Corriere 21.5.15
Valori traditi e ricchezza: un triangolo di affetti sulla Cina senza identità
Jia Zhang-Ke: l’irruzione del denaro ha stravolto tutto
di Giuseppina Manin
CANNES «Go West»! Dove la vita è serena, il cielo blu e il sole brilla d’inverno… Così cantavano negli anni 90 i Pet Shop Boys. E con loro gli adolescenti di mezzo mondo. «Ogni volta che l’ascoltavamo tra amici ci si metteva a ballare. Quella canzone racchiudeva l’energia e la gioia di un’epoca» ricorda Jia Zhang-Ke, 45 anni, nel 2006 Leone d’oro a Venezia con Still Life e ieri a Cannes con Shan he gu ren (Mountains May Depart) , affresco di una Cina in crisi d’identità, subito balzato tra i titoli in odore di palmarès. Che si apre proprio con un allegro gruppo di giovani scatenati, nella notte di fine anno del 1999 al ritmo di quella canzone, inno all’ottimismo per salutare il nuovo millennio.
«Allora per noi ragazzi il “Go” era più importante del “West” — avverte Zhang —. Volevamo andare. Non importava dove, ma andare. A rendere la canzone profetica nell’altro senso è stata la storia. Di fatto, la parola chiave della nuova Cina era il West, l’Occidente». Con i suoi miti, le sue tentazioni e aberrazioni. Il capitalismo sfrenato, la globalizzazione, l’inquinamento, la perdita delle radici.
«L’irruzione del denaro ha stravolto tutto, ha ribaltato valori, tradizioni, persino gli affetti più profondi» prosegue il regista che, per ricapitolare quel percorso così inatteso e travolgente si impegna in un su e giù nel tempo. «Tre le date: il fine anno del ’99, così pieno di promesse, il 2014 quando quel sapore effervescente è già svanito, il 2025 che verrà».
Venticinque anni che stravolgeranno la storia del Paese e le vite dei tre protagonisti, due amici innamorati (come nel film Jules e Jim) della stessa ragazza. Un triangolo di affetti sgretolato dal potere dei soldi. Davanti alla scelta tra quello che lavora in miniera e per di più è un po’ musone e quello che gestisce una pompa di benzina e la porta in giro su un’auto rossa, la dolce Tao sceglie il secondo. A rendersi conto che non è tutto amore quello che luccica, la decisione del marito di chiamare il loro figlio Dollar Zhang. Il cinese del futuro è nato. “La ricchezza del padre servirà per garantire al figlio la necessaria metamorfosi. Scuole private, vacanze di lusso, barche a vela… E al posto del cinese, l’inglese. La lingua degli affari, la sola in cui ormai si esprimono tanti giovani cinesi. Ma non i loro genitori. E così la comunicazione s‘interrompe”.
Trasferito con il padre a Shanghai, New York d’Oriente, Dollar cresce lontano da Fenyang (città natale di Jia Zhang-Ke) e dalla madre, opportunamente divorziata. La rivedrà solo una volta, per i funerali del nonno, e per entrambi sarà uno choc. Estranei l’un l’altra come lingua, gusti, modi di fare. Li ritroveremo, nel 2025, Tao ormai con i capelli grigi nella sua casa cinese a far ravioli e portare a spasso il cane, Dollar in una lussuosa villa sul mare in Australia, dove papà traffica in armi imprecando contro il paradosso di una libertà: «Che mi consente di comprarne quante mi pare ma non mi lascia sparare a nessuno…».
Nonostante la mala educatión del babbo, Dollar però non è più certo che il suo nome sia la garanzia del futuro. La Cina è lontana, mammà anche, lui finge di non ricordarsene il nome ma non sfugge al profumo dei suoi ravioli. Una prof di cinese, che per età potrebbe essergli madre, lo inizierà alla sua cultura d’origine e anche al sesso. «Come molti della sua generazione, Dollar inizia a chiedersi se tutto quel denaro abbia davvero migliorato la nostra vita o l’abbia distrutta. Ci ha dato benessere ma in cambio ci ha tolto la cultura, la natura, i sentimenti. Tutto sconvolto troppo in fretta. Forse non è stato un affare».