Repubblica 29.4.15
Lo scossone e le ferite
La domanda a questo punto è: cosa succederà poi?
di Stefano Folli
Cosa accadrà all’indomani del «sì» della Camera alla riforma elettorale?
Perché ci sono pochi dubbi che l’«Italicum », o meglio il «Renzellum», sarà approvato con la spinta decisiva dei voti di fiducia. Se così non fosse, se la legge incespicasse all’ultimo, magari in quel voto segreto finale previsto dal regolamento, è ovvio cosa succederà: dimissioni immediate dell’esecutivo.
E non perché Renzi intende punire in tal modo i «gufi» e i conservatori, o perché è arrabbiato con il Parlamento, ma per la semplice ragione che così prescrive il canone istituzionale.
Lo scenario più probabile è però un altro. La riforma passa e diventa legge. Nessun emendamento votato dalla Camera costringe a restituire il testo al Senato, dal momento che tutti gli emendamenti sono stati annientati dalla scelta di porre la fiducia. Il presidente del Consiglio ottiene la sua vittoria e si mette in tasca una pistola carica, pronto a usarla in ogni circostanza per ricondurre alla ragione i parlamentari riottosi. Che in definitiva, come è ben noto, sono quelli del suo partito, ossia la minoranza bersaniana.
Ecco allora che il quesito diventa logico. Cosa accadrà il giorno dopo l’approvazione dell’Italicum? Secondo Renzi, nulla o quasi. Si tornerà al normale tran tran politico-parlamentare con la componente anti-Renzi del Pd resa ancora più debole e frammentata dalla sconfitta. Il «partito della Nazione» invece acquisterà forza, guadagnando nuovi apporti trasversali via via che il potere del premier si consoliderà. Come diceva Ennio Flaiano, c’è chi è sempre pronto a correre in soccorso del vincitore. E in questo caso Renzi è senza dubbio l’apparente vincitore.
Può darsi che la sinistra interna non sia in grado di trasformare la propria frustrazione in una piattaforma politica; può darsi, anzi è probabile, che essa non costituirà una vera minaccia per il premier. Ma le ferite politiche restano e caricano di incognite il futuro del Pd, o di quel che ne resta. In fondo sulla scelta di non votare la fiducia si sono trovati due ex segretari del Pd, Bersani ed Epifani; l’ex presidente Rosy Bindi; un ex capogruppo, Speranza; un ex presidente del Consiglio, Letta; i due candidati sconfitti alle primarie, Cuperlo e Civati. Si dirà che è solo ceto politico, un gruppo di generali senza esercito. Ma da oggi Renzi dovrà badare a dove mette i piedi. I suoi oppositori non sono insidiosi se tutto va bene, le riforme funzionano e il governo ottiene risultati; diventano pericolosi se il premier e il suo governo s’impantanano.
In questa partita che si gioca dentro il Partito Democratico gli altri pesano meno. Sono rimasti sullo sfondo. Forza Italia avrebbe potuto contare, ma si è auto-esclusa al momento dell’elezione di Mattarella, evento su cui è crollato il famoso patto del Nazareno. È stata una legittima scelta politica che tuttavia non giustifica la confusione dei livelli. Lo ha sottolineato con un filo di perfidia il presidente emerito Napolitano: il partito di Berlusconi ha votato in gennaio al Senato, considerandola una sua vittoria, la stessa legge contro cui oggi si scaglia dichiarandola incostituzionale. C’è una contraddizione di troppo, specchio dello stato confusionale in cui versa il centrodestra. Al punto che il capogruppo Brunetta arriva a promettere aiuto, sostegno e forse persino asilo politico in Forza Italia alla minoranza del Pd e in particolare a Speranza.
L’episodio fa sorridere, ovviamente, ma lascia capire che lo scossone nel mondo politico non è trascurabile. La nascita del «partito della Nazione», novità considerevole al centro dello spettro parlamentare, mette in moto spinte e controspinte di cui forse i protagonisti non sono ancora consapevoli. Renzi è convinto di aver dato la massima stabilità al sistema, ma non sarebbe il primo a sbagliare i conti, causa la bizzarra realtà politica del Paese.