sabato 4 aprile 2015

Il Sole 4.4.15
Storia e geopolitica
Il compromesso di Losanna lascia irrisolto il problema di sempre: la volontà iraniana di distruggere lo Stato ebraico
Le ragioni d’Israele e l’odio antico di Teheran
di Ugo Tramballi


«La distruzione di Israele non è negoziabile», diceva il giorno prima dell’accordo di Losanna, il generale Muhammad Reza Naqdi. La precisazione del comandante dei Basij, la milizia volontaria, uno dei pilastri del regime iraniano, aiuta a spiegare le reazioni altrimenti incomprensibili di Bibi Netanyahu. Molti Paesi hanno nemici pericolosi, ma nessuno è dichiaratamente minacciato di estinzione come Israele: non minacciato da un’organizzazione terroristica ma da un altro paese che siede nel consesso delle Nazioni Unite.
Per questo due settimane prima delle elezioni Benjamin Netanyahu è andato al Congresso di Washington a tenere un discorso politicamente deprecabile, e ciononostante ha conquistato il voto della maggioranza degli israeliani. Gli ex generali, gli ex capi capi di tutte le agenzie di intelligence e molti di quelli ancora in servizio, insistono sull’impossibilità di bombardare i siti nucleari iraniani; ricordano che un negoziato è necessario e che quella condotta dal 5+1 fosse una buona trattativa. Ma la maggioranza degli israeliani continua a credere a Bibi più che a loro.
C’è qualcosa di irrazionale ma comprensibile nel comportamento collettivo, data la storia che ha portato alla nascita d’Israele. C’è fortunatamente più razionalità nei vertici militari, la gran parte dei quali quando passano alla politica, entrano nei partiti di centro-sinistra e nel campo della trattativa con i palestinesi. Tuttavia, quando c’è di mezzo la sicurezza nazionale, evitano rischi e scelgono la strada più dura. Secondo Itamar Rabinovich, uno dei più importanti diplomatici israeliani, il governo «è scettico su Obama e sulle sue politiche in Medio Oriente. In particolare teme che sull’Iran non siano esercitate sufficienti pressioni». Ha’aretz, il giornale della sinistra israeliana, è più brutale sulle ambiguità americane: «Combattendo l’Iran in Siria, aiutando l’Iran in Iraq, negoziando con l’Iran in Svizzera».
Poi c’è la retorica di Bibi. Israele, diceva ieri Netanyahu, «non accetterà un accordo che permetta a uno stato che invoca la sua distruzione di acquisire l’arma nucleare». Nella dichiarazione c’è una falsità e una verità. La prima è affermare che i 5+1 ignorino la sicurezza d’Israele. Il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier, che a Gerusalemme riscuote più fiducia di John Kerry, ha invitato gli israeliani a guardare con più attenzione gli accordi di ieri, i cui punti «sono intesi a garantire la sicurezza del Medio Oriente: che migliorerà, non peggiorerà».
Ma la parte di verità della dichiarazione di Netanyahu è la politica ufficiale dell’Iran che prevede la distruzione d’Israele, armando Hezbollah e Hamas. L’affermazione del comandante dei Basij dimostra che il presidente Rohani e il ministro degli Esteri Zarif sono i titolari dell’agenda nucleare, ma non controllano le altre: il sostegno a Hezbollah, l’Iraq, lo Yemen, la democratizzazione interna e la normalizzazione delle relazioni internazionali.
L’ultimo rilancio di Netanyahu, ieri pomeriggio alle soglie della pasqua ebraica, ha un senso. «L’accordo finale» che sarà siglato a giugno, dice Bibi, «deve costringere l’Iran a riconoscere il diritto d’Israele di esistere». In qualche modo è un ostacolo, il tentativo d’imporre un capitolo estraneo alla questione del nucleare. Ma è ineludibile. L’Arabia Saudita, gli altri paesi arabi e perfino il regime siriano sono nemici d’Israele per una questione politica: hanno ripetutamente detto di essere pronti a riconoscere lo stato ebraico se nasce quello palestinese.
L’Iran no, il suo rifiuto d’Israele è a prescindere. Il rilancio più logico sarebbe di aggiungere nel negoziato la rinuncia d’Israele all’arma atomica: è l’unico ad averla in Medio Oriente. Ma i Basij, i Pasdaran e il resto dei custodi della rivoluzione khomenista non saranno mai così brillantemente flessibili.