giovedì 30 aprile 2015

Corriere 30.4.15
Dal fascismo alla Resistenza Il dramma di una nazione
risponde sergio Romano


Abbiamo assistito in questi giorni a molteplici rievocazioni delle azioni svolte dai gruppi partigiani per la liberazione dell’Italia dall’occupazione delle forze nazifasciste dopo l’armistizio e nella settimana del 25 aprile. Non sono state mai presentate simili azioni effettuate nel periodo bellico precedente all’8 settembre. Forse i gruppi partigiani non si erano ancora organizzati?
GIancarlo Caramanti

Caro Caramanti,
La formazione di un fronte antifascista militante è un processo lento, legato alle vicende del conflitto. Alla fine degli anni Trenta vi erano critiche e malumori che i prefetti segnalavano regolarmente al ministero degli Interni. Ma la popolarità di Mussolini nel Paese era ancora alta e diffusa. Molti italiani gli avevano attribuito il merito di avere «salvato la pace» con l’incontro di Monaco tra Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia nel settembre 1938. Non aveva salvato la pace, ma quasi tutti, a maggiore ragione, gli furono grati per avere proclamato la non belligeranza del Paese dopo lo scoppio del conflitto nel settembre dell’anno seguente.
Una prima opposizione cominciò a manifestarsi dopo la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940. Ma credo che il nazionalismo, in quel momento, abbia finito per prevalere su qualsiasi altra considerazione. La fronda crebbe con le prime sconfitte militari in Libia, Africa Orientale e Grecia, ma le sorti del conflitto non erano ancora segnate e parecchi italiani, non necessariamente fascisti, esitavano a prendere posizioni che sarebbero state tacciate di «anti-patriottismo». Il malumore divenne più tangibile negli ultimi mesi del 1942 per un certo numero di ragioni: i bombardamenti delle grandi città, lo sfollamento della popolazione civile, la crescente penuria di generi alimentari, la sconfitta di El Alamein fra ottobre e novembre, quella ancora più decisiva di Stalingrado nel febbraio del 1943. Il 1942 è l’anno in cui buon parte dell’intellighenzia italiana si scoprì antifascista.
Un mese dopo, agli inizi di marzo, il malumore divenne protesta in alcune grandi fabbriche dell’Italia del Nord. Gli scioperi di Torino e Milano erano economici, ma dimostravano, soprattutto nella prima delle due città, che in ambienti operai vi erano gruppi antifascisti capaci di mobilitarsi e organizzarsi. I comunisti se ne attribuirono i meriti e non esitarono a sostenere, con qualche forzatura, che all’origine delle prime proteste italiane vi erano soprattutto i successi dell’Armata Rossa. Secondo Pietro Secchia, uno dei maggiori esponenti del comunismo italiano, sembra che anche Mussolini, tuttavia, fosse giunto alle stesse conclusioni.
Per assistere alle prime manifestazioni di resistenza occorre attendere l’armistizio dell’8 settembre e la ricostituzione di uno Stato fascista dopo la riapparizione di Mussolini sulla scena politica. Fu quello il momento in cui parecchie centinaia di migliaia di militari abbandonati a se stessi e un numero altrettanto elevato di giovani chiamati alle armi dovettero fare scelte difficili. Salire sui monti per combattere contro le forze tedesche e i «repubblichini»? Presentarsi ai distretti per l’arruolamento nelle forze armate della Repubblica sociale? Nascondersi o addirittura, se le circostanze lo consentivano, sconfinare in Svizzera? Non è facile, caro Caramanti, sbrogliare una matassa in cui confluirono motivazioni molto diverse: passioni ideologiche, concetti opposti di onore e patriottismo, ma anche, più semplicemente, paura, odio, opportunismo, attendismo. Così sono, purtroppo, le guerre civili .