Corriere 13.4.15
L’illusione di fermare il premier alle Regionali
di Massimo Franco
I l sogno proibito, e probabilmente velleitario del centrodestra è quello di vedere un Pd ammutinato contro Matteo Renzi sulla riforma elettorale; e sconfitto in almeno tre delle sette regioni nel voto di fine maggio. L’epilogo sarebbe quello di un premier costretto alle dimissioni, come Massimo D’Alema nel 2000. L’appiglio non sono solo le parole del vicesegretario Lorenzo Guerini, che ieri ha sottolineato che il voto di fine maggio avrà «anche una dimensione nazionale». Dopo le europee del 2014 che si conclusero con un risultato storico del Pd, al 40,8 per cento, i risultati delle elezioni di maggio vengono inquadrati dalle opposizioni come verifica di un anno di governo.
Eppure, gli avversari sono in condizioni peggiori. E, a differenza del 2000, non c’è in vista un’alternativa a Renzi, quanto piuttosto un vuoto caotico e litigioso. Gli smottamenti e le fratture di FI in Puglia e Veneto sono spie di un’implosione che nasce dal declino della leadership berlusconiana; e che si mescola col nuovo protagonismo della Lega. È vero, tuttavia, che nel Pd si avverte un filo di inquietudine per quanto potrà avvenire in Campania, col pasticcio della candidatura di Vincenzo De Luca, condannato in primo grado, che in caso di vittoria andrebbe sospeso dalle funzioni proprio dal premier; e nelle Marche dove l’ex governatore di centrosinistra, Gian Mario Spacca, ora si candida in una coalizione «civica» di centrodestra.
Palazzo Chigi punta sull’effetto traino che le misure economiche delle prossime settimane potranno produrre: il cosiddetto «tesoretto» da 1,6 miliardi di euro, annunciato con enfasi dal presidente del Consiglio pochi giorni fa. Ieri, l’Ue ha già dato un «placet» di fatto, limitandosi a chiedere all’Italia di rispettare i vincoli di spesa. Significa che Renzi potrà utilizzare quei soldi come seconda tappa degli 80 euro di bonus dello scorso anno: quelli che secondo i detrattori furono decisivi per portargli milioni di voti in più. Gli sono indispensabili per scommettere su una ripresa della quale, continua a ripetere il governo, si cominciano a vedere le prime tracce.
La sua partita immediata, però, riguarda l’approvazione della riforma del sistema elettorale, l’ Italicum , prima del voto regionale. Se ci riesce avrà un’arma controversa, ma formidabile, per minacciare elezioni anticipate e piegare una fronda determinata a rendergli la vita difficile in Parlamento. Gli avversari non smettono di additare i dati negativi sull’occupazione, confermati ieri da Ocse e Ue. Parlano del «tesoretto» come di una finzione. Bollano l ’Italicum come «pericoloso». E sperano nelle faide interne. «Ci sono cento deputati del Pd che non sono d’accordo», sostiene Renato Brunetta, capogruppo di FI. «Ne vedremo delle belle in quel partito».
La speranza è che la riforma non si faccia: epilogo improbabile. Il problema, inoltre,è quali conseguenze ci sarebbero per la legislatura e per la proiezione estera dell’Italia. Inserire una crisi politica in un quadro già tormentato sarebbe da irresponsabili. «Ritengo preoccupante quanto messo in luce dalle indagini Expo, Mose, mafia capitale, Ischia. È il consolidamento di un’area che coinvolge, insieme a mafiosi e criminali, politici, imprenditori, amministratori pubblici spesso locali». In queste parole del presidente del Senato, Pietro Grasso, c’è un ammonimento a non aggiungere fattori di instabilità ad una situazione già compromessa.