Corriere 13.4.15
Gli italiani e il giudizio sulle tasse: per quattro su cinque sono salite
di Nando Pagnoncelli
Gli atteggiamenti degli italiani nei confronti delle tasse e della spesa pubblica sono da sempre fortemente ambivalenti: vorrebbero pagare meno tasse e mantenere gratuiti i principali servizi pubblici. Tuttavia, posti di fronte alla scelta secca, la quota di coloro che preferirebbero pagare meno tasse anche a costo di pagare di più i principali servizi pubblici (50%) prevale su quella di coloro che preferirebbero avere servizi pubblici meno cari anche a costo di pagare più tasse (37%).
Non stupisce quindi che, a fronte di una sostanziale stabilità della pressione fiscale registrata dall’Istat nel 2014 (43,5% cioè 0,1% in più rispetto al 2013), quattro italiani su cinque ritengano che le tasse siano aumentate e solo il 18% che siano rimaste invariate. Uno su cento ritiene che siano diminuite. Una decina d’anni fa le due opinioni erano sostanzialmente equivalenti, a conferma del fatto che il fisco, dal conclamarsi della crisi economica in poi, rappresenta sempre di più un aspetto critico nella vita dei cittadini, molti dei quali sono stati chiamati a fare importanti sacrifici e giudicano eccessivo il carico fiscale. La percezione di aumento delle tasse prevale tra tutti gli elettorati, in misura più accentuata tra quelli dei partiti dell’opposizione, in particolare i leghisti (97%). E risulta particolarmente avvertita tra le persone meno istruite, gli operai, coloro che hanno un lavoro esecutivo e le casalinghe.
Come si spiega il notevole divario tra la stabilità registrata dall’Istat e la percezione di aumento largamente diffusa tra i cittadini? La materia fiscale è piuttosto complessa e non tutti hanno la capacità di approfondire il tema, di farsi un’opinione basandosi su dati reali. Ad esempio, la riduzione del 10% dell’Irap riguarda le aziende e non ha un impatto diretto sulla vita dei cittadini; il bonus mensile degli 80 euro indipendentemente da come venga considerato (una riduzione fiscale o un aumento della spesa) e dal considerevole numero di cittadini beneficiari, sembra aver determinato un «dividendo» elettorale alle elezioni europee ma non un «ritorno» in termini di opinione; e infine le tasse e le imposte sulla casa obbligano i cittadini a districarsi in un groviglio di sigle sempre diverse (dietro cui si paventano nuovi aumenti che compensano le eventuali riduzioni, lasciando la sgradevole sensazione di esser presi in giro), talora in situazioni di incertezza riguardo agli importi e alle scadenze.
Proprio per questo il fisco è un tema fortemente «cavalcato» politicamente. Si usano toni forti, nel tentativo di aumentare il consenso facendo leva sull’insoddisfazione dei cittadini rispetto alla propria situazione economica e all’esasperazione riguardo agli sprechi. Ci sono espressioni entrate nel gergo quotidiano, per esempio «mettere le mani nelle tasche dei cittadini», che accentuano l’immagine di un fisco rapace e fanno dimenticare il valore della fiscalità nel paese. Quando il ministro dell’economia Padoa-Schioppa disse provocatoriamente «Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili» si attirò critiche feroci .
Indubbiamente la percezione dell’inasprimento fiscale è da collegare anche all’aspettativa che il governo Renzi operasse una forte riduzione delle tasse: tre italiani su quattro (73%) si aspettavano interventi più consistenti rispetto a quelli adottati mentre uno su cinque (21%) è di parere opposto e ritiene che non fosse possibile fare di più tenuto conto della situazione dei nostri conti pubblici. Le aspettative più elevate si registrano tra gli elettori dei partiti di opposizione, tra i lavoratori autonomi, gli operati e i disoccupati.
Quali sono le voci di spesa che gli italiani taglierebbero prioritariamente a fronte di una riduzione della pressione fiscale? Volutamente nel sondaggio non abbiamo considerato i costi della politica, per evitare risposte prevedibili. Nella graduatoria prevale nettamente la richiesta di tagli nel pubblico impiego (51%) ed è una risposta che non sorprende affatto, tenuto conto dei giudizi negativi che investono i dipendenti pubblici, in larga misura considerati improduttivi. A seguire le spese per la difesa (31%), quindi sanità (16%), pensioni (15%), infrastrutture e trasporti (11%) e, più staccati, arte e cultura (8%), scuola (6%), ambiente (5%) e ricerca scientifica (4%). Ciascuno ha una sua personale ricetta riguardo ai tagli di spesa e il denominatore comune è rappresentato dalla tendenza a dare priorità alle voci che riguardano «gli altri»: nessuno si sente responsabile di sprechi e pochi accettano di essere penalizzati dai tagli dei servizi.
Insomma, inevitabilmente quando si tocca la spesa si scontenta qualcuno e piovono le accuse, anche in questo caso condite di toni forti («macelleria sociale»). Forse è per questo che il Def (Documento di Economia e Finanza) presentato dal governo non prevede aumenti di tasse e non prevede significativi tagli di spesa. Perché il Paese da sempre vuole la botte piena e la moglie ubriaca e nessuno intende rimetterci in termini di consenso.