domenica 12 aprile 2015

Corriere La Lettura 12.4.15
«O Capitano!» Il sogno di Whitman
di Giuseppe Conti


Abraham Lincoln era alto quasi due metri, scarno, le braccia troppo lunghe, i lineamenti decisi, come intagliati nella pietra. Aveva una oratoria persuasiva, una grande energia magnetica. Walt Whitman, che era più giovane di lui di dieci anni e non lo incontrò mai di persona, lo definì «dolce, schietto, giusto, risoluto». Il sedicesimo presidente degli Stati Uniti aveva diversi aspetti in comune con il poeta di Foglie d’erba . Si era formato da autodidatta, con quello che significa creare la propria cultura fuori da cerchie accademiche, a contatto con i libri scelti personalmente come sacri; aveva probabilmente, anche se fioriscono in proposito inutili polemiche, una qualche inclinazione omosessuale; ma soprattutto, pur avendo dato eccellenti prove di sé come politico navigato e astuto, non era estraneo a un sentimento poetico della vita nazionale, a una idea poetica della democrazia. Una concezione con radici bibliche dove contano unità, fusione, inclusione, libertà, speranza, nuovi orizzonti, che balenò ancora nel discorso di Barack Obama al suo insediamento alla Casa Bianca, quando con un presidente afroamericano si coronò un «sogno comune nato da due continenti». Lincoln aveva lavorato, agito, combattuto, ed era morto per rendere possibile quel sogno. Whitman, gigantesco poeta, poté permettersi di andare oltre, di mostrare che una vera democrazia, da fondare e rifondare continuamente, implica la potenza dispiegata della natura, la fraternità di un abbraccio tra compagni, l’entusiasmo del lavoro, il continuo movimento, la passione erotica. Ma fu Lincoln a dare voce al principio di una «nuova nazione», concepita nella libertà, rinata nella libertà, e alla speranza profetica che «l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo non abbia a perire dalla terra». Lincoln fu un eroe sacrificale. Aveva appena vinto una guerra fratricida come quella di Secessione, stava nel palco di un teatro a Washington ad assistere a una commedia, quando fu colpito alla nuca da un sudista, da uno sconfitto, che volle dare al suo gesto il senso del tirannicidio. Ma ormai Lincoln era per il mondo intero il Grande Emancipatore, colui che con il Proclama di Emancipazione e l’introduzione del XIII Emendamento aveva debellato lo schiavismo e messo fine, come scrisse Whitman, al «più sporco crimine che la storia abbia conosciuto in qualunque terra o età». Victor Hugo, in quel momento lo scrittore più influente d’Europa, i cui Miserabili uscirono subito anche al di là dell’Atlantico, inviò diversi messaggi di ammirazione a Lincoln, e ne ricevette in risposta un ritratto autografato. Whitman sentì sicuramente risuonare in sé i temi e i toni dei discorsi di Lincoln. Ma fu soprattutto la fine tragica del suo presidente che lo sconvolse e agì sulla sua vena poetica. A caldo, mentre il treno del lunghissimo corteo funebre portava la salma di Lincoln da Washington a Springfield, nell’Illinois, Whitman cominciò a maturare i versi di Quando i lillà fiorirono l’ultima volta davanti alla porta del cortile , in cui il tragico fatto di sangue è risolto in una malinconica elegia sul senso universale della morte e della rinascita, e i versi inneggianti e tambureggianti di O Capitano! Mio Capitano! destinati a diventare popolarissimi. Così Lincoln, ormai polvere che «fu una volta un uomo», trovò il poeta che lo consegnò all’eternità del mito, a un sogno sempre rinnovato di libertà, di uguaglianza e di amore della vita.