Corriere 8.4.15
Riforma elettorale
Un gigante con tanti cespugli
di Antonio Polito
Se tutto resterà com’è, non c’è da andar tanto fieri della riforma elettorale che Montecitorio si appresta a varare. Innanzitutto per un problema di metodo. Le leggi elettorali sono le regole del gioco politico, e dovrebbero perciò essere considerate imparziali dal maggior numero possibile di giocatori. Altrimenti nascono zoppe, con maggioranze risicate, e hanno vita breve, come accadde prima al Mattarellum e poi al Porcellum. L’Italicum sembrava partito bene. Renzi chiarì che per evitare quel rischio bisognava cercare un compromesso tra le maggiori forze politiche. Per questo fece un accordo con Berlusconi, e a chiunque chiedesse modifiche replicò che non poteva tradire quell’accordo. Per questo ne offrì uno, a un certo punto sembrò anche seriamente, ai Cinquestelle. E invece in dirittura finale l’Italicum arriva con un sostegno politico molto ristretto, perfino inferiore alla stessa maggioranza di governo, a causa della fronda interna al Pd; addirittura inferiore al consenso con cui fu approvato il Porcellum, che per lo meno ebbe i voti di tutti i sostenitori del governo dell’epoca, e cioè Forza Italia, An, Lega Nord e Udc.
C’è dunque un’elevata probabilità che gran parte dello schieramento politico consideri ostile la legge che sta per essere approvata, e ne contesti aspramente la legittimità anche in futuro, fino magari a sostituirla per l’ennesima volta quando le maggioranze muteranno. Non sarebbe una novità: da vent’anni cambiamo sistema elettorale ogni dieci anni.
M a se il risultato fosse eccellente, e cioè una legge elettorale di stampo europeo al di sopra di ogni sospetto, si potrebbe anche tollerare il modo in cui nasce. Purtroppo non è così. Di stampo europeo certamente non è, perché il premio di maggioranza non esiste in nessuna delle grandi democrazie europee con l’eccezione della Grecia (anche se il premier garantisce che correranno a copiarcela tutti). Al di sopra di ogni sospetto nemmeno, perché introduce di fatto l’elezione diretta del capo del governo senza dargliene i poteri e senza prevedere i contrappesi che esistono nei sistemi presidenziali. Produrrà dunque uno pseudo presidente in uno pseudo Parlamento, quest’ultimo essendo ulteriormente indebolito dal declassamento del Senato a vacanze romane dei consiglieri regionali e dalla selezione per nomina di un elevato numero di deputati. Per di più, non prevedendo la possibilità di apparentamenti al secondo turno come invece è nelle città italiane e nel Parlamento francese, assegna il 55% dei seggi a uno solo e il restante da dividere tra tutti gli altri, che a questo punto saranno molti visto che lo sbarramento è al 3%. Il risultato non sarà una forte e responsabile opposizione, bensì un coacervo di sigle frammentato e impotente, inevitabilmente portato al chiasso mediatico e alla protesta demagogica.
Un gigante e tanti cespugli: non è esattamente questa la democrazia rappresentativa in Europa. Non stiamo infatti per approvare una legge maggioritaria, che moltiplica i voti in seggi per dare una maggioranza; ma una legge proporzionale, cui alla fine si sommano i seggi del premio. Della stessa famiglia, dunque, delle tre più contestate della nostra storia: la legge Acerbo del 1923, la cosiddetta legge-truffa del 1953 (su entrambe il governo mise la fiducia) e la legge Calderoli del 2005.
I difetti dell’Italicum sono tanti. Il pregio è unico, ma non da poco: risponde a uno stato di necessità, e riempie il vuoto aperto dalla sentenza della Consulta. Qualsiasi legge elettorale è meglio di nessuna legge elettorale. Però in sedici mesi si doveva (e si può ancora) fare di meglio.