Il Sole Domenica 31.5.15
Elogio del super-preside
Per noi prof avere un capo che valuta è una buona cosa
Purché i criteri siano culturali e non puramente numerici
di Paola Mastrocola
Il preside di una volta
Se mi volgo indietro a rivedere i miei anni di scuola, da allieva e da insegnante, i presidi che ricordo meglio sono quelli con l’aria un po’ truce, che al mattino alle otto stavano in alto sulla scala ad aspettarci, e se erano le otto e due minuti ci guardavano con l’aria ancor più truce. Bastava quello, e di sicuro non facevamo, di quei due minuti di ritardo, un’abitudine.
Oggi che le piazze si riempiono di gente che protesta per i superpoteri del preside, mi va di parlare un po’ dei miei presidi, quando ero una giovane insegnante. Ne ho avuti alcuni che mi convocavano per parlar di letteratura. Magari scrivevano essi stessi saggi di critica letteraria, o poesie e racconti. In generale, s’informavano dei programmi, a che punto ero, cosa restava da fare, se in quinta sarei arrivata solo a Montale o avrei parlato anche di Pasolini, e del Gruppo 63. A volte, entravano in classe a sorpresa e dicevano: Mi permette di assistere a una sua lezione? E si sedevano all’ultimo banco, buoni, attenti. A volte ci chiedevano, a seconda della materia che insegnavamo, di presentare un libro a scuola al pomeriggio, di scienze, di filosofia, di letteratura.
Mi sentivo sotto pressione? Be’, certamente sì. Ma mi sentivo anche coinvolta in un ambito un po’ più grande, che chiamerei genericamente culturale. Inoltre, l’idea di essere osservata mi faceva bene, mi spronava a far meglio. Per esempio, passavo i pomeriggi a preparare bene le lezioni.
Avere un capo è semplicemente questo: sapere che qualcuno osserva, guida, e giudica il nostro operato. È solcare mari aperti verso una direzione ben precisa. O essere un aereo, consapevole che una torre di controllo sta monitorando i suoi spostamenti nell’aria. Il contrario è stare tutti immersi in una palude stagna (quale adesso mi sembra la scuola), e lì sguazzare e mandar spruzzi a caso, a seconda di come a ciascuno vien bene sul momento. A lungo andare, ci si sente inutili, e sperduti nella nebbia.
Sembra un elogio della severità, dell’autoritarismo, lo so. Ma in realtà dico una cosa molto banale e innocua: dico che lo sguardo su di noi ci migliora. Se nessuno mai ci guardasse, vivremmo peggio. Saremmo più sciatti, usciremmo di casa in pantofole e coi riccioli spettinati. O non usciremmo nemmeno di casa, e passeremmo le nostre giornate sdraiati sul divano a far niente. Invece per fortuna un altro, uno che fa un po’ da capo, che è per noi un riferimento, ci guarda, e in qualche misura determina le nostre azioni. In ogni lavoro c’è un capo. Negli ospedali, per esempio, il primario deve far sì che il suo reparto funzioni, e se qualcuno salta il turno viene redarguito. E se qualcuno salva un paziente viene lodato. Ci sembra così assurdo?
La «misurazione»
La parola sbagliata è valutazione. Se ci sentiamo valutati, cioè misurati, se ci viene attribuito un punteggio, reagiamo male. Ci sentiamo come una pezza di stoffa, che viene valutata a metri. O un sacco di patate, che va pesato. La «misurazione» è entrata pesantemente non solo nella scuola, ma in tutti gli ambiti lavorativi della nostra vita, e l’ha, secondo me, notevolmente peggiorata: intristita, direi. Per cui, pur non avendo nei giorni scorsi aderito allo sciopero, devo dire che capisco e condivido (per certi aspetti) la protesta dei miei colleghi. Dovrebbe essere una protesta più generalizzata, però. Dovremmo tutti quanti ribellarci alla misurazione, allargando il significato della nostra ribellione a un’idea culturale, e non solo meramente a un uso politico e alla rivendicazione dei soliti diritti.
Una scuola senza voti
Dovremmo liberare anche i nostri allievi dalla misurazione. Dovremmo smettere di dare voti, di promuovere e bocciare e rimandare (o meglio, sospendere il giudizio a settembre). Dovremmo smettere di dare valore al titolo di studio. E cominciare a giudicare solo con lo sguardo e con le parole, di lode o di rimprovero. Dovremmo smettere di aver paura delle parole e adoperarle con coraggio, perché sono il nostro mezzo migliore, e distintivo, di entrare in relazione con gli altri. Basterebbe usare sguardi e parole, perché i ragazzi avessero la sensazione che la nostra attenzione è su di loro; questo li spronerebbe a far meglio. Invece così sentono solo incombere voti, punteggi, valutazioni: numeri, che essi possono benissimo dribblare, ignorare, falsificare... Tanto, vedono che il nostro sguardo è rivolto altrove.
Le parole fanno molto. Colpiscono, premiano. Se ben usate, aiutano il nostro lavoro. Il silenzio in cui a scuola siamo immersi, invece, è deprimente: mai nessuno apprezza, incoraggia o critica il nostro modo, personale e unico, di essere insegnanti, siamo lasciati in balia di noi stessi, nelle nostre barchette a remi, chi più chi meno tutti alla deriva. (Veniamo, di contro, pesantemente diretti da impersonali e costrittive regole burocratiche, che rischiano di affondare le barchette...). Mi piacerebbe avere un capo, insomma. Lo troverei normale. Intanto, mi piacerebbe che non si chiamasse, come nelle aziende, dirigente. Che non fosse solo un burocrate che annota le ore di presenza extra, perlopiù di puro volontariato; che non ci redarguisse solo se non abbiamo compilato griglie o fatto il corso on line sulla sicurezza; che non ci convocasse solo in presenza di qualche ricorso o per la solita protesta del genitore che preme per la promozione del suo rampollo. La scuola è molto di più, e non si risolve in pura organizzazione e abilità gestionale. Mi dispiace vederla così abbassata e svilita.
Il primato culturale
Sono contenta, quindi, che si pensi di dare più potere ai presidi. A patto che si restituisca loro un ruolo prima di tutto culturale. Trovo anche giusto che un capo possa scegliere i suoi collaboratori migliori, per il bene dell’utenza (che smetterei di chiamare utenza, però: la scuola non è solo erogazione di un servizio, come l’Enel o il Gas!). Non so bene, però, in che modo compirà le sue scelte, questo è il punto: in base a un’ennesima tavola numerica, temo, e a criteri che non so proprio se avranno a che fare con il merito. La parola meritocrazia mi pare oggi abusata, fraintesa, fuorviante e, sinceramente, irritante; di colpo è venuta alla ribalta come un must, una vuota formula-litania di cui sembra che la politica non possa più fare a meno. Temo che il merito sfugga, per definizione stessa, a qualsiasi misurazione, ma sia soprattutto immensamente lontano da qualsivoglia –crazia: il merito non sarà mai valutabile e non andrà mai al potere. E di questo dovremmo essere, al tempo stesso, rassegnati e fieri.