Il Sole 24.4.15
La messa in sicurezza del Nord Africa passa per Algeri
Il «fronte» libico. Necessaria la collaborazione dei paesi limitrofi
di Alberto Negri
L’Europa e l’Africa se vogliono risolvere questa crisi umanitaria e politica legata ai migranti devono parlarsi. La Libia è un Paese di transito non di arrivo, i problemi arrivano da molto lontano sia geograficamente che nel tempo.
«Se il tuo vicino di casa ha un problema prima o poi si presenterà anche da te: i nostri confini sono affondati nella sabbia e qui si sta riversando tutto il continente alle nostre spalle», diceva quache tempo fa il ministro della Cultura Mohammed Al-Amin parlando delle infiltrazioni dei jihadisti, del caos e dell’anarchia in Libia.
I migranti già da tempo salivano sui barconi impigliati come sardine nella rete degli scafisti e Al Amin, archeologo, attivista politico, con alcuni anni di carcere alle spalle nelle prigioni di Gheddafi, guardava dritto negli occhi i suoi interlocutori europei nella speranza che capissero in tempo.
Nel suo ministero di Tripoli assediato dai miliziani mandò un ultimo messaggio: «Spero che i giovani figli della patria abbandonino i mitra e si armino di penna». Fu quasi un epitaffio sulla nazione libica ma anche sui raid aerei occidentali che avevano abbattuto Gheddafi e poi abbandonato la Libia al suo destino, insieme a un pezzo di Africa.
Quali sono le motivazioni che spingono centinaia di persone a rischiare la vita su barconi carichi fino all’inverosimile? Dimentichiamo il concetto che l’Europa sia un Eldorado. La situazione reale è che queste persone non hanno scelta. Il concetto che si tratti soltanto di “migranti economici” non regge, sono in molti ovviamente spinti da questa motivazione ma da sola non spiega tutta la gravità della situazione.
Le cifre del 2014, confermate anche dalle tendenze del 2015, dicono che per il 25% si tratta di cittadini siriani che fuggono da guerra e persecuzioni e che potrebbero richiedere lo statuto di rifugiati in Europa; per il 20% sono eritrei, anch’essi in fuga da persecuzioni e guerre, poi ci sono, in grande percentuale, somali e sudanesi che provengono da zone di conflitto e fortemente instabili, non da oggi ma da circa vent’anni. Nei quattro anni di guerra in Siria ci sono stati 4 milioni di profughi all’estero e soltanto 120mila sono arrivati in Europa, altri 3,8 milioni sono in Turchia, Libano, Giordania. Queste sono le cifre e la dimensione del problema.
L’Europa, come l’Italia, è in prima linea non soltanto contro gli scafisti ma è di fronte al crollo di interi stati. Con impercettibile ma fatale ritardo riconosciamo adesso che alle nostre porte di casa ci sono guerre e conflitti civili in atto da decenni. La guerra in Somalia risale alla caduta di Siad Barre nel ’91 e da allora ci sono stati decine di tentativi di stabilizzazione ma a tutt’oggi non si è affermato nessun leader nazionale capace di creare una qualsiasi forma di governo. In Eritrea Isaias Afewerki, un tempo eroe dell’indipendenza tigrigna, si è trasformato in un dittatore che sta angariando il suo popolo e ha chiuso ogni progetto di collaborazione con l’Unione europea.
Le stragi in Sudan e nella parte meridionale del Paese, quelle dei Boko Haram in Nigeria, il dissesto statuale del Mali, l’insostenibile povertà del Niger, non sono fattori sconosciuti ma le scosse telluriche che muovono lo tsunami dei profughi. Miseria politica e miseria economica vanno insieme, a braccetto.
Senza la collaborazione degli stati africani, almeno di quelli ancora in piedi, non si va da nessuna parte. L’Algeria è uno di questi: la messa in sicurezza del Nordafrica e del Sahel passa per Algeri. Forse qui si sono dimenticati degli oltre 150mila morti della guerra tra regime militare e islamisti che seguì il colpo di stato del ’92 ma è proprio questa storia complessa e la posizione strategica che fanno dell’Algeria, come di Tunisia, Marocco ed Egitto, un partner fondamentale. Questi Paesi non sono dei vicini distanti ma, come diceva il ministro libico Al Amin, i loro problemi adesso sono diventati i nostri.