Corriere 1.5.15
Un esito che perpetua i conflitti tra i partiti
di Massimo Franco
Di fiducia in fiducia, tra lunedì sera e martedì l’Italicum sarà legge. E Matteo Renzi potrà dire ufficialmente di avere vinto la sua sfida con il resto del Pd e con le altre opposizioni. Rimane un residuo di cautela, del quale si fa portavoce il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. Ma l’eventualità che ci siano intoppi è sempre più remota. Semmai, per il presidente del Consiglio il rischio è di festeggiare con l’aula della Camera abbandonata dal «cartello» degli avversari: una sorta di «strategia dell’assenza» composta trasversalmente da minoranza del Pd, Forza Italia, M5S, Lega e Sel. La prospettiva, però, non assilla solo Palazzo Chigi.
Lo strappo deciso dal premier ponendo la fiducia per arrivare al «sì» alla riforma elettorale tende a ricompattare le opposizioni. Ma potrebbe anche rivelarne le crepe, come è già accaduto con i Democratici, che si sono divisi sul «no». Per questo l’ipotesi dell’uscita dall’aula al momento del voto non viene esclusa, e nemmeno data per scontata. Si sa che dentro FI esiste una filiera «renziana» favorevole alle riforme; e pronta a sottolineare il dissenso rispetto a una deriva ritenuta estremista. Ieri il ministro Boschi ha dovuto rispondere all’ex capogruppo Roberto Speranza che «Denis Verdini non si iscriverà al Pd», citando il berlusconiano più governativo.
Nella stessa Lega succedono fatti strani: come l’ex leader Umberto Bossi che partecipa alle votazioni mentre il resto dei deputati del Carroccio resta fuori. Insomma, a temere brutte sorprese non è solo Renzi ma anche chi lo contrasta. L’immagine finale rimane comunque quella di un Parlamento lacerato e inquieto; e di un partito di maggioranza incapace di trovare una coesione, perché gli sconfitti appaiono esasperati e pronti a tutto per colpire Renzi, soprattutto in vista del passaggio dell’ Italicum al Senato, dopo l’estate.
Di questa esasperazione è testimone la tentazione intermittente di una scissione del Pd: anche se certificherebbe solo l’istinto suicida e l’impotenza della minoranza. Il fatto che FI, e non solo, accarezzi l’ipotesi di sottoporre la riforma elettorale al referendum abrogativo, proietta lo scontro fuori dalle aule parlamentari; e allunga sulla legge un’ombra di precarietà. Almeno in apparenza, perché un referendum potrebbe, per paradosso, rivelarsi un favore a Renzi, pronto a presentarsi al Paese come il riformista frenato da un fronte di conservatori passatisti.
Ma l’impressione è che l’ostilità al nuovo sistema elettorale nasca più da ragioni politiche che dal contenuto in sé. Il Pd ci vede la premessa di «una mutazione genetica del partito», nelle parole della presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi: una tappa verso quel «partito della Nazione» caro a Renzi, attento al mondo moderato e pronto a dire di no al sindacato. «In passato il partito non ha avuto il coraggio di fare le riforme per non perdere i voti della Cgil», ha ricordato la Boschi. Oltre a questo, però, il sospetto rilanciato dalle opposizioni è che l’ Italicum sia un sistema presidenziale su misura per Renzi: una scorciatoia foriera di nuovi conflitti.