giovedì 23 aprile 2015

Repubblica 23.4.15
Il dovere di accogliere
di Lucio Caracciolo


In attesa di ristabilizzare la Libia e spegnere i focolai di guerra avremo a che fare con masse di disperati in caccia di speranza
Questo dramma occuperà le nostre vite Va dunque gestito, con urgenza e cura. Ma senza illudersi di risolverlo con la forza

I FLUSSI migratori non si fermano. Al massimo si deviano. A meno di non ricorrere alla forza, per esempio costruendo il Muro di Berlino.
O FORTIFICANDO la frontiera fra Stati Uniti e Messico con tecnologie d’ultima generazione. Salvo scoprire che prima o poi anche i muri crollano e i confini impenetrabili si svelano porosi.
Quando affrontiamo l’emergenza Libia dobbiamo partire dall’esperienza storica. Da cui deduciamo che in attesa di ristabilizzare quel paese e spegnere i focolai di guerra accesi attorno ad esso, dal Sahel al Corno d’Africa, dal Levante al Golfo Persico, avremo a che fare per il tempo prevedibile con masse di donne, uomini e bambini (molti non accompagnati) in caccia di speranza. Sinonimo, per loro, di Europa.
Questo dramma occuperà il resto delle nostre vite. Va dunque gestito, con speciale urgenza e cura. Ma senza illudersi di risolverlo con la forza. Se provassimo a farlo, lo renderemmo ingestibile. Otterremmo di moltiplicare le vittime, non di ridurle. Non ci sono scorciatoie militari — blocchi navali, aerei o terrestri — a meno di rioccupare la Libia. Si possono e si debbono impiegare alcuni vettori di forza, come già facciamo in alto mare, per salvare vite umane e bloccare qualche scafista. Si possono concepire operazioni coperte affidate a forze speciali, come facemmo vent’anni fa in Albania, quando gli incursori del Comsubin affondarono nottetempo decine di gommoni della morte nei porti di partenza, con il consenso del governo locale e senza che il nostro si affrettasse a comunicarlo. Si può financo pensare di bombardare i barconi prima che si riempiano di potenziali vittime. Ma sono cose che prima si fanno, poi eventualmente si annunciano.
Ormai è tardi. Operazioni di questo genere comporterebbero più rischi che opportunità, visto che sono state evocate in pubblico dai nostri stessi governanti, così permettendo ai mercanti di carne umana di prendere le contromisure. O vogliamo rischiare che una delle nostre (poche) bombe “intelligenti” faccia una strage pensando di affondare un peschereccio dal ponte sgombro ma dalla stiva piena di migranti?
Diversi anni fa, alcuni analisti della nostra intelligence militare, alla ricerca della “soluzione finale” di  un problema che allora cominciava ad affacciarsi sui media, ne proposero una davvero finale: l’Italia e l’Occidente dovevano impegnarsi perché l’Africa subsahariana restasse in povertà assoluta — Quarto Mondo, non Terzo — perché solo la mancanza del denaro necessario ad affrontare il viaggio della speranza attraverso deserti e mari ci garantiva del fatto che nessuno ci avrebbe provato. Per fortuna il documento filtrò oltre le maglie del segreto e fu opportunamente cestinato. Ma è bene non dimenticarsene, per capire a quali nequizie può giungere la nostra ossessione securitaria, rivelatrice d’una radicata insicurezza.
Certo, il governo è sotto pressione. È scattata la sindrome del “bisogna fare qualcosa”, contro la quale lo stesso Obama — teorico (non sempre pratico) del “ don’t do stupid things” — ha messo in guardia Renzi. In chiaro: intervenire stivali su terra nella guerra di mafie che sta infestando l’ex Libia, spazio di nessuno conteso dai clan indigeni e dai loro sponsor esterni (Egitto ed Emirati Arabi Uniti in testa, sul fronte cirenaico, Qatar e Turchia in secondo piano, su quello tripolitano), è follia che ci viene sconsigliata dall’alleato di riferimento. Anche perché, stanti le risorse a disposizione delle nostre Forze armate e di quelle degli eventuali “volenterosi” associati, europei e arabi, presto dovremmo rivolgerci agli americani per carenza di mezzi, benzine e munizioni.
Ma la situazione in Libia è talmente degenerata, e i nervi dei decisori, su entrambe le sponde del Mediterraneo, sono così sollecitati da rendere possibile un intervento “accidentale”, per esempio in risposta a un attentato terroristico in Europa. Magari firmato Stato Islamico, anche se chiunque frequenti la Libia sa che il “califfo” non ne controlla che qualche caseggiato a Derna e dintorni. Decapitandovi quanti più cristiani possibile, nella speranza di attrarci sul suo terreno.
Sotto il capitolo “gestione della crisi” si possono invece promuovere azioni utili ad alleviare la pressione migratoria. E soprattutto a proteggere la vita di chi fugge dalle guerre. Per esempio: convincere, mettendo mano al portafoglio, i pochi Stati più o meno agibili che ancora esistono lungo la frontiera Sud del Mediterraneo ad accogliere in centri umanamente decenti alcune decine di migliaia di migranti, dei quali una buona parte saranno rifugiati ai quali dovremo garantire il diritto di venire ordinatamente da noi. Anche andando a prenderli, usando mezzi e modi civili. Con la Tunisia lo stiamo provando, con l’Egitto l’abbiamo tentato, per ora senza successo. Naturalmente i costi saranno da condividere con gli altri europei, se vorranno cessare i ciechi esercizi di taccagneria in cui si sono finora esibiti.
Alla fine, non potremo però sfuggire al dovere di accogliere. Se esistono ancora dei valori europei, se l’Unione Europea non è solo una parola vuota o il nome contemporaneo dell’ignavia, e se questa Europa vuole avere un posto nel mondo, noi i profughi li ospiteremo. E li tratteremo come si deve a chi soffre anche per causa delle nostre incursioni armate in terre che non ci appartengono più, ma verso le quali esibiamo talvolta patetici riflessi neocoloniali, ribattezzati “guerra al terrorismo”. Un continente di mezzo miliardo di anime può attrezzarsi per riceverne nel tempo un milione e anche più, distribuendo concordemente lo sforzo sulle spalle di ciascun paese in proporzione alle sue risorse. L’alternativa è essere inghiottiti dalla marea che si vuole respingere.