sabato 11 aprile 2015

Corriere 11.4.15
La Resistenza di chi c’era
Romanzi e memorie ci restituiscono il senso genuino di quella stagione
di Aldo Cazzullo


Beppe Fenoglio racconta che i partigiani fucilavano i prigionieri fascisti. Italo Calvino aveva ben presente quanto fosse labile il confine tra i due schieramenti in lotta, visto che fa dire a un suo personaggio, il partigiano Kim: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte». E Cesare Pavese, commosso di fronte ai cadaveri in camicia nera, conclude che «ogni guerra è una guerra civile». Non occorreva attendere le discussioni storiografiche e le polemiche politiche che ogni 25 aprile riaccende, per avere tutti gli strumenti per capire e giudicare quel che è accaduto settant’anni fa, in questi stessi giorni. La letteratura — più o meno grande, datata o attualissima, di valore documentale o universale — consentiva già poco tempo dopo la Liberazione di conoscere le pagine nere della Resistenza, di provare pietà per tutti i caduti di entrambe le parti, e di avere ben chiaro quale fosse la parte giusta e quale la parte sbagliata.
Non sempre gli uomini sono all’altezza degli scrittori. Cesare Pavese era stato arrestato e condannato al confino dal fascismo (nel frattempo la sua donna l’aveva lasciato per un altro; quando tornò a Torino, i suoi amici non riuscivano a mettersi d’accordo su chi dovesse dirglielo; si offrì Norberto Bobbio e andò a prenderlo alla stazione. Pavese rimase ubriaco per giorni). Eppure negli anni di guerra tenne un diario (rivelato nel 1990 da Lorenzo Mondo, allora vicedirettore della Stampa) pieno di ammirazione per le vittorie tedesche, in cui si annotava con rammarico che noi italiani «non sappiamo essere atroci». E alla guerra di Liberazione preferirà il nascondiglio nella «casa in collina».
Calvino invece entra a vent’anni nella divisione Garibaldi intitolata a Felice Cascione, «U Megu», il Medico in dialetto ligure, il capo partigiano autore di Fischia il vento , caduto in battaglia per salvare i compagni. Calvino sceglie di chiamarsi come la città cubana in cui è nato, Santiago. Scriverà: «Non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è ora leggendario, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s’arruolarono sotto la tua bandiera». Tra loro ci fu anche il fratello di Italo, Floriano Calvino, che aveva solo 17 anni.
Anche Fenoglio è partigiano sulle sue colline, le Langhe. Fu lui, il figlio del macellaio di Alba, a scrivere forse le pagine migliori della nostra letteratura sulla Resistenza. Pagine che hanno a volte la forza dell’epica: «E nel momento in cui partì, si sentì investito, in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante era la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. E anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra». Ma anche pagine cariche di autoironia, in cui la lotta di Liberazione viene demitizzata, come questa: «Venivamo ciarlando, proprio da incoscienti, e sulla collina dirimpetto sbuca brigata nera, tanta, spingendosi avanti due buoi e due dei nostri tutti insanguinati. Il primo che ci ha visti s’avventa spallando il fucile e urlando arrendetevi, banditi. Io gli ho fatto la prima pernacchia della mia vita. E m’è riuscita bene, come ci riuscì bene la conseguente corsetta».
Perché ripubblicare oggi la letteratura nata da una guerra che non si deve esitare a definire «civile» (anche se i combattenti non possono essere messi sullo stesso piano)? Intanto, perché i giovani molto spesso non la conoscono. Né la letteratura, né la storia. Sono cresciuti in un clima in cui gli uomini e le donne della Resistenza — che è un fenomeno molto più vasto del partigianato — venivano presentati come carnefici sanguinari, e i «ragazzi di Salò» come fragili vittime. I nostri giovani hanno forse sentito qualcosa delle pagine nere della Resistenza, che pure ci furono e vanno raccontate; ma sanno poco o nulla di quanto è accaduto a Boves, all’Hotel Meina sul Lago Maggiore, a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto, alla Benedicta, a Gubbio, a Civitella Val di Chiana; sanno poco o nulla dei massacri nazifascisti. Non conoscono il destino terribile cui andarono incontro i torturati, gli ebrei, i perseguitati, gli internati in Germania, i sacerdoti, i carabinieri (su tonache e divise i nazifascisti si accanirono in modo particolare).
Ripubblicare e rileggere (o leggere per la prima volta) i classici della letteratura nata della Resistenza ha senso anche perché i testimoni diretti se ne stanno andando, uno a uno. Migliaia di partigiani sono morti sul campo. Quasi tutti non ci sono più. Anche la memoria dei tanti — appunto militari, donne, preti, ebrei, suore, bersaglieri, alpini, internati in Germania — che nelle varie forme dissero no al nazifascismo comincia a vacillare. È una memoria preziosa, che va salvata e tramandata alle nuove generazioni, perché conoscano il prezzo di sangue pagato per la loro libertà. Alcune opere sono frutto di fantasia. Altre sono la narrazione di fatti veramente accaduti. Altre ancora sono in bilico tra la ricostruzione storica e la creazione artistica. Nessuna va presa come verità assoluta, come dogma ideologico, come manifesto in cui ognuno si possa automaticamente riconoscere, cui debba pedissequamente aderire. Tutte vanno lette e conservate perché raccontano una storia che ci riguarda tutti: sia coloro che l’hanno fatta, sia coloro che stavano dall’altra parte (e spesso credettero in buona fede di servire l’Italia), sia coloro che non c’erano, per motivi anagrafici o per scelta.
Un ruolo particolare è quello delle donne, protagoniste della Resistenza, e delle scrittrici, che l’hanno raccontata. Accanto ai classici, come La storia di Elsa Morante e L’Agnese va a morire di Renata Viganò, la collana propone anche un libro meno noto, il diario di Ada Gobetti, la vedova di Piero. È una serie di ritratti di personaggi della lotta di Liberazione. Ma è anche una riflessione profonda sui rischi che attendevano l’Italia, sul pericolo di non essere all’altezza dell’energia e della speranza di quei mesi terribili e grandiosi.
Quel che scrive Ada Gobetti settant’anni fa, la notte dopo la liberazione di Torino — una notte in cui lei non riuscì a dormire — è ancora valido per noi, oggi: «Si trattava di non lasciar che si spegnesse nell’aria morta d’una normalità solo apparentemente riconquistata, quella piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna che avevamo visto nascere il 10 settembre e che per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati. Sapevo che — anche caduta, con l’esaltazione della vittoria, la meravigliosa identità che in quei giorni aveva unito quasi tutto il nostro popolo — saremmo stati in molti a combattere questa dura battaglia: gli amici, i compagni di ieri, sarebbero stati anche quelli di domani. Ma sapevo anche che la lotta non sarebbe stata un unico sforzo, non avrebbe avuto più, come prima, un suo unico immutabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi; e ognuno avrebbe dovuto faticosamente, tormentosamente, attraverso diverse esperienze, assolvendo compiti diversi, umili o importanti perseguir la propria luce e la propria via. Tutto questo mi faceva paura. E a lungo, in quella notte — che avrebbe dovuto essere di distensione e di riposo — mi tormentai, chiedendomi se avrei saputo esser degna di questo avvenire, ricco di difficoltà e di promesse, che mi accingevo ad affrontare con trepidante umiltà» .