venerdì 3 aprile 2015

Repubblica 3.4.15
“Quid est veritas?” Da Pilato a Carrère l’enigma che ci ossessiona
“Il Regno”, i romanzi ritrovati di Elena Bono, raccolte di testi protocristiani
In libreria spunti diversi per indagare sulla più misteriosa delle biografie
Gesù
di Sivia Ronchey


Il processo che subì ha ispirato autori come Renan, Bulgakov e Robert Graves Nei racconti su di lui echi mistici comuni ad altre civiltà: ebraica, indiana, tibetana

«NESSUNO saprà mai chi fosse Gesù, né, a differenza di Paolo, che cosa abbia detto veramente» è il punto di partenza del Regno di Emmanuel Carrère (Adelphi), una rêverie sulla religione cristiana che «ha cercato di zoomare, come si fa con Google Maps, sul preciso punto dello spazio e del tempo in cui fa la sua comparsa» una voce diretta sul culto di Cristo: quella di Paolo, appunto. La foto del satellite è appannata, imprecisa, circostanza probabilmente inevitabile in un approccio non storico, né teologico, ma puramente letterario; e inoltre ambiguamente confessionale, o postconfessionale: credente nella giovinezza, poi ateo, poi di nuovo affascinato dal cristianesimo come dal buddismo, l’autore ha fatto, scrive, la comunione tutti i giorni allo stesso modo in cui è andato dall’analista due volte a settimana; durante il lavoro ha avuto un altro prezioso consigliere, l’i Ching.
Anche se a Carrère si può applicare quanto scrive dei suoi contemporanei «orfani di ideali collettivi, ai quali è rimasto l’io come unico punto di riferimento» — nel suo caso, l’ego — , Il regno è piaciuto a molti non solo perché ha una scrittura simpatica, a volte spiritosa, altre volte anche intelligente (lo sono per esempio la prima definizione di regno dei cieli e gli appunti sul volto di Cristo), ma anche perché nomina alcuni grandi libri (le Origini del Cristianesimo e la Vita di Cristo di Ernest Renan, pazienza se la ritiene «invecchiata male»; la Vita felice di Seneca; i Racconti di un pellegrino russo ) e soprattutto perché è utile il suo punto di partenza. Che cosa Cristo abbia detto, non lo sappiamo. I Vangeli, cosiddetta parola del Signore, sono testi bellissimi (come sosteneva Oscar Wilde, vale la pena di imparare il greco già solo per leggerli), ma tardi, con una tradizione scritta che non si consolida prima di due o tre secoli dalla sua morte, a partire da raccolte di detti più volte manipolati e mescolati. Sono più antichi gli Atti degli apostoli, ma sempre non anteriori agli anni 80 del I secolo. Su Cristo, la cosa più vicina a una testimonianza storica sono in effetti le lettere di Paolo; anche se non sono ancora un’attestazione del cristianesimo come religione distinta dall’ebraismo, che nasce solo nella seconda metà del II secolo. Ed è solo nel IV-V che il canone evangelico si forma, escludendo per un soffio testi della predicazione protocristiana come il Pastore di Erma o la Lettera di Barnaba , interpretazioni vertiginose, allegoriche e visionarie dell’ancora fluido magma di parabole, comandamenti, vaticini che si coagulerà nei Vangeli. Li pubblica ora la Fondazione Valla in un volume che getta luce sulla cosiddetta “sequela di Cristo” dei primi due secoli ( Seguendo Gesù , a cura di E. Prinzivalli e M. Simonetti, Fondazione Valla, pagg. 680, euro 30).
Storicamente, Cristo è un punto minuscolo nel mare di parole della letteratura antica: poche sillabe in Giuseppe Flavio, Tacito, Svetonio; due righe della lettera di Plinio il Giovane a Traiano; l’accenno nel De morte Peregrini di Luciano; frammenti del perduto Celso. Un ebreo chiamato Yeoshua e soprannominato Christos, l’”unto”, calco dell’ebraico mashiah, “messia”; o forse di nome Chrestos, in questo caso magari uno schiavo grecizzato; che si definì “figlio dell’uomo”; un altro profeta, per le altre due religioni del libro, che a quella cristiana somigliano abbastanza da comporre quasi un’unica religione, che più volte politici e filosofi, come Nicola Cusano, hanno sognato di riunire.
Cristo morì a trentatré anni, o forse a trentanove o a quarantuno, crocifisso perché finito in conflitto, probabilmente involontario, con l’autorità statale romana. Lo condannò Ponzio Pilato, governatore della Giudea, prefettura della provincia romana di Siria, un funzionario incompetente, crudele e corrotto secondo Filone d’Alessandria; forse, ma non necessariamente, fiancheggiato da alcuni vertici religiosi ebraici di Gerusalemme e da autorità politiche giudaiche come Erode Antipa.
Ma le narrazioni evangeliche della vicenda giudiziaria sono frutto di un’interpolazione a posteriori, che ricorre alle scritture ebraiche per alimentarne la dimensione profetica e l’implicazione escatologica; è più affidabile, forse, quella extracanonica del Vangelo di Pietro, uno dei magnifici apocrifi riemersi alla fine dell’Ottocento. L’indagine sul processo di Cristo ha ossessionato per millenni la cultura occidentale, ipnotizzato la poesia celtica, la speculazione islamica e la filosofia tedesca, strappato milioni di pagine alla ricerca storico- giuridica e prodotto nella modernità libri memorabili come la già citata Vita di Gesù di Renan, Il Maestro e Margherita di Bulgakov, Jesus Rex di Robert Graves. Fino a un’appartata autrice italiana, Elena Bono, di cui sono ripubblicati in questi giorni, a un anno dalla morte, alcuni racconti ( La moglie del procuratore , Marietti, pagg. 208, euro 12; Morte di Adamo, Breviario digitale, pagg. 812, euro 8,80) in cui ricorre ostinata la storia della Passione. Anche Bono è stata affascinata dall’oriente prima che dal cristianesimo, ma è ferrata in studi classici e teologici. La sua rêverie è colta, i suoi personaggi sono Seneca, Lucano, Pisone, Petronio; lo scenario, come per Macrobio, la Roma dei Saturnali. Anche qui c’è Paolo, «piccolo reziario scattante», e c’è il non-volto di Cristo, umanità senza individualità; anche qui si esita sulla resurrezione («una forma tipicamente orientale di apoteosi») e la si ridefinisce filosoficamente come stato interiore (la metamorfosi della protagonista, Claudia, vedova appunto di Pilato) e condizione psichica di partecipazione al dolore cosmico («soffro il mondo, le pene degli altri») che appare ispirata, oltre che ai misteri pagani e alla mistica cristiana, alla letteratura buddista. La dolorosa trance della matrona romana è un’immersione nel profondo di sé che ricorda l’estasi esicasta, quella corrente mistica transconfessionale che come un fiume carsico scorre sotterranea e riemerge in epoche diverse nelle diverse zone del globo: in India e nel Tibet come nell’Alessandria di Filone e delle sette platoniche elleniche o nel deserto egiziano dei Padri, per riemergere nella scuola gnostica di Konya, ai tempi di Rumi e del sincretismo tra sapienza cristiana, sufi ed ebraica, per diffondersi nel monte Athos, nelle steppe mongole e nella Madre Russia dei “pazzi in dio”, fino ai Racconti di un pellegrino russo , il diario ottocentesco che folgorò Tolstoj e che anche Carrère cita con devozione. All’ancestrale tecnica della respirazione diaframmatica presupposta dalla preghiera continua, cui si riferisce anche Paolo («pregate ininterrottamente ») nella prima lettera ai Tessalonicesi, si ricollega forse il più oscuro dei moniti evangelici, quello di Matteo 5.3: «Beati i poveri di spirito. È loro infatti il regno dei cieli». Considerando la teoria mistica della respirazione, si può intendere pneuma nel senso sacramentale, cioè letterale, di “alito”: i poveri di spirito saranno allora i “poveri di fiato”, che attraverso l’espirazione hanno raggiunto il Regno, se è vero che «il regno dei cieli è uno stato dell’anima», come scriveva già nel IV secolo Evagrio Pontico, uno degli autori inclusi poi nella Filocalia .
Quid est veritas?, «che cos’è la verità?», è la famosa domanda con cui Pilato ribatte, in Giovanni 18.38, alla dichiarazione processuale di Cristo: «Chiunque è per la verità ascolta la mia voce sulla verità». Secondo Bacone «il nobile disprezzo di un romano davanti all’uso sfacciato della parola verità ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica frase che vi possieda valore». Sia Bono sia Carrère la menzionano ampiamente, ma non ricordano la soluzione fornita in anagramma, si dice, da Agostino: quid est veritas? = est vir qui adest, «è l’uomo che è qui». Se il regno dei cieli non è un luogo ma una condizione psichica, non una promessa futura ma una possibilità presente, il Regno è l’esserci, l’essere ora e qui.