mercoledì 8 aprile 2015


Repubblica 8.4.15
Il vero nome di quella violenza cieca che il nostro Paese non sa pronunciare
di Concita De Gregorio


BISOGNA essere molto longevi, in questo Paese, molto ostinati, un po’ fortunati certo e bisogna anche vivere di poco, consumare l’essenziale per avere — se non sei nessuno — giustizia, perché quattordici anni di ricorsi costano e se non hai soldi chi paga.
Bisogna anche essere dotati di una certa ironia e autoironia, o fatalismo almeno, o fede in una qualche divinità celeste o laica perché se no c’è il rischio molto serio e comprensibile — se per esempio la polizia ti ha massacrato di botte mentre dormivi senza che tu avessi alcuna colpa (ma anche se avessi avuto colpa: la polizia ti ha massacrato di botte) — c’è il rischio si diceva che l’iniziale incredulità per quel che ti è successo e poi la rabbia diventino un’ossessione che ti fa impazzire.
In questo caso non ti ospitano più neppure nei talk show perché sei quel vecchio pazzo che parla solo della Diaz, o la madre annegata nel dolore di un figlio pestato di notte per strada, o ammazzato nell’infermeria di un carcere o colpito da una pallottola “vagante”, che vagava. Queste storie qui, che non fanno ascolti nessuno le vuole sentire, la gente cerca ottimismo e sorrisi, e poi tanto si sa che quando c’è di mezzo il potere, per giunta in divisa, non è mai colpa di nessuno. Non è stato nessuno.
Ogni tanto però c’è l’Europa. Deve essere insieme consolante e deprimente per Arnaldo Cestaro, 75 anni, vedere accolto dalla corte di Strasburgo il suo ricorso sul massacro nella scuola Diaz: sì, fu tortura ed è molto grave che l’Italia non preveda nel suo ordinamento il reato di tortura, dice la Corte europea dei diritti umani. L’Europa condanna, l’Italia no. L’Italia manda assolti i mandanti, condanna a pene lievi gli esecutori materiali (non tutti) e assegna risarcimenti ridicoli alle vittime. Vi hanno resi zoppi e ciechi, vi hanno ridotto in sedia a rotelle, ok: prendete questi 30 mila euro e tornatevene a casa. L’ordine di massacrarvi non ci risulta l’abbia mai dato nessuno. Vedete? 150 udienze, anni e anni di processo e non ci sono le prove. Promossi, i capi, o trasferiti ad altro più prestigioso incarico. Comunque assolti.
Arnaldo Cestaro aveva poco più di 60 anni, quella notte. Era arrivato al G8 di Genova con i suoi compagni della sezione di Rifondazione Comunista di Vicenza e Montecchio Maggiore, aveva sfilato pacificamente per strada poi, la sera, aveva chiesto consiglio su un posto dove andare a dormire. Una donna gli aveva indicato la scuola Diaz, messa a disposizione dagli enti locali come alloggio per i manifestanti. Era l’ultima sera, l’indomani come tutti sarebbe tornato a casa. Per una notte poteva anche sistemarsi per terra, nel sacco a pelo, proprio nell’atrio dietro al portone d’ingresso.
Io me lo ricordo, Arnaldo Cestaro. Mi ricordo nel buio il bianco dei suoi occhi mentre usciva dal cancello della scuola, i ragazzi affacciati all’edificio di fronte che gridavano “è un vecchio, hanno picchiato un vecchio”, e lui che urlava senza che gli uscisse la voce, urlava solo col viso e con lo sguardo. Un braccio, una gamba, dieci costole rotte. Mi ricordo di lui e di tutti quelli che uscivano in barella, uno per uno che non si finiva più di contare, quello che sembrava morto, quella che piangeva perché non trovava più il suo libro e aveva il naso sulla destra della faccia, quelle due rannicchiate in un angolo, abbracciate dentro una pozza di sangue, le Bibbie, le carte d’identità, i Don Chisciotte, le spazzole per capelli, le scie rosse che arrivavano ai maniglioni antipanico delle porte chiuse coi lucchetti e le catene, le impronte rosse delle mani sui registri ancora aperti nell’ufficio della preside.
E su una colonna “ don’t clean up this blood ”, non lavate questo sangue. E poi mi ricordo di Arnaldo Cestaro, un po’ più vecchio, al processo: ero andata a testimoniare contro le menzogne di chi diceva «li stiamo solo aiutando, non vedete, è una semplice perquisizione, erano feriti da prima», ma non è servito a nulla dire io c’ero, ho visto, posso giurare. Mi ricordo il suo sguardo, nell’aula. Non serve dire che abbiamo visto, dicevano i suoi occhi: vedi, i padroni sono loro, i loro avvocati menano la danza, la politica li copre. Non serve.
È anche per questo che sono particolarmente felice che Arnaldo Cestaro sia un uomo longevo. Più dell’attesa che serve e non sempre basta, abbastanza da sentirsi dire oggi da un giudice che non vive in Italia: avevi ragione, hai sempre avuto ragione. Ti hanno torturato, ed erano per giunta uomini in divisa dello Stato: infierire a calci e colpi di manganello su chi dorme è tortura. Non c’era nessuna ragione per farlo e comunque non si può fare: perché le vostre leggi non lo dicono?
Ecco. Non c’era nessuna ragione — vale per lui e per tutte le altre vittime di quella notte — e non si può fare. Difatti è questo che Cestaro chiede dopo la sentenza: «Mi sentirò risarcito solo dopo che lo Stato avrà introdotto il reato di tortura perché se il Parlamento non agisce il male che hanno fatto a me potranno sempre farlo ad altri». Sempre, potranno.
La proposta di legge c’è: giace da due anni in Parlamento. È passata alla Camera, modificata, dovrà tornare al Senato. Molto ostacolata. Non prioritaria.
Bisogna essere molto longevi, ostinati. Ancora, Cestaro. Bisogna credere nella giustizia: se non in quella degli uomini almeno in quella del tempo.