mercoledì 8 aprile 2015

Repubblica 8.4.15
Il nucleare, l’Iran e il tempo di sognare
di Bernard Guetta


È UN sogno, ma non necessariamente un sogno irrealizzabile. E allora sogniamo, per un istante, che questo accordo di Losanna sul nucleare iraniano possa rapidamente concretizzarsi fin nei più piccoli dettagli, che la Repubblica islamica rinunci a dotarsi della bomba, che le sanzioni economiche varate contro Teheran siano rimosse e che il peso della parte pragmatica e riformatrice all’interno della leadership iraniana ne esca rafforzato.
Le conseguenze sarebbero due: la prima è che quel regime potrebbe avviare la liberalizzazione politica a cui la popolazione iraniana aspira con chiarezza da moltissimo tempo; la seconda è che l’Iran sciita si dedicherebbe, parallelamente, a consolidare la sua influenza regionale cercando un compromesso con i paesi sunniti e non più assicurandosi, in funzione antisunnita, il sostegno delle comunità sciite, minoritarie o maggioritarie, di tutto il Medio Oriente.
È uno scenario roseo, roseo e altamente aleatorio, ma che non possiamo escludere per tre ragioni.
La prima è che c’è voluta così tanta volontà di compromesso ai negoziatori di Losanna che non si capisce perché tutta questa volontà dovrebbe svanire ora che l’essenziale è stato fatto. Le difficoltà, naturalmente, sono considerevoli. Barack Obama dovrà fare i conti con la maggioranza repubblicana del Congresso e soprattutto con i suoi alleati israeliani e sauditi, con un fronte del no che non vuole questo compromesso perché farebbe dell’Iran uno “Stato soglia”, cioè un Paese che non dispone della bomba atomica ma ha gli strumenti per procurarsela. Hassan Rohani, il presidente iraniano eletto trionfalmente nel giugno del 2013 perché incarnava la speranza di una riconciliazione con il resto del mondo, dovrà superare, da parte sua, l’opposizione dei settori più intransigenti del regime, che vogliono evitare che Rohani riesca ad affermare la sua popolarità grazie alla rimozione delle sanzioni, cosa che lo renderebbe inamovibile.
La battaglia sarà dura, tanto a Teheran quanto a Washington, ma le presidenziali non sono lontane e i Repubblicani difficilmente potranno accanirsi a contrastare un accordo che consente di evitare una guerra che gli americani non vogliono in alcun modo. Da parte loro, i settori più oltranzisti dello schieramento conservatore iraniano sembrano ormai essere stati sconfessati da Ali Khamenei, la Guida suprema del regime, senza il consenso del quale i negoziatori iraniani non avrebbero potuto acconsentire alle concessioni che hanno sottoscritto a Losanna.
Hassan Rohani ha avuto l’appoggio della Guida suprema perché le casse dello Stato sono vuote e la teocrazia deve riuscire a rimpinguarle, prima che le difficoltà economiche correnti superino il livello di guardia. E visto che Barack Obama, a sua volta, può far leva sull’opinione pubblica, non è irragionevole aspettarsi che l’accordo di Losanna si concretizzerà.
La seconda ragione per non rinunciare a sognare è che la rivoluzione iraniana non è più giovanissima. A trentacinque anni suonati, deve ormai fare i conti con una gioventù, enormemente maggioritaria, per la quale la dittatura imperiale ormai è preistoria e non capisce perché si debba vivere tanto male quando il sottosuolo iraniano è così ricco e il livello culturale del Paese potrebbe rapidamente consentirgli di diventare un Eldorado. Sono più di quindici anni che gli iraniani manifestano, in modo tanto sistematico quanto eclatante, la loro volontà di cambiamento: con la prima elezione del riformista Mohammad Khatami nel 1997, con la sua rielezione, con le manifestazioni di massa contro i brogli delle elezioni presidenziali del 2009 e infine con l’elezione di Hassan Rohani. La frattura fra Paese legale e Paese reale ormai è talmente profonda, senza neanche parlare dell’esplosione di rabbia popolare che minaccia di scatenarsi, che questo regime ormai ha soltanto un’opzione possibile.
Può continuare nella sua deriva verso la dittatura militare che potrebbe essere instaurata dalle Guardie della rivoluzione, uno Stato nello Stato, una potenza militare e finanziaria, oppure scegliere un’apertura controllata, che l’ascesa di Hassan Rohani oggi rende possibile. Mentre Mohammad Khatami si era fatto eleggere e rieleggere come avversario dello status quo, l’attuale presidente agisce nelle vesti di amministratore dei vincoli contro cui questo potere si scontra, e non ha mai fatto nulla per mettere in discussione la subordinazione delle istituzioni repubblicane alle istanze religiose. Ha sempre avuto cura, al contrario, di rimarcare la sua deferenza verso la Guida suprema, un uomo malato e che potrebbe valutare l’idea di farne il suo successore, tanto più se si considera che la massa dell’apparato conservatore e Khamenei stesso non vogliono che la Rivoluzione islamica finisca per dare vita a un potere militare.
Hassan Rohani può diventare l’artefice di una transizione consensuale e promuovere un compromesso storico tra sunniti e sciiti, fondato su regole di condotta e una paura comune dei rispettivi estremisti. È la terza ragione per non escludere uno scenario roseo, qualunque sia l’entità delle sfide da superare a Washington e a Teheran, a Damasco e a Bagdad, a Sana’a e a Beirut, prima che questo sogno possa veramente divenire realtà. ( Traduzione di Fabio Galimberti)