mercoledì 8 aprile 2015

La Stampa TuttoScienze 8.4.15
“Inaffidabili e a volte crudeli”
Come ti distruggo i camici bianchi
Dall’Ottocento al XXI secolo: la storia di una percezione collettiva che ha visto spesso la vittoria di stereotipi e fraintendimenti
di Gilberto Corbellini


Dai sondaggi dell’Eurobarometro e da molte ricerche risulta che gli scienziati (se non lavorano per l’industria) hanno una reputazione sociale relativamente buona, benché non eccellente. Più affidabili sono ritenuti medici e docenti. Emerge tuttavia che, nella percezione pubblica, gli scienziati non sarebbero guidati da un’etica specifica, che - si ritiene - dovrebbe essere loro imposta dalle istituzioni. È un’idea non casuale, come ho sottolineato al convegno del 24 marzo scorso, «Etica della ricerca scientifica», promosso all’Accademia dei Lincei: è significativo che la concezione morale della scienza e degli scienziati che oggi circola nel dibattito pubblico e nella cultura occidentale sia il risultato di un lungo processo storico.
La scienza - intesa come attività conoscitiva volta a scoprire o controllare come stanno le cose attraverso l’uso di metodi trasparenti e razionali - ha concorso in modo decisivo alla maturazione e alla diffusione dei valori costitutivi della modernità, da cui sono derivati tanti miglioramenti della condizione umana: vale a dire l’incremento del benessere economico, attraverso le ricadute sull’innovazione tecnologica, nei Paesi che hanno consentito o promosso proprio la ricerca e l’istruzione scientifica. In questi Paesi è migliorata la salute, sono diminuite violenza e diseguaglianze ed è cresciuta l’«intelligenza», intesa come capacità di risolvere problemi via via più complessi. Senza dimenticare che i valori democratici - a cominciare dallo Stato di diritto - sono più radicati nelle nazioni dove la scienza è parte integrante della cultura civica.
Autonomia crescente
Nell’Ottocento la scienza entrava nelle università - da cui era rimasta fuori, in quanto troppo condizionate dalle ideologie religiose e politiche prevalenti - e assumeva un’autonomia culturale crescente. Nelle università tedesche nasceva e si affermava negli ultimi decenni dell’Ottocento - e poi negli Usa da inizio Novecento - l’idea della «libertà accademica». E intanto lo scienziato cambiava status. La professionalizzazione della scienza e le implicazioni di questo processo sono stati ben descritti nel famoso saggio del 1917 di Max Weber «La scienza come professione» (ma il termine tedesco usato, «Beruf», può significare anche vocazione). La scienza, così, diventa un fattore determinante nel «disincanto del mondo», vale a dire l’abbandono delle credenze magico-superstiziose per accedere attraverso l’intellettualizzazione e il calcolo a un controllo razionale della natura.
Nel corso del Novecento, tuttavia, sono accadute molte tragedie che hanno messo in crisi l’immagine pubblica del cittadino-scienziato. La scienza, nel frattempo, è diventata anche un carburante per l’innovazione e, quindi, per lo sviluppo economico e la stessa economia di libero mercato. Di conseguenza la ricerca e gli scienziati, arruolati o finanziati dall’industria, sono stati spesso visti come asserviti a valori incompatibili con l’indipendenza e con l’oggettività. È stata così tematizzata, a partire dal secondo dopoguerra, l’idea che la scienza sia entrata in una fase «post-accademica», in cui le convenienze personali e gli interessi economici e di potere prevalgono sui valori originari. Una visione, questa, in parte confutata da uno studio del 2008 dello storico Steven Shapin - intitolato «The scientific life. A moral history of a late modern vocation» - ma che non è stato sufficiente a infrangere molti stereotipi.
La Terza Rivoluzione
Sono stati diversi protagonisti della «Terza rivoluzione scientifica» - quella che si è concentrata sullo studio dell’uomo e del suo «ciclo vitale» -, da Monod a Medawar, da Luria a Lederberg, da Crick a Lorenz, a capire in anticipo sui tempi le incompatibilità tra le credenze del senso comune e le conoscenze e le prospettive che la ricerca - e le bioscienze in particolare - stavano aprendo. Monod, in particolare, suggerì di rivendicare l’intrinseca base etica della ricerca (la cosiddetta «etica della conoscenza scientifica»). Le comunità degli studiosi, tuttavia, non sono riuscite a far capire questo punto di vista. Non è casuale che il primo documento che analizza lo scostamento di percezioni e interessi tra la scienza e la società - «The public understanding of science» della Royal Society e che risale al 1985 - è stato presentato dai sociologi della scienza come frutto di un fraintendimento e, quindi, espressione di un’idea unidirezionale della divulgazione scientifica. Ma il cambiamento della percezione della scienza e degli scienziati è stato certamente influenzato anche da una serie di abusi, che si sono verificati, per esempio, sotto i regimi totalitari, come quello nazista, e poi nell’ambito della ricerca clinica, con il richiamo e lo sfruttamento ricorrenti di questi casi per segnalare un’intrinseca pericolosità della scienza.
Interventi mirati
Tali abusi hanno portato a interventi politici e legislativi mirati, ma non necessariamente rispondenti alle esigenze reali. In particolare, l’affermarsi della bioetica - l’idea che esistano esperti di morale, i quali dovrebbero istruire e sorvegliare, fornendo linee-guida e codici deontologici - ha concorso ad alimentare una percezione negativa della stessa ricerca, nonché a divulgare una serie di fraintendimenti.
In questo senso il modo in cui spesso sociologi e politici parlano della ricerca, ricorrendo ad aneddoti e argomenti alquanto inconsistenti, è esemplare di un’eclatante incomprensione dell’epistemologia scientifica.
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