Il Sole 30.4.15
I numeri «esili» della sfida dei big
di Lina Palmerini
Dal numero 38 - quanti sono stati quelli che non hanno votato la fiducia - parte l’offensiva contro il Governo e dentro il Pd. Un numero esile per un’impresa tanto grande quanto legittima.
I numeri raccontano sempre una storia, spesso diversa dalla versione dei protagonisti. E quelli della fiducia di ieri sono stati: 352, 50 e 38. I primi sono stati a favore di Matteo Renzi, l’ultimo invece riguarda la minoranza che ne esce piuttosto ridimensionata.
Soprattutto se si pensa che alla testa di questa operazione politica erano scesi in campo ex leader del Pd come Bersani ed Epifani, l’ex premier Enrico Letta e personaggi di calibro come Rosy Bindi o l’ex capogruppo Roberto Speranza e Gianni Cuperlo, già sfidante di Renzi alle ultime primarie. E dunque una prima linea di tutto rispetto, l’élite del partito anti-renziano che però ha fatto davvero pochi proseliti. E ha mancato non uno ma due obiettivi. Non c’è stato un effetto destabilizzante sulla maggioranza; non si è ricompattata la minoranza.
E qui arriviamo agli altri due numeri della giornata. Con 352 voti a favore, ieri Renzi ha incassato la quarta migliore fiducia del suo Governo (le ultime erano state di 353 sì) e quindi quel richiamo alla battaglia dei big ha avuto ben poco impatto sulla maggioranza e sulla stabilità. Non che questo voglia dire che da qui in avanti sarà tutto più facile. Al contrario. I problemi cominceranno al Senato dove i numeri sono davvero risicati per il Governo come si è visto ieri quando, a poche ore di distanza dal voto di fiducia, l’Esecutivo ha rischiato di andare sotto sul provvedimento sulla Pubblica amministrazione. È rimasto in piedi per un solo voto.
Quindi la navigazione a Palazzo Madama resta complicatissima anche se la svolta sarà l’Italicum. Se davvero Renzi incasserà la legge elettorale - dopo le altre due fiducie di oggi e il voto finale (segreto) la prossima settimana - allora governerà con quella sul tavolo. Pronto a usare le urne per andare avanti. A quel punto anche i senatori dissidenti ci penseranno seriamente a staccare la spina al Governo sapendo che se si vota rischiano di non rientrare in Parlamento. Se davvero faranno cadere Renzi non sarà più possibile scivolare tra le parole e la logica come faceva ieri Cuperlo che diceva di votare contro la fiducia ma di voler restare nel partito, un parodosso degno della meccanica quantistica.
Se la minoranza sposterà la manovra anti-Renzi al Senato, sarà più facile - visti i numeri - ma è chiaro che si interromperà la legislatura perché ci sarà uno strappo reale e non solo virtuale nel Pd. E alle urne si andrà con l’Italicum o con il Consultellum solo al Senato, che vuol dire per i partiti una soglia di sbarrammento all’8% per ciascuna Regione. Insomma, non sarà una passeggiata fuori dal Pd.
Soprattutto se si parte, appunto, con il numero 38 quanti sono stati i deputati che ieri hanno seguito i capi-corrente e non hanno votato la fiducia. Ma guardiamo dentro questo numero. Innanzitutto rappresenta l’insieme delle minoranze che fino all’altroieri contavano almeno su un centinaio di deputati, quindi le defezioni sono state molte. Non solo. In Area riformista che è quella che fa capo a Bersani e Speranza la spaccatura è stata netta: 50 hanno votato la fiducia e 18 no. Quindi l’ex leader e l’ex capogruppo sono diventati minoranza della minoranza. A parte il gioco di parole il dato è piuttosto amaro perché il gruppo parlamentare attuale - 310 deputati - è stato in gran parte selezionato da Bersani (in parte anche con le primarie) ed è poi confluito nelle varie minoranze, circa 80 a Bersani, circa 20 a Cuperlo.
Alla fine la democrazia è fatta di numeri e sono i numeri che danno l’allarme.