giovedì 14 maggio 2015

La Stampa 14.5.15
Impariamo a convivere con l’emergenza
di Stefano Stefanini


La politica delle crisi bussa alle porte dell’Europa. A lungo l’Unione Europea ha rivendicato titolo di attore internazionale, non solo di potente forza di aggregazione economica e sociale del continente. Il momento è venuto. Per necessità non per scelta. L’Europa che esce faticosamente dalla crisi finanziaria, che rischia di perdere pezzi nell’Egeo o nell’Atlantico, avrebbe fatto volentieri a meno di una guerra in Ucraina, di una Libia e di una Siria in sanguinosa disintegrazione e di un colabrodo immigratorio alle frontiere. Sapremo presto se l’Unione è all’altezza delle proprie responsabilità - e ambizioni – oppure se si farà cogliere impreparata, come la Fortezza Bastiani all’arrivo dei Tartari.
L’Ue ha una vocazione naturale al dialogo. Nelle crisi bisogna anche sapersi sporcare le mani, correre dei rischi. L’Europa è pronta a farlo?
Coraggiosamente, Federica Mogherini si è presentata alle Nazioni Unite con un piano europeo per contrastare la via libica d’immigrazione clandestina in Europa. Prevede un’operazione militare con interventi ostici ma necessari, quali la distruzione o sequestro delle imbarcazioni utilizzate per il traffico di esseri umani (e spesso responsabili della loro tragica scomparsa in mare).
Può darsi che in passato fossero mezzi di sostentamento dei pescatori libici; fatto sta che oggi sono lo strumento di trafficanti senza scrupoli. Eliminarli non è solo legittimo - è efficace.
Non sarà facile ottenere il mandato dell’Onu, necessariamente «robusto» per garantire capacità di autodifesa e flessibilità operativa. L’operazione prevista è essenzialmente marittima, ma dovrà consentire di scendere a terra ove occorra. Se il mandato non ci sarà - causa un veto russo e/o cinese - chi lo nega se ne assumerà la responsabilità e l’Ue dovrà trarne le conseguenze, al limite col ricorso al diritto all’autodifesa sancito dalla Carta dell’Onu. Lo spiraglio per un’intesa esiste, confermato dal clima sorprendentemente positivo in cui si è svolta due giorni fa la visita di John Kerry a Mosca.
La Libia è solo uno degli accessi. Controllarlo e contenerlo non significa sbarrarlo, specie a chi abbia un legittimo diritto d’asilo. La piena migratoria sarà frenata, ridotta, ma troverà la via dell’Europa attraverso altri percorsi e rivoli. L’afflusso di clandestini nell’Unione può essere ridotto, disciplinato, sorvegliato anche a fini di sicurezza, ma continuerà. L’Europa deve prepararsi a conviverci, come gli Stati Uniti fanno da decenni. Qui entra in gioco la necessità per l’Ue di dotarsi di una politica immigratoria, a partire dal diritto d’asilo, e di una ripartizione degli oneri.
In questo spirito l’Italia ha posto il problema delle «quote». La risposta positiva della Commissione è solo il primo atto di un dibattito aspro e difficile. La negativa reazione britannica era prevedibile, come pure le resistenze di altri Paesi, come l’Ungheria, che si sentono (erroneamente) lontani dal problema. E’ poco probabile che il piano Juncker possa essere adottato nell’attuale formulazione. Ha però il merito di aver posto il problema sul tavolo.
La partita si gioca fra il Consiglio Affari Esteri di lunedì prossimo e il Consiglio Europeo del 25 giugno. Per l’Italia la posta in gioco è importante. Per l’Europa è la dimostrazione di saper di gestire una crisi che non può essere più nascosta sotto il tappeto dei centri d’accoglienza di Lampedusa. Arriva nel momento sbagliato specie per Cameron che, forte del trionfo elettorale, inizia a negoziare la permanenza del Regno Unito nell’Unione. Ma quando mai c’è un momento giusto per le crisi?
Le crisi internazionali non rispettano i calendari nazionali o comunitari. Per fare politica estera, l’Europa deve affrontarle - adesso.