Il Sole Domenica 24.5.15
Grande guerra & industria
Non fu solo Caporetto
Nella memoria resta quella sconfitta, ma gli armamenti dispiegati dal nostro esercito consentirono di ribaltare le sorti
di Valerio Castronovo
Nella memoria comune sulla condotta dell’Italia nella Grande Guerra ha finito col restare impresso soprattutto il marchio avvilente della disastrosa disfatta di Caporetto. Al punto da relegare in secondo piano l’impresa che, nel giro di pochi mesi da quel drammatico autunno del 1917, portò il nostro esercito a ribaltare le sorti di un conflitto che sembrava irrimediabilmente perso e a concluderlo con una brillante vittoria.
Vale perciò la pena di mettere in debita luce quale decisiva importanza ebbe a tal fine il fatto che il sistema industrial-militare prese, proprio allora, a marciare a pieno regime. Tanto da produrre una mole di armamenti nettamente superiore ai mezzi in dotazione alle truppe austriache rafforzate da vari contingenti tedeschi.
Venne così a compimento una lunga e complessa opera di potenziamento della macchina bellica che s’era dovuta allestire nel maggio 1915, dopo nove mesi di neutralità, in tutta fretta e senza sufficienti scorte di materie prime e combustibili. Perciò si era fatto affidamento inizialmente più sul numero di uomini mandati al fronte che sulle bocche da fuoco.
Soltanto a metà del 1916, alla vigilia della dichiarazione di guerra anche alla Germania, si erano registrati i primi risultati dell’opera intrapresa dal Comitato per la mobilitazione industriale, istituito nell’agosto dell’anno prima. Questo organismo, a cui facevano capo undici Comitati regionali, costituì l’architrave della nostra economia di guerra, sotto la regia del generale Alfredo Dallolio, titolare del sottosegretariato per le Armi e munizioni (trasformato nel 1917 in un ministero). Dalle sue direttive vennero infatti a dipendere oltre cinquemila funzionari e quasi duemila stabilimenti dichiarati “ausiliari”, concentrati per il 60 per cento nel “triangolo industriale” fra Milano, Torino e Genova.
La presenza sempre più estesa dello Stato nelle diverse cerniere dell’apparato produttivo e dei servizi era un fenomeno comune a tutti i paesi belligeranti. E analoghi erano i procedimenti varati per finanziare le spese di guerra col ricorso sia all’espansione della base monetaria che all’indebitamento. Ma ciò avvenne, da noi, in misura assai più pronunciata: tant’è che solo un quinto o poco più delle spese connesse direttamente o indirettamente alla guerra venne coperto da entrate di bilancio, nonostante vari prestiti nazionali e ripetute emissioni di titoli del debito pubblico.
È vero che non mancarono sprechi, speculazioni o malversazioni nelle relazioni fra autorità pubbliche e alcune grosse imprese. Ma col tempo migliorarono i controlli in materia di ordinazioni di collaudi. Così che Dallolio riuscì nel compito di esaudire le pressanti richieste degli Alti Comandi.
Vennero infatti messi in cantiere nuovi grossi calibri di artiglieria e intensificata la fabbricazione di mitragliatrici e altre armi, grazie al perfezionamento degli impianti e alla standardizzazione dei prodotti e dei materiali. Inoltre, col concorso di un Comitato scientifico-tecnico (istituito nel 1916 fra docenti universitari ed esperti in ingegneria), si progettarono un numero sempre più consistente di motori aerei e di velivoli da combattimento e da ricognizione. Nel contempo venne migliorando la logistica nella rete ferroviaria e in quella stradale, essenziali per il trasporto di rinforzi al fronte. Perciò, durante l’inverno del 1917 fu possibile far affluire più facilmente, con l’impiego soprattutto di un vasto parco di autocarri pesanti, i rifornimenti necessari per arginare, dopo la rotta di Caporetto, l’avanzata dei nemici.
Peraltro, in quei mesi la nostra industria si trovò alle prese con una crisi idroelettrica che impose un rallentamento dell’attività produttiva, ma che fu poi superata rapidamente grazie a massicci investimenti resi possibili da anticipazioni straordinarie dello Stato, all’impiego nelle fabbriche di altre maestranze (fra cui numerose donne) e all’adozione di turni massacranti di lavoro. Dalla primavera del 1918, l’esercito poté così disporre di un efficace apparato bellico e l’aviazione di varie migliaia di velivoli, mentre le veloci incursioni condotte da piccole unità navali giunsero a colpire alcune grosse corazzate austriache alla fonda nelle loro basi.
Perciò non era più soltanto un esercito di fanti-contadini quello che (passato da novembre agli ordini di Diaz) fu chiamato a reggere, nella “battaglia del solstizio” (tra il 15 e il 24 giugno 1918), la massiccia offensiva delle divisioni asburgiche, che, raddoppiati nel frattempo i propri effettivi in seguito alla defezione della Russia, miravano a impadronirsi dei raccolti delle fertili pianure venete, per poi accorrere in parte, una volta sfondato il fronte italiano, su quello occidentale in aiuto alle truppe tedesche.
Fornito di ulteriori mezzi bellici, ritemprato nel morale e ricostituito nei suoi ranghi anche grazie ai giovani dell’ultima leva (“i ragazzi del ’99”), il nostro esercito riuscì a respingere l’assalto concentrico delle armate austriache. E il suo contrattacco, negli ultimi giorni di ottobre, travolse le linee nemiche costringendo Vienna a chiedere l’armistizio una settimana prima della resa della Germania dopo la sconfitta subìta ad Amiens.
Senonché la previsione di alcune grandi imprese (e, in particolare, di quella più eminente e polisettoriale come l’Ansaldo) che la guerra si sarebbe prolungata sino alla primavera del 1919 determinò successivamente una grave crisi di sovraproduzione che avrebbe reso più ardua la riconversione post-bellica con pesanti conseguenze non solo di ordine economico.