giovedì 23 aprile 2015

Corriere 23.4.15
Agire (anche da soli) e trovare soluzioni
di Massimo Nava


S arà bene non illudersi. Con la bella stagione e il mare calmo, i viaggi della disperazione faranno meno morti, ma moltiplicheranno gli sbarchi. E in attesa di decisioni al vertice europeo, non sono immaginabili a breve termine una stabilizzazione della Libia e un contenimento del conflitto in Siria, i due Paesi da cui proviene il maggior numero di profughi. Le stime dei prossimi arrivi sono spaventose. Al di là dello sciacallaggio politico e dei germi xenofobi che continuano a circolare, non c’è dubbio che — per rispetto delle vittime e di noi stessi, come esseri umani — sia prevalso nel comune sentire un atteggiamento di solidarietà e un impulso ad agire, a trovare contromisure persino militari, a sviluppare una rete di accoglienza il più possibile efficace.
Ma qui sta il punto. La gravità della situazione sollecita misure tecniche e normative urgenti e, al tempo stesso, impone di ragionare sulla dimensione del fenomeno e sulle effettive possibilità di metterle in pratica. L’Italia lamenta di essere lasciata sola e invoca l’intervento europeo, ma stigmatizzando la debolezza e l’inanità dell’Europa si dimentica che esistono trattati (Dublino) sottoscritti dai singoli Paesi e che il primo passo per un intervento europeo è il frutto della solidarietà e della coesione di governi e Stati.
È probabile che l’Italia, sul fronte dell’emergenza quotidiana, debba continuare a cavarsela da sola, contando sull’eroismo di militari e volontari e sul senso civico delle comunità direttamente coinvolte nel primo impatto. Di conseguenza, occorre studiare nuove iniziative di prima urgenza, un po’ come si fa al pronto soccorso dopo un grave incidente. Finora ci si è affidati ai centri di accoglienza ormai al collasso, allo smistamento di centinaia di migranti nelle regioni, all’improbabile idea di montare tendopoli in qualche comune. Ma così è impossibile procedere in modo capillare a controlli, filtri, esami di domande d’asilo. C’è il rischio che — dopo emozioni e solidarietà — riaffiorino ostilità, senso d’insicurezza dei cittadini, razzismo, appelli alla «ruspa».
L’emergenza dovrebbe suggerire soluzioni eccezionali. Ad esempio, fare affluire i migranti in una o più zone più facilmente gestibili e abbastanza capienti da ospitare non centinaia, ma migliaia di persone. Turchia, Giordania, Libano si sono organizzati così. Naturalmente con l’impegno solenne che i campi profughi siano provvisori.
Pensiamo ad esempio a un’isola come Pianos a, nell’arcipelago toscano. È un paradiso naturale, praticamente deserto, in cui non sono per fortuna previsti progetti di sviluppo turistico o urbanistico. Ci sono le strutture dell’ex carcere che consentirebbero di organizzare prima accoglienza, cucine, ospedale da campo, zone per bambini e partorienti. La vicinanza alla costa e il facile accesso potrebbero consentire di mettere in pratica le misure più urgenti: trasporto malati e feriti più gravi, identificazione di scafisti, trafficanti, criminali ed eventuali terroristi. Il clima allevierebbe sofferenze e bisogni. Va da sé che un’isola sarebbe facilmente sorvegliabile e porrebbe un argine al penoso calvario di profughi vaganti sul territorio nazionale nel tentativo, spesso vano, di raggiungere altri Paesi. Una dimensione più organizzata potrebbe anche favorire possibilità di lavorare sul posto, ricevere opportunità dal continente, organizzare rimpatri o destinazioni verso Paesi europei.
È un’idea di cui chi scrive si assume la responsabilità. Facile attendersi polemiche quando si immagina un’area di «concentrazione» di profughi. Ma l’emergenza impone anche uno sforzo di fantasia e il rischio della provocazione, se il fine è accogliere di più e meglio e di inventare qualche cosa contro il tempo, metereologico e del calendario. A Pianosa, le visite di turisti sono regolamentate. Gli attracchi proibiti. Nessun abitante protesterà. Dai tempi di Napoleone in esilio all’Elba, i soli residenti sono i guardiani. (Per inciso, alla Maddalena, abbiamo costruito strutture per un G8 mai avvenuto).