Il Sole Domenica 26.4.15
Orson Welles (1915-1985)
Un cane sciolto a Hollywood
Un secolo fa nasceva il più incontrollabile, insofferente genio scespiriano moderno. «Quarto potere» cambiò il cinema
di Emanuela Martini
Cent’anni fa, il 6 maggio, del 1915, a Kenosha nel Wisconsin, nacque un genio (morto trent’anni fa, il 10 ottobre del 1985 a Hollywood): Orson Welles, il più inventivo, debordante, incontrollabile, insofferente dei registi moderni, imponente interprete shakespeariano prestato al cinema nei panni di giganteschi tiranni («Nel teatro classico» ha detto «c’erano due tipi di attori: quelli che interpretano i re e quelli che no. Io sono uno di quelli che interpretano i re»), un “vecchio zingaro sbrindellato” (come si è definito) in eterno pellegrinaggio attraverso l’America e l’Europa per trovare i soldi necessari per i suoi film. Pochi: appena 14 in quarant’anni di carriera, alcuni dei quali storpiati e rimontati, e molti incompiuti, abbozzati, girati solo in parte.
E dire che a Hollywood era arrivato, nel 1939, dalla porta principale, ventiquattrenne enfant prodige cui la Rko, in un contratto per tre film, aveva concesso libertà assoluta come regista, produttore e sceneggiatore. Come ha detto Welles, nel 1973 in F come falso (il suo penultimo film, sornione, lucido, sui falsari e sull’arte): «Avrei potuto finire in galera... invece sono finito a Hollywood», siglando così il clamoroso exploit radiofonico che nel 1938 lo aveva reso celebre.
La storia è nota. Welles, che da metà degli anni Trenta era una presenza importante del vivacissimo teatro newyorkese, aveva fondato con John Houseman il Mercury Theatre che, nell’estate del 1938, era andato “on air” sulla Cbs. Adattavano per la radio classici popolari, come Dracula, L’isola del tesoro, Oliver Twist, e la sera di Halloween di quell’anno mandarono in onda La guerra dei mondi di H. G. Wells, rielaborata come radiocronaca di un’invasione marziana in atto. La trasmissione era preceduta dalla sigla del Mercury, ma molti degli ascoltatori si sintonizzarono dopo l’inizio e credettero fosse tutto vero, nel Paese scoppiò il panico, i dirigenti della Cbs tentarono di bloccare Welles, che invece restò piantato davanti al microfono fino alla conclusione. Il ritorno pubblicitario fu immenso e Welles finì a Hollywood. Nel 1941, uscì «il film più bello della storia del cinema» (classifica di «Sight and Sound»), quello che ha scatenato più vocazioni alla regia (secondo Truffaut) e che segna l’anno uno del cinema moderno: Quarto potere, indagine labirintica sul magnate Charles Foster Kane, dove Welles “inventa” la profondità di campo (insieme al direttore della fotografia Gregg Toland), il piano sequenza, un uso creativo del flashback, e accentua a dismisura gli strati di ambiguità analitica e psicologica della narrazione. Tutto il cinema successivo gli deve qualcosa.
Presto, però, la sua fortuna hollywoodiana tramonta: Welles s’invischia in un film in Brasile (It’s All True) e perde il controllo finale di L’orgoglio degli Amberson (che pure è magnifico), mentre Terrore sul Mar Nero non ha nemmeno la sua firma. E così comincia il suo rapporto controverso con Hollywood, il suo successo come attore, il suo incessante girovagare. Nel 1946 gira un noir inquietante e imitatissimo (la sequenza nell’acquario, il labirinto di specchi), La signora di Shanghai, con la moglie Rita Hayworth, e nel 1947 uno stringato Macbeth a bassissimo budget, tassello della produzione shakespeariana che comprende il sontuoso Otello barbaro girato in Italia e in Marocco, e il magnifico Falstaff spagnolo del 1965, la storia di un vecchio dal cuore tenero e dalla vitalità vorace, tradito e umiliato dagli amici. Nel 1958, in una sortita hollywoodiana, gira un poliziesco che, ancora una volta, inaugura gli incubi contemporanei: L’infernale Quinlan, viaggio nel potere attraverso gli occhi di una specie di Falstaff inacidito e incattivito. Con Psyco di Hitchcock, il film chiave del cinema americano della seconda metà del Novecento.
Per il resto, sprazzi, desideri, progetti troncati (come il Don Chisciotte), ironia, “marchio di fabbrica”: «My name is Orson Welles», nella pubblicità di porto o champagne, con la sua figura diventata enorme intabarrata di nero, il sigaro tra le dita e l’intelligenza e il sense of humor che sprizzano dagli occhi. Mai pacificato, mai rassegnato, nel 1975, quando l’American Film Institute gli conferì un premio alla carriera, si definì «un cane sciolto», che «va sempre per la sua strada, ma non pensa che sia l’unica strada e non pretende nemmeno che sia la migliore, tranne forse che per se stesso». Un cane sciolto che ha cambiato la faccia del cinema e che ci ha insegnato a guardare l’ambigua rete di verità che traspare dallo schermo.