Corriere 19.5.15
Se la tigre economica indiana corre più del drago cinese
di Antonio Armellini
Quello di Xian è stato il secondo incontro fra i capi delle due maggiori potenze asiatiche in meno di un anno: Narendra Modi ha di che ritenersi soddisfatto dei ventidue miliardi di dollari di accordi commerciali e degli oltre due miliardi di nuovi investimenti cinesi (in aggiunta ai venti promessi da Xi Jinping a Delhi qualche mese fa), allo scopo di correggere una bilancia commerciale fortemente squilibrata a svantaggio dell’India. La Cina, prima ancora che una priorità, rappresenta una vera ossessione per l’India: la sua economia crescerà quest’anno più di quella cinese, ma rimane grosso modo un quinto di quella. Il feeling personale fra Modi e Xi appare sincero — i due hanno molte caratteristiche comuni — ma «telefoni rossi» e Commissioni miliari congiunte (tutte cose già viste) non cancellano i problemi politici e le questioni territoriali ancora sul tappeto. Entrambi hanno confermato di voler spingere sulla leva dell’economia non soltanto per ragioni di mutuo vantaggio, ma perché convinti che rappresenti la via non tanto per elidere la ragioni di contrasto, quanto per rinviarne la definizione ad una fase in cui l’interdipendenza abbia raggiunto un livello tale da rendere improponibile un conflitto aperto: al momento esso rimane possibile, aldilà della retorica.
Lanciando la nuova Aiib (Asian infrastructure investment bank), Pechino ha confermato le sue ambizioni di primazia ed ha intercettato abilmente l’insofferenza di molti Paesi nei confronti della Banca mondiale e delle istituzioni collegate. I 45 miliardi di dollari per nuove infrastrutture, annunciati da Xi Jinping a Islamabad in aprile, hanno rilanciato il ruolo del Pakistan come testa di ponte dell’influenza cinese nella regione, con un occhio alle ambizioni indiane e all’evoluzione della crisi afghana. La rete integrata One Way, One Belt, di nuove «Vie della seta» terrestri e marittime, aprirà a Pechino attraverso il Pakistan una via diretta verso il Golfo Persico, destinata ad aggiungersi allo sbocco verso l’Oceano Indiano passando dal Myanmar. L’India denuncia l’accerchiamento e sta rafforzando la capacità di proiezione a lungo raggio della sua Marina, oltre lo stretto di Malacca. Altrettanto hanno cominciato a fare i cinesi e le misure di fiducia decise a Xian non modificheranno il carattere della competizione.
La situazione è in costante movimento e ambedue danno prova di spregiudicatezza. L’India cerca di contenere in Vietnam l’avanzata cinese nel Sud-Est asiatico e parla con l’Australia; la Cina si contro-assicura con una Russia indebolita e ambedue guardano al Giappone. Il pivot to Asia di Obama potrebbe finire per rivelarsi una tigre di carta e, nel gioco delle previsioni geostrategiche, prende corpo l’ipotesi di un futuro più o meno lontano di diminuita presenza Usa. Gli assetti di lungo periodo in Asia sono destinati a ruotare sempre più intorno a Pechino e a Delhi.
Recandosi qualche settimana fa per la prima volta in visita ufficiale in Europa e in Canada Narendra Modi ha chiuso, in parallelo con quello asiatico, l’asse euro-atlantico di un disegno geopolitico a tutto campo, forte della relazione privilegiata stabilita con Obama a Delhi in gennaio. La sterzata nei confronti dei Paesi europei è stata netta: ha lasciato cadere senza patemi il tradizionale Vertice India-Ue a Bruxelles ed ha egualmente ignorato la tappa di Londra, riferimento prioritario di memorie, cultura e interessi indiani. Ragionando come è uso fare in termini di rapporti di forza, si è recato nel Paese comunitario egemone — rinsaldando a Berlino il rapporto con Angela Merkel — e in quello che più gli premeva politicamente, sbloccando a Parigi con François Hollande la fornitura dei super-caccia Rafale che si era impantanata. Ad Ottawa, infine, ha spuntato la garanzia, a lungo negata, delle forniture di uranio necessarie al suo programma nucleare.
Pretesto, o ragione, dell’annullamento del Vertice brussellese sembra essere stata la richiesta italiana di parlare anche dei marò. Il che confermerebbe due cose. La sostanziale indifferenza di Delhi per l’Unione Europea, di cui stenta a cogliere il significato politico e che ritiene con qualche supponenza un attore secondario sulla scena internazionale. Meglio, molto meglio discutere con chi nell’Ue conta davvero, e se ciò comporta perdere per strada Bruxelles, pazienza. Il fatto che all’India dia molto fastidio essere sottoposta ad un vaglio internazionale che possa lederne l’immagine.
Nella capitale indiana si comincia a respirare un’aria di stanchezza ed aumenta la voglia di trovare una via che consenta ad entrambi di salvare la faccia; senza dimenticare che la decisione finale sarà presa direttamente da Modi e Matteo Renzi. L’industria indiana non ha esitato a cercare di sfruttare le occasioni che le si presentavano in Italia: sarebbe un grave errore per quella italiana lasciarsi condizionare nel tentativo di ritrovare spazi adeguati sul mercato indiano. Gestito con accortezza, il business può facilitare le soluzioni anziché incancrenire i contrasti.