domenica 24 maggio 2015

Il Sole Domenica 24.5.15
Una nuova traduzione
Il tempo ritrovato di Kavafis
Tra i poeti più amati al mondo, i suoi versi non sono facili come sembrano: non sono solo bellezza e violenza dell’eros
Il desiderio è considerato dallo scrittore greco una parte fondamentale della civiltà, come le guerre o la fine degli imperi
di Nicola Gardini


Kavafis è tra i poeti più popolari del mondo, insieme a Whitman, a Emily Dickinson, a Prévert e a pochissimi altri. Nessun poeta è facile, ma ci sono alcuni che lo sembrano e, dunque, a dispetto perfino di uno svantaggio linguistico di partenza (in questo caso il neogreco), incontrano un favore generale e la loro poesia si diffonde vastamente, diventa mito. Kavafis, tra l’altro, non ha scritto neppure chissà quale gran quantità di versi, e in vita non ha permesso ai suoi componimenti che una circolazione occasionale, dando a se stesso un’esistenza appartata e abitudinaria, ad Alessandria, orizzonte di un eterno tramonto.
Dove sta l’apparente facilità di Kavafis? Perché piace tanto? La lingua è semplice, va incontro ai traduttori delle più varie provenienze, al lettore comune e all’esigente letterato (Yourcenar, Montale, Auden, Pasolini), e parla di eros: di passione, di nostalgia, di ricordi… Sa dire molto in poco, va dritto al centro dell’emozione, e se anche può talvolta toccare la nota del vieto o eccedere nell’aggettivazione esornativa o nel tautologico, dà sempre l’impressione di qualcosa d’incontestabile e di vero. Leggi Kavafis e dici: così è la vita, brama di possesso e rimpianto. E non importa alla fine che Kavafis parli di ragazzi: quella sofferenza vale per tutti; l’eros non conosce distinzione di sesso, e non ne conosce neppure di classe o di età.
Giusto. Questo modo, però, riduce la complessità e la specificità di Kavafis. Le poesie di Kavafis non esprimono soltanto la violenza e la bellezza del desiderio, ma pongono il desiderio al centro della grande storia; considerano il desiderio una parte fondamentale della civiltà, come le guerre o la fine degli imperi. Per questo molte hanno un’ambientazione storica, la tarda antichità, epoca di fini e confusione, non la classicità gessosa di cui ci si impratichisce a scuola. Il desiderio è una condizione del tempo; è cosa naturale, istinto insopprimibile, ma è anche motore delle vicende umane, forza sociale ed economica, che gli storici professionisti non si prendono la briga di registrare o di osservare. Kavafis scrive una contro-storia, quasi alla Brecht, senza tuttavia dimenticare i Seleucidi e i Lagidi e i Pompei e i Cesarioni. Nella sua poesia i nomi celebri, raccolti direttamente dalle fonti letterarie, si mischiano con quelli della gente dimenticata; la scena si ripopola e si creano nuovi affollamenti e mescolanze, e sembra di assistere a una specie di apocalisse, o a un temps retrouvé, dove il rimosso si reimpone con la freschezza delle origini, democraticamente, mostrando la ricchezza della vita e l’uguaglianza profonda di tutti, sovrani e operai.
C’è poi la storia personale, quella del poeta stesso, la sua vita come parabola paragonabile a quella di un’antica città… Individui e stati questo hanno in comune, l’esser destinati a dissolversi. Nel mondo di Kavafis non c’è spazio per la conservazione. Si perdono averi, amanti, territori, opere d’arte, figli. Tutto fallisce, tutto va in nulla… Unico compenso e unica consolazione il ricordo, che la voce del poeta invoca con uno zelo quasi religioso, prima che l’oblio intervenga anche sulla speranza del ricordare. Un tale culto della memoria (memoria mentale ma anche somatica, tattile, sessuale) fa di Kavafis un fratello di Proust e da solo basta a rendercelo irrinunciabile. La sua omosessualità… Neanche questa è da scambiare per uno spunto universale. È una condizione ben precisa. I suoi ragazzi non stanno per ragazze. Incarnano l’infrazione, un richiamo folle, eccessivo, e proprio perciò necessario. Kavafis canta una certa identità, quella del maschio che ama il maschio, come pochi prima di lui hanno fatto, con coraggio e autorevolezza, e anche tale compito va messo nel conteggio finale dei suoi pregi.
Rileggiamolo, questo splendido, rivoluzionario poeta, nella nuova traduzione di Nicola Crocetti, pubblicata da Einaudi. Crocetti, che di poesia neogreca è il massimo esperto in Italia e forse non solo qui, aveva già curato e pubblicato per i tipi della sua casa editrice una traduzione di Kavafis (l’altra grande traduzione, dopo quella di Pontani). Con una capacità di rinnovamento e una fedeltà davvero ammirevoli torna dopo molti anni sul già fatto e rilegge, si rilegge, variando e perfezionando e includendo anche alcune delle poesie escluse dal canone e pagine di prosa. Anche questo secondo Kavafis crocettiano è un campione di scioltezza: schietto, morbido, limpido, musicale e metrico quanto basta (perché neanche l’originale è mai troppo regolare e melodico), qua e là prosastico, affabile, esatto in ogni parte. Bastino, a darne un’idea, questi attacchi: «Non li ho trovati più – li ho persi così in fretta… / quei poetici occhi, il volto / esangue… nella via che imbruniva…». «Osservando un opale mezzo grigio / mi ricordai di due begli occhi grigi / che vidi, sarà vent’anni fa…» Il testo originale a fronte, per chi sa di neogreco, mostra la felicità delle rese, e la nota introduttiva dello stesso Crocetti fornisce un’utile e calorosa premessa.
Costantino Kavafis, Le poesie, a cura di Nicola Crocetti, Einaudi, Torino,
pagg. 319, € 14,00