un po’ meno di un elettore su due – gli italiani chiamati a votare, nelle elezioni locali che si terranno domenica 31 in sette regioni e in oltre mille Comuni d’Italia: un’occasione molto importante per capire com’è veramente fatto e che cosa si deve fare per questo Paese, nella prospettiva di una risalita della produzione che sembra finalmente arrivata, ma si manifesta sul territorio con molta irregolarità ed eccessiva lentezza. Un Paese diventato, con il passare degli anni, sempre più sfuggente, sempre più enigmatico e sempre meno in sintonia con i politici, come dimostrano, tra l’altro, gli elevati livelli di astensione nelle recenti prove elettorali.
Per questo motivo, il «Rapporto Annuale 2015» sulla situazione del Paese, preparato dall’Istat e presentato a Roma mercoledì scorso, riveste un’importanza particolare. Si tratta, come lo definisce lo stesso Istat, di una «riflessione documentata sui cambiamenti economici e sociali in atto» ossia di quelle valutazioni per le quali le forze politiche sembrano non aver mai tempo.
Questa «riflessione documentata» è condotta con metodi nuovi: si basa sull’esame di quelli che il Rapporto definisce «sistemi urbani giornalieri», ossia delle reti che si formano grazie agli spostamenti degli italiani per andare e tornare dal loro luogo di lavoro e definiscono, di fatto, un territorio con le sue potenzialità e le sue esigenze. Il che ha consentito, secondo l’Istat, di approntare nuove mappe per leggere il «Paese reale». Si tratta precisamente di quel «Paese reale» con il quale la politica ha una crescente difficoltà a mettersi in sintonia e di una visione per lo meno complementare, forse sostitutiva, di quella tradizionale, basata su entità geografico-amministrative, come sono le regioni, i comuni e le città metropolitane.
Sotto la lente dell’Istat, l’Italia si rivela economicamente molto più variegata di come viene normalmente presentata. Esiste un «altro Sud» fatto di quasi mille comuni che comprende quasi tutta la Sardegna, il Salento, le coste della Sicilia e della Calabria e quasi 7 milioni di abitanti che può vantare un certo dinamismo e discrete prospettive future; il modello della «città diffusa», presente soprattutto nella pianura lombardo-veneta, ma anche in varie zone del Centro, conta complessivamente 12 milioni di abitanti e 1500 Comuni e sembra contrapporsi, non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello dello stile di vita, alle «grandi città del Nord» che vantano 18 milioni di abitanti. L’elenco potrebbe continuare, mettendo in luce una varietà che quasi certamente non ha paragone al mondo.
L’Italia è stata sovente paragonata a un vestito da Arlecchino: il numero delle «pezze» che compongono questo vestito risulta molto superiore a quello che ci saremmo potuti attendere. E mentre il Mezzogiorno è praticamente scomparso dal dibattito sulla politica economica (un dibattito, peraltro, che diventa sempre più asfittico) tocca all’Istat sottolineare che la crescita dell’occupazione ha riguardato soltanto il Centro-Nord mentre il numero degli occupati al Sud si è ridotto fortemente durante la crisi. Ed è l’«Economist», noto settimanale inglese a scrivere «il Nord va avanti zoppicando, ma il Sud collassa», lanciando, pochi giorni prima dell’uscita di questo Rapporto, un grido d’allarme per questo divario sul quale troppo facilmente in Italia si chiudono gli occhi. Eppure il Mezzogiorno non è affatto privo di potenzialità e dispone di sistemi locali che potrebbero abbastanza facilmente essere rilanciati.
Alle diversità si accompagnano elementi tipicamente italiani di uniformità. Dal punto di vista economico, uno dei più importanti è dato dalla struttura imprenditoriale: le «microimprese», ossia quelle con meno di 10 addetti, rappresentano quasi la metà dell’occupazione complessiva, contro meno di un terzo della media europea. Le imprese con più di 250 addetti rappresentano solo un quinto dell’occupazione complessiva. Se le imprese piccole diventassero un po’ meno piccole, sarebbero probabilmente più produttive e la ripresa del Paese poggerebbe su gambe più solide.
Da tutto ciò si può trarre una conclusione: i segnali di ripresa – o meglio di rimbalzo – visibili oggi nell’economia italiana vanno nella direzione giusta ma non serviranno a nulla se non si va incontro a questa realtà frammentata che, in un modo o nell’altro, ha superato la crisi e mostra una vitalità non piccola. A questo dovrebbero pensare le forze politiche che si sfideranno domenica prossima in sette regioni d’Italia; e prima di valutare la percentuale del loro consenso elettorale dovrebbero guardare alla percentuale degli astenuti.