domenica 26 aprile 2015

Il Sole 26.4.15
Disuguaglianza
Credenze e realtà
La leggenda delle disuguaglianze crescenti
di Luca Ricolfi


Da quanti anni lo sentiamo dire? Da quanti anni lo leggiamo sui giornali? Da quanti anni gli studiosi si affannano a ricordarcelo?
Il mondo sta diventando sempre più diseguale, ci ripetono. Un po' ovunque le disuguaglianze stanno crescendo in modo esplosivo, o esponenziale, come si usa dire con abuso di linguaggio (“esponenziale” non significa veloce, ma semplicemente a tasso costante). E l’aumento delle disuguaglianze, nel giro di pochi anni, è anche diventato il principale imputato per la crisi che ci attanaglia dall’agosto del 2007. Se la crescita si è fermata, ci dicono, è perché vi è stata una spaventosa crescita delle diseguaglianze.
Ma è vero che le diseguaglianze stanno crescendo in modo così esplosivo?
Il dossier della Fondazione David Hume e del Sole 24 Ore, che analizza più di 50 anni di storia della diseguaglianza in quasi tutti i Paesi del mondo, fornisce ora una base di dati ampia e relativamente completa per provare a fornire qualche risposta (vedi le pagine 2-5 del giornale). Ed eccone alcune.
Se consideriamo il mondo come un unico Stato, e misuriamo il grado di diseguaglianza fra i cittadini del mondo, la diseguaglianza è molto cresciuta negli anni '80, ma ha smesso di crescere intorno al 1992, ed ha cominciato a diminuire sistematicamente a partire dal 2000. Dunque, nel XXI secolo la tendenza della diseguaglianza mondiale è alla diminuzione.
La diseguaglianza fra i livelli di benessere delle nazioni, o diseguaglianza internazionale, ha invece smesso di crescere già intorno al 1990, e si sta riducendo a un ritmo molto rapido da circa un quarto di secolo.
E le diseguaglianze interne ai vari Paesi del mondo?
Qui tutto si può dire, tranne che esistano tendenze generali. La diseguaglianza interna sta crescendo in modo preoccupante in Cina (dal 1982) e in India (dal 2002), ma nel resto del mondo il grado medio di diseguaglianza, dopo aver raggiunto un massimo nel 1996, ha un andamento sostanzialmente piatto, frutto di movimenti molto complessi e diversi da Paese a Paese e da periodo a periodo.
La diseguaglianza, ad esempio, nei Paesi ex comunisti ha fatto un balzo in avanti nei primi anni '90, dopo la caduta del muro di Berlino, mentre in America latina è in costante diminuzione dall’inizio del XXI secolo.
E nelle società avanzate?
Qui, forse, incontriamo le maggiori sorprese. Se consideriamo l’insieme dei Paesi Ocse (più Singapore e Hong Kong), la tendenza principale della diseguaglianza è stata all'aumento fra gli anni '80 e gli anni '90, ma negli ultimi 10-15 anni non presenta una tendenza netta, e se proprio vogliamo trovarne una, è a una lievissima diminuzione. In alcuni Paesi (ad esempio il Giappone) prevale nettamente la tendenza all’aumento, in altri (ad esempio la Turchia) prevale quella alla diminuzione, in altri ancora non è possibile rintracciare alcuna tendenza sistematica.
Fra questi ultimi vi è anche l'Italia. Da noi è da vent'anni (dal 1993) che il grado di diseguaglianza (misurato con l’indice di Gini) oscilla intorno a 0.33. Un valore più basso della media (ponderata) dei Paesi Ocse (pari a 0.35 nel 2013), e decisamente più basso del valore (0.37) che l’indice aveva in Italia alla fine dei “gloriosi 30 anni”, quelli caratterizzati dall’espansione dello Stato sociale.
E negli anni della crisi?
Se guardiamo alle società avanzate, i dati disponibili, talora fermi al 2012 o al 2013, non consentono alcun racconto unitario, perché la dinamica della diseguaglianza varia considerevolmente non solo a seconda dei Paesi, ma anche in funzione del modo di misurare la diseguaglianza, che può riferirsi al reddito o alla ricchezza netta, a tutti gli strati o solo agli strati estremi (i super-ricchi e gli ultra-poveri). E tuttavia, fra le innumerevoli storie che emergono dai dati disponibili, ve n’è almeno una che si presenta con inquietante frequenza, quella che potremmo chiamare della “curva a V”. In parecchi Paesi (fra cui l’Italia) il profilo della diseguaglianza negli anni a cavallo della recessione 2008-2009 sembra essere stato prima calante e poi crescente, come se la crisi avesse prima penalizzato e poi premiato i ricchi. È successo nel Mezzogiorno d’Italia, dove la crisi pare aver reso ancora più strutturale e permanente un divario che tale era già. Ed è successo nella maggior parte delle economie avanzate, dove la quota di ricchezza degli strati superiori stava calando subito prima del 2009, ma è tornata a crescere negli anni successivi. Difficile pensare che questo movimento, laddove si è manifestato, non abbia a che fare con il movimento degli indici azionari, prima calanti e poi crescenti.
Se questa lettura avesse qualche fondamento, sarebbe difficile non notare un paradosso. I progressisti sono ovunque schierati per le politiche di espansione monetaria, come il Quantitative Easing di Draghi, ma paiono non rendersi conto di un punto recentemente sottolineato da Pascal Salin, in uno dei libri più interessanti sulla lunga crisi di questi anni (“Tornare al capitalismo per evitare le crisi”, Rubbettino 2011): i tassi di interesse bassi inflazionano il valore degli asset (titoli e immobili), favoriscono la speculazione, e per questa via, premiano innanzitutto i livelli alti della gerarchia sociale.
Insomma, dopo anni in cui la diseguaglianza aveva cessato di crescere, potrebbero essere proprio le politiche pensate per far ripartire la crescita a innescare un nuovo processo di aumento delle diseguaglianze, dopo quello degli anni della globalizzazione. È solo un’ipotesi, ma forse varrebbe la pena rifletterci su.