martedì 26 maggio 2015

Corriere 26.5.15
Giorni d’ansia sulle Ardenne
Dicembre 1944: le rivalità tra gli alleati favorirono l’ultima offensiva nazista
di Paolo Mieli


Nei giorni di fine dicembre 1944, in una Parigi li berata da appena cinque mesi, all’improvviso l’atmosfera si fece cupa. La sera del 17 Mary Welsh tornò tardi nella stanza dell’hotel Ritz in cui abitava con il suo amante Ernest Hemingway. Gli riferì di essere stata a cena con il comandante delle forze aeree alleate, il tenente generale «Tooey» Spaatz, di aver assistito a un andirivieni di aiutanti che portavano messaggi urgenti, di averlo visto impallidire e di aver avuto l’impressione che le cose per gli angloamericani si mettessero male. Molto male. Racconta Carlos Baker — in Hemingway. Storia di una vita (Mondadori) — che il giorno successivo, di buon mattino, l’autore di Per chi suona la campana telefonò al fratello Leicester e gli annunciò: «C’è stato un completo sfondamento!». Per poi aggiungere: «Questa cosa potrebbe costarci tutto. Le loro forze corazzate stanno dilagando. Non fanno prigionieri … Riempi quei caricatori; pulisci bene ogni cartuccia». Loro erano i tedeschi. Hemingway non fu il solo a pensare che, proprio nel momento in cui appariva sul punto di crollare, Adolf Hitler si fosse ripreso e addirittura fosse stato in grado di sferrare contro inglesi e americani una controffensiva mortale. Ed è a questa controffensiva che è dedicato Ardenne, un prezioso libro di Antony Beevor edito da Rizzoli.
Alla fine dell’estate di quel 1944 sembrava che i giochi fossero ormai fatti: ai primi di giugno gli Alleati erano sbarcati in Normandia, il 20 luglio era fallito per un pelo il complotto contro Hitler ordito da Claus von Stauffenberg, il 25 agosto gli eserciti liberatori erano entrati a Parigi. Tutti a quel punto ritenevano che entro poche settimane, massimo la fine dell’anno, la guerra si sarebbe conclusa con la definitiva sconfitta dei nazisti. Così Parigi divenne la meta per i soldati americani (diecimila ai primi di settembre) in cerca di una licenza ristoratrice. Pigalle, racconta Beevor, fu ribattezzata «Pig Alley», il «vicolo del porco», dove le prostitute, in gran parte occasionali, si offrivano per cinque dollari. Nel corso di quell’anno, «il tasso di diffusione delle malattie veneree nel teatro di operazioni europeo raddoppiò, e oltre i due terzi delle infezioni contratte in Francia furono prese a Parigi». I soldati «pareggiavano le spese in alcol e ragazze comprando stecche di Chesterfield, Lucky Strike e Camel a 50 centesimi per poi rivenderle a 20 dollari. Disertori americani si unirono alle bande criminali locali; i profitti ricavati dalla benzina rubata all’esercito erano talmente alti che perfino i trafficanti di droga vollero entrare in questo nuovo mercato. Sparì la metà delle taniche giunte nell’Europa continentale. L’inasprimento delle pene, «l’aggiunta di sostanze coloranti per rendere la benzina più tracciabile e numerosi altri tentativi messi in atto dalle autorità americane per contrastare queste forme di malavita non riuscirono ad intaccare un traffico che veniva ad aggravare ulteriormente il problema dei rifornimenti al fronte». Anzi. Alcuni soldati aiutavano gruppi di gangster che fermavano i treni su una curva, in modo che gli uomini della polizia militare incaricati di vigilare contro i furti — che stavano all’estremità del treno — non potessero vederli mentre scaricavano carne, caffè, sigarette, coperte e cibi in scatola. 180 ufficiali e soldati furono arrestati e condannati per questo genere di attività. Nel giro di un mese sparirono 66 milioni di pacchetti di sigarette.
Marlene Dietrich, che si trovava in Francia per intrattenere le truppe americane, divenne il simbolo di questa dolce vita parigina. Il generale George Patton si invaghì di lei e le regalò un set delle sue celebri pistole con l’impugnatura in madreperla. La Dietrich accettò malvolentieri un invito del generale Omar Bradley e si innamorò, invece, del maggior generale dei paracadutisti Jim Gavin. Gli inglesi protestavano. Per i britannici la meta delle licenze era Bruxelles e quelli (tutti) che, ovviamente, avrebbero preferito Parigi, sostenevano che la loro soddisfazione nella capitale belga era pari a quella che si può avere «prendendo un tè con la sorella della ragazza di cui si è innamorati». Tutta questa rilassatezza era giustificata dalla sensazione che i nazisti, assediati ad Est dai russi, fossero in procinto di cedere.
E invece gli Alleati dovettero prima affrontare grandi difficoltà nella foresta di Huertgen, a sud-est di Aquisgrana. Per poi rischiare di perdere tutto, ma proprio tutto, su quello stesso massiccio delle Ardenne che aveva visto i tedeschi sfondare sia nel 1914, sia nel 1940. La controffensiva tedesca delle Ardenne iniziò a dicembre. La speranza di Hitler, scrive S.P. MacKenzie in La Seconda guerra mondiale in Europa (Mulino), era quella di raggiungere Anversa, tagliando i rifornimenti alle armate alleate. E all’inizio gli americani furono travolti. Così quelle settimane furono per gli Alleati un autentico inferno. Le difficoltà erano terribili e la pioggia incessante. L’8 dicembre Patton telefonò al cappellano della Terza armata, James O’Neill, chiedendogli una preghiera speciale per far tornare il bel tempo. O’Neill non ne trovò e decise di scriverne una che il generale fece stampare in 250 mila esemplari pretendendone la recita da parte di tutti i soldati. La pioggia cessò, ma le cose per gli Alleati non si misero meglio e in prossimità di Natale si intravide la catastrofe. I tedeschi sembravano nuovamente invincibili.
Si diffuse la psicosi delle infiltrazioni di nazisti travestiti da americani che si sarebbero aggirati tra i soldati per confonderli. Furono istituiti posti di blocco in cui i sospettati venivano interrogati sul baseball, sul nome del cane di Roosevelt, su quello del nuovo marito di Betty Grable. In molti furono presi in contropiede. Il brigadiere generale Bruce Clarke fu tratto agli arresti per mezz’ora. E così anche il generale Bradley, che diede un risposta imprecisa sulla capitale dell’Illinois. L’attore David Niven rischiò di essere passato per le armi perché non sapeva chi aveva vinto le World Series, le finali del campionato di baseball, nel 1940 (se la cavò in extremis tirando fuori una foto del 1938 che lo ritraeva accanto a Ginger Rogers).
Hitler in quei giorni di metà dicembre manifestò una contenuta euforia. Quella dei suoi connazionali fu, invece, un’esplosione di gioia senza alcun trattenimento. «L’offensiva d’inverno sulle Ardenne, del tutto inaspettata, è il più bel regalo di Natale per il nostro popolo; allora possiamo ancora farcela!», scrisse un ufficiale di stato maggiore del gruppo d’armate dell’Alto Reno.
L’aspetto interessante del saggio di Beevor è di non essere un libro d’esposizione di vicende militari, ma di essere dedicato in gran parte a cosa è che può compromettere una vittoria nel momento stesso in cui la si sta per cogliere. Nel caso in questione, dal momento della liberazione di Parigi erano venute a galla tutta una serie di gelosie e ripicche tra alti ufficiali che avevano compromesso il clima tra di loro e rischiavano di mettere in forse la stessa vittoria.
Passi per Charles de Gaulle, il generale che si era messo alla guida della Resistenza già nel giugno del 1940 e adesso reclamava subito i titoli di condottiero della Francia liberata. Solo la saggezza e la pazienza del comandante in capo di tutte le truppe alleate, Dwight D. Eisenhower (che, per queste doti, sarà compensato negli anni Cinquanta con la presidenza degli Stati Uniti) riuscirono a evitare che queste ripicche degenerassero in una rottura. Ad esempio quando Eisenhower definì — per evidenti motivi diplomatici — l’inglese Bernard Montgomery «il più grande soldato vivente», il generale americano Patton si disse «schifato» e cercò di coinvolgere nelle rimostranze il collega Bradley. E non ebbe pace finché Eisenhower, il 21 settembre, definì Montgomery, sia pure in privato, «un astuto figlio di puttana». Montgomery, a sua volta, protestò quando Eisenhower non ordinò a Patton di fermarsi, sia pure in un’offensiva che sarebbe stata coronata da successo. Si disse anche scandalizzato dell’usanza dello stesso Patton di regalare champagne ai piloti che portavano carburante alla sua armata (bottiglie che facevano parte di uno stock di cinquantamila casse del pregiato vino da lui «liberate» in quell’estate del 1944). E quando Eisenhower — sempre per garantire gli equilibri ai vertici delle forze armate liberatrici — decise di trasferire a Montgomery il comando di due armate, Bradley (in quello che Beevor definisce uno «stato d’animo sempre più paranoico») reagì con stizza: «Dio santo, Ike, non posso più essere responsabile davanti al popolo americano se fai questa cosa … Rassegno le mie dimissioni», disse in un moto di stizza. Dimissioni che furono respinte da Eisenhower e per giunta con toni molto irritati.
Dopodiché il comandante in capo dovette affrontare Montgomery, il quale gli disse che Bradley non aveva fatto altro che «combinare pasticci» e che «l’avanzata verso il Reno sarebbe fallita» se lui, Monty, non avesse avuto «il pieno comando operativo di tutte le armate a nord della Mosella». Poi, nei giorni in cui il generale Courtney Hodges ebbe un crollo nervoso, Bradley tornò alla carica, asserendo che Montgomery ingigantiva i pericoli dell’ultima offensiva nazista per trarne vantaggi. Infine Eisenhower si trovò a dover difendere Bradley dall’accusa di essersi fatto cogliere di sorpresa sulle Ardenne.
Completamente diverso, ma non meno grave, il caso di Patton, che si scontrò più volte con il comandante in capo che gli rimproverava la sua «ansia di attaccare frontalmente». Sempre e comunque. Finché, il 24 dicembre, Patton si vide costretto ad ammettere nel suo diario: «È stata una bruttissima vigilia di Natale, lungo tutta la nostra linea abbiamo subito violenti contrattacchi, uno dei quali ha costretto la Quarta corazzata ad arretrare di qualche chilometro con la perdita di dieci carri… Probabilmente è stata colpa mia perché ho insistito su attacchi diurni e notturni».
Quando poi le cose per gli Alleati si misero meglio, sulla stampa britannica iniziarono a comparire articoli secondo i quali Montgomery aveva salvato gli americani e doveva essere nominato comandante in capo delle forze di terra. Bradley perse nuovamente le staffe, anche perché nel tradizionale sondaggio di «Time» sull’uomo dell’anno, Patton si era classificato al secondo posto dietro Eisenhower, mentre lui non era stato nemmeno preso in considerazione. Il controspionaggio tedesco capì che si trattava di un’occasione d’oro per mettere zizzania tra i nemici e diffuse su una lunghezza d’onda della Bbc un servizio in cui si diceva che, se la battaglia delle Ardenne volgeva al meglio per gli Alleati, il merito era tutto di Montgomery. I soldati statunitensi, che erano impegnati nell’operazione in proporzioni incommensurabilmente maggiori di quelle degli inglesi, abboccarono e reagirono con risentimento. Eisenhower confidò in seguito a Cornelius Ryan di considerare Montgomery «uno psicopatico».
Dovette intervenire il primo ministro inglese Winston Churchill, il 10 gennaio del 1945, per stigmatizzare il fatto che si stesse recando «una grave offesa ai generali americani» e per precisare che gli Stati Uniti avevano «perso forse sessantamila uomini e noi due o tremila» (le perdite effettive furono 75.482 per gli Usa con 8.407 morti e 1.408 per la Gran Bretagna di cui 200 uccisi). Successivamente in un discorso alla Camera dei Comuni, il 18 gennaio, Churchill ritenne di aggiungere che «le truppe degli Stati Uniti si sono sobbarcate quasi tutto lo scontro e hanno subito quasi tutte le perdite». Per poi dire nella maniera più chiara: «Bisogna stare attenti, nel narrare con orgoglio la nostra storia, a non rivendicare per l’esercito britannico un contributo eccessivo in quella che è indubbiamente la più grande battaglia americana della guerra, e che sarà, credo, per sempre considerata una celebre vittoria degli Stati Uniti».
In effetti, ha scritto Rick Atkinson nel minuziosissimo libro Una guerra al tramonto (Mondadori), «la battaglia delle Ardenne, per la vastità e la violenza allo stato puro, fu diversa da qualsiasi altra mai combattuta nella storia americana, e ineguagliata anche negli anni successivi». Il tutto si risolse però, secondo Beevor, in una «sconfitta politica per i britannici», dal momento che alimentò una «diffusa anglofobia negli Stati Uniti, e in particolare tra gli alti ufficiali americani in Europa». Hitler fu il primo ad accorgersi che la sua offensiva era fallita. Già il 26 dicembre, a tarda sera, confidò al suo aiutante della Luftwaffe, il colonnello Nicolaus von Below, l’intenzione di togliersi la vita. Poi però cambiò idea. «So che la guerra è persa», disse, «sono stato tradito… ma non capitoleremo mai; possiamo anche affondare, ma trascineremo il mondo con noi». E la guerra, effettivamente, durò altri quattro mesi.