sabato 30 maggio 2015

Il Sole 30.5.15
Processi sommari e candidati controversi
di Paolo Pombeni


La politica non può essere un gioco al massacro in cui si approfitta delle pulsioni antipolitiche (contraddizione in termini, ma non l’abbiamo inventata noi) per guadagnare protagonismo. Di questo va tenuto conto su tutti i fronti.
Quello, innanzitutto, che vede la Bindi trasformare la commissione antimafia in un tribunale di salute pubblica, ma anche quello che ha portato il segretario del Pd a lasciar candidare a governatore della Campania chi aveva dei problemi oggettivi sul fronte giudiziario.
Perché tocchi all’antimafia decidere chi è presentabile e chi no alle elezioni appare assai poco comprensibile, visto che una parte almeno di quelli su cui ha messo l’ostracismo sono accusati di reati che con la mafia non c’entrano nulla (a cominciare da De Luca). Men che meno appare giustificabile che una commissione parlamentare si pronunci anziché su principi che derivano da leggi, su principi che derivano da “codici etici” sul cui valore vincolante per coloro che non li hanno sottoscritti e che non fanno parte di formazioni che li hanno adottati c’è da dubitare. Dovrebbe essere un principio costituzionale che nessuno può essere giudicato se non da un giudice che è tale perché c’è una legge che l’ha costituito in quella posizione. Fuori di questa fattispecie ci sono solo quelli che si chiamano “giudizi politici”, cioè opinioni il cui accreditamento spetta ai cittadini, cioè in questo caso agli elettori. Tutto il modo con cui è stata gestita la vicenda, poi, rende almeno legittimi i sospetti di una strumentalizzazione politica da parte della Bindi, anche in relazione ai risentimenti e ai malumori interni al partito del premier.
Detto questo, bisogna altresì riconoscere che la scelta di De Luca come candidato alla carica di governatore in Campania non è stata una mossa azzeccata. I giudizi sulla persona sono vari e non mancano molti che lo considerano un politico abile e capace. Ma qui il problema non è il giudizio sulla persona, ma la sua posizione oggettiva nel quadro di una legge come la Severino lo rende debole, se non addirittura azzoppato in partenza come ipotetico governatore.
Sui limiti, come dei pregi, della legge in questione si può discutere quanto si vuole (peraltro così perché vittima di varie manipolazioni nel passaggio in parlamento), ma la legge c’è, è stata votata da un’ampia maggioranza ed è già stata applicata più volte. Non è un bello spettacolo che in un partito di governo, che per di più si candida a cambiare il paese nonostante le fortissime opposizioni che incontra, si ipotizzi di non tenerne conto. Lo stesso candidato De Luca non è in buona posizione per difendersi da quella che giudica un’ingiustizia (e può anche darsi che lo sia) semplicemente rifiutando di sottomettersi alla normativa vigente.
È vero che Renzi non ha una responsabilità diretta nella scelta di De Luca e che in qualche modo ha dovuto accettare i risultati delle primarie campane. Ma un partito non può pensare di rimanere saldamente tale se accetta di operare su due livelli: quello nazionale, in cui domina il leader con la sua capacità comunicativa e la sua azione di governo al centro; quello locale in cui è meglio lasciar fare a chi comunque sembra in grado di portare voti e successo, dunque alle sedimentazioni locali del potere purché possano promettere questo risultato.
Purtroppo Renzi non è stato in grado di mostrare che oltre ad essere un efficace presidente del consiglio è in grado di fare anche fino in fondo il leader del partito. È vero che deve sopportare una guerriglia interna e ai suoi fianchi che sarebbe degna di miglior causa, ma è anche vero che non può ignorare che l’immagine del Pd non può reggersi solo su di lui: ha bisogno che la gente possa verificare a 360 gradi che “il verso” lui lo sta cambiando anche a livello locale. E qui non c’è solo il caso della Campania, che è il più clamoroso, ma in Liguria non gli mancano i problemi, per non dire di risultati meno visibili, ma altrettanto sfavorevoli come ci sono stati anche nelle recenti amministrative in Trentino.
Il segretario-premier ha detto che dopo le regionali si dedicherà a fondo alla riforma del suo partito. A prescindere che non si sa come possa sfuggire all’accusa di voler chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, gli risulterà difficile riformare dei partiti locali che sono comunque riusciti a piazzare i lor o attuali uomini chiave nei centri locali di potere.
Le vendettucce politiche della Bindi non faranno più che avvelenare ulteriormente i pozzi a cui si abbevera una politica in fase di stanca, ma il governo del paese è in realtà un sistema di governo in cui il tessuto dei poteri locali non è solo una marginale rendita di posizione, ma è il primo banco di prova per verificare la fisionomia globale di una classe politica. Sottovalutare questa elementare verità non aiuterà certo chi come Renzi vuol giocare in grande la partita della svolta da imprimere al sistema.