La Stampa 11.3.15
“Freud è un po’ invecchiato ma la sua cura aiuta ancora”
Secondo lo psichiatra Maurilio Orbecchi “l’analisi è morta”
Gli risponde Antonio Ferro, presidente della Società psicoanalitica
di Egle Santolini
Ogni tanto, ogni poco, ad Antonino Ferro tocca il compito di replicare a chi dà per spacciata la psicoanalisi. In Italia è probabilmente il meglio accreditato a farlo, come presidente della Società Psicoanalitica Italiana, considerata la freudianamente più ortodossa. Eppure, come scoprirete tra poco, le classificazioni troppo rigide non servono a una comprensione del tema.
Ferro, ci risiamo. Nella sua Biologia dell’Anima, e in un’intervista a La Stampa di ieri, Maurilio Orbecchi mette una croce sopra alla cura freudiana.
«Mi verrebbe da dire che dev’essere ben viva e che deve continuare a dare un gran fastidio, la psicoanalisi, se in tanti si ostinano a voler vederla morta. Invece è in ottima salute, serve e continua a far star meglio le persone: il che è l’elemento decisivo. Le pare che continuerei a esercitarla se non funzionasse? Il problema, semmai, mi sembra un altro. E cioè: di quale psicoanalisi stiamo parlando?»
Di quella, immagino, nata a Vienna un centinaio di anni fa.
«Appunto. Che Freud ci ha lasciato come un organismo vivo, in continua evoluzione, e che nel giro di un secolo ha saputo adattarsi ai cambiamenti. Secondo lei avrebbe senso che un infettivologo del 2015 si dicesse pasteuriano? È la medesima cosa. Il rito classico, come uno se l’immagina, sopravvive soltanto in certe roccaforti lefreviane. Pensi per esempio allo stereotipo dell’analista neutro, che resta muto per decine di sedute».
Quello da barzelletta, da vignetta del New Yorker.
«Appunto. Una figura che non esiste più, se si escludono quelle famose enclave tradizionaliste. L’analisi è fondamentalmente la storia di una relazione, di un lavoro a due in cui si costruisce e si narra insieme. Ed è la relazione a guarire».
Ma non è sempre stato così?
«In teoria. Però agli albori della disciplina quello che prevaleva era una forte asimmetria fra paziente e terapeuta, con un’accentuazione dell’aspetto interpretativo e l’analista un po’ in veste sacerdotale. L’inconscio era considerato come un’isola inespugnabile, una specie di Alcatraz. E il sogno come un apriscatole».
Questa deve spiegarcela meglio.
«Ha presente quegli apriscatole antiquati, con cui facevi un buco nella lattina finendo sempre per tagliarti? Ecco: il sogno, “la via regia all’inconscio”, secondo la vecchia definizione, veniva usato un po’ in questo modo. Oggi si è capito che il male, la sofferenza, vengono da ciò che nei sogni non è nemmeno contemplato: elementi non espressi, non pensati, non elaborati».
Non la usate più l’interpretazione dei sogni?
«Può capitare. Succede che qualche volta un sogno lo si ri-narri assieme, lo si dipani come un racconto, lavorandoci insieme. Ma abbiamo tanti altri strumenti a disposizione, e lo scopo non è tanto quello di “interpretare”, quanto quello di instaurare un assetto affettivo con il paziente, di mantenersi sulla sua lunghezza d’onda. Quello che cura è l’aspetto emotivo della faccenda: in psicoanalisi, conta più la pancia della testa».
Il che tra l’altro leva alla terapia viennese quell’aura punitiva, da rigido collegio mitteleuropeo, che ogni tanto ancora la circonda. A proposito di vecchio armamentario, Orbecchi è particolarmente tranchant con il complesso di Edipo. Che, secondo lui, non esiste…
«Si tenga forte: quando sono con un paziente, penso a quello che mi sta dicendo e non a Edipo».
…e rifiuta il concetto di pulsione di morte, sostenendo che non ve n’è traccia nei primati non umani.
«Si tenga ancora più forte: nella mia esperienza professionale, non ho mai avuto il piacere di essere presentato alla pulsione di morte. So che molti miei colleghi ci lavorano a fondo, ma non è il mio caso. Crede che per questo sia passibile di espulsione dalla Spi? ».
Un caso interessante, visto che ne è, ancora per due anni, il presidente.
«Forse con quell’espressione si intende un insieme di sofferenze non trasformate, non elaborate, che sono appunto ciò che fa soffrire il paziente e con cui, quelle sì, facciamo i conti tutti i giorni. Ma non sono le vecchie formule ad aiutare a guarire».
Veniamo a un altro argomento di Orbecchi, il più deciso. La nemesi della psicoanalisi arriverebbe dalle neuroscienze, che fornirebbero tutte le spiegazioni sfuggite a Freud e ai suoi eredi.
«Considero le neuroscienze come universi meravigliosi, e tenga conto che io nasco come neurochimico. Resta il fatto che tra le neuroscienze e la sofferenza delle persone si apre una distanza siderale. Quello che può aiutare, piuttosto, è la neuropsicofarmacologia. Soprattutto da quando la psicoanalisi si occupa di patologie particolarmente severe: è frequente che, in una prima fase, ci si affidi a due terapeuti diversi, uno che cura con le parole e l’altro con i farmaci, fino a quando il paziente non sia in grado di fare a meno delle medicine. Gliel’ho detto: è un mondo che progredisce ogni giorno. Non confondiamo un vecchio carretto con un’astronave».
La Stampa 11.3.15
Pillola dei 5 giorni dopo
L’Italia contro l’Europa: servirà la ricetta medica
Il parere del Consiglio Superiore della Sanità spiazza tutti
di Flavia Amabile
L’Italia prende le distanze dall’Europa su quella che tutti chiamano «pillola dei 5 giorni dopo». Nessuna libertà di vendita, ci sarà ancora bisogno della prescrizione di un medico. Lo ha deciso il Consiglio superiore di Sanità stabilendo che «il farmaco EllaOne debba essere venduto in regime di prescrizione medica indipendentemente dall’età della richiedente». Come spiega il ministero della Salute, si vogliono «evitare gravi effetti collaterali nel caso di assunzioni ripetute in assenza di controllo medico».
Prudenza, insomma, stando a quanto sostiene il ministero. In gioco, infatti, c’è un farmaco da anni al centro di polemiche. La pillola EllaOne, pur agendo con un meccanismo simile alla pillola del giorno dopo, può essere assunta fino a 5 giorni dopo il rapporto a rischio. In base agli studi più recenti pubblicati non perde di efficacia per tutto il tempo in cui può essere somministrata. In Italia è considerato un farmaco inserito tra quelli di fascia C, con ricetta ma a carico dell’utente.
Ma nell’Ue c’è il via libera
In realtà a questo punto la situazione si complica e non mancheranno conseguenze. L’azienda chiede chiarezza su come procedere e annuncia difficoltà nella futura vendita. L’Unione Europea, infatti, ha dato il via libera pieno alla vendita senza alcun tipo di obbligo. A novembre è arrivato il sì dell’Agenzia del farmaco europea (Ema), a gennaio si è espressa la Commissione Europea con un parere totalmente in linea con l’Ema, nessuna ricetta medica perché la pillola sia disponibile in farmacia. La decisione dovrebbe essere applicabile a tutti gli Stati membri, ma in accordo alle procedure nazionali.
E la procedura nazionale italiana sembra avviarsi in senso totalmente opposto rispetto alla normativa europea. L’ultima decisione spetta all’Aifa. «Può ancora renderci un Paese europeo» è l’appello rivolto all’Agenzia italiana del farmaco da Alberto Aiuto, amministratore delegato della Hra Pharma, l’azienda che produce la pillola. Aiuto ha sottolineato che il parere del Css non è vincolante e che quindi l’Aifa può decidere «in autonomia che cosa fare». In realtà l’agenzia nella maggior parte dei casi si adegua al parere del Consiglio. In questo caso sarebbero possibili anche problemi tecnici nella vendita della pillola dei cinque giorni dopo in Italia.
Problemi con il bugiardino
«L’Aifa - ricorda Aiuto - dovrà farci sapere come agire dato che gli Stati non possono mettere in commercio farmaci con scatola e foglietto interno difformi da quelli approvati a livello europeo. Tecnicamente una scatola e un foglietto in cui si dice che c’è obbligo di ricetta non possiamo venderli. Dovranno dirmi che cosa fare». «A due giorni dall’8 marzo per le donne italiane è in arrivo un pessimo regalo - avverte Laura Garavini dell’Ufficio di Presidenza del gruppo Pd della Camera - Solo pochi giorni fa il Parlamento tedesco ha approvato una legge nata da un’iniziativa legislativa del governo che permette la vendita di EllaOne senza prescrizione medica. Ci auguriamo perciò che il ministro Lorenzin decida guardando all’Europa e con l’obiettivo di dare più diritti e libertà alle donne italiane».
Quando i giornali venivano stampati, stanotte, la sentenza della Cassazione che ha definitivamente assolto Berlusconi non era ancora stata pronunciata.
Adesso Renzi potrà tranquillamente tornare appena lo riterrà opportuno al più soddisfacente “boccaabocca” con il padrone di Arcore!
il Fatto 11.3.15
Passa a Montecitorio la seconda lettura della riforma del Senato
Il governo ora confida nell’asse Romani-Verdini a Palazzo Madama
di Wanda Marra
Le minacce della minoranza sul futuro? Troveremo appoggio nell’opposizione”. Così parla un alto dirigente democratico, mentre scarica la tensione. Il voto sulle riforme costituzionali alla Camera è appena finito. 357 voti a favore, 125 contrari e 7 astenuti. FI dice no, ma solo per “solidarietà umana” nei confronti di Berlusconi in attesa della sentenza Ruby. La minoranza del Pd dice sì a malincuore, ma avverte che adesso arriva la madre di tutte le battaglie, quella sulla legge elettorale. Ma Renzi e i suoi vanno avanti come treni. “No a diktat da chi ha perso il congresso”, dice il ministro delle Riforme, Boschi. Liquidata la minoranza. Cortesia per i berluscones: “I numeri al Senato ci sono anche senza Forza Italia. Però io sono convinta che una parte di loro voterà le riforme”.
RENZI si organizza. “Puntiamo sull’asse Verdini-Romani”, dicono i suoi. Il patto di ferro con lo sherpa del Nazareno è da mesi sotto gli occhi di tutti. E Romani, capogruppo di FI in Senato, ieri tanto per chiarire ha già dichiarato che le riforme non si devono fermare. Le parole del vicesegretario Guerini nell’ intervento in Aula sono per gli azzurri: “Abbiamo cercato il confronto con tutti, anche con una forza che ha cambiato idea senza farci capire fino in fondo i motivi”. Infine, c’è il fattore rinvio: “Prima dell’Italicum, prima delle riforme in Senato passerà un sacco di tempo”, dice un renzianissimo. Alla faccia dei canguri di Palazzo Madama e delle sedute fiume di Montecitorio. Se ne parla dopo le Regionali, che dovrebbero essere il 31 maggio. In piena campagna elettorale, meglio evitare. FI adesso deve correre con la Lega, poi sarà più libera. E i dem potrebbero trovarsi davanti all’ennesimo risultato stupefacente per Renzi. O almeno, questo spera lui.
Il voto di ieri avviene in un clima tanto sfilacciato, persino nella stessa maggioranza renziana, quanto carico di nervosismo. L’entusiasmo per la grande riforma di certo non si avverte. Ma è il metodo Matteo. Non ammette stop, ripensamenti, confronti troppo serrati. L’importante è farle le cose. E non fa niente se molti, non solo tra gli oppositori, considerano un “mostro” il Senato che verrà. A Montecitorio, di toccare l’articolo 2, quello appunto che ne stabilisce la composizione, non c’è stato verso. E adesso diventa immodificabile. Renzi ha intenzione di far votare il testo come licenziato ieri: già così le letture saranno 5, invece di 4, visto che qualcosa Montecitorio ha toccato. Niente ritocchi neanche all’Italicum.
Lui, il premier, intanto, ieri comincia a twittare di buon mattino. Parla di economia. Lo stravolgimento della Costituzione è già quasi acqua passata. E il paese è in ripresa: guai a chi osa fermarlo. “Bene il giudizio sulla stabilità. Il lavoro che abbiamo fatto in un anno in Europa è impressionante”.
STAVOLTA in aula, Renzi non ci va. Aveva fatto un blitz, durante una delle notti della seduta fiume. Si era seduto tra i banchi dei deputati. Tutto selfie, scherzi e minacce (“se dite no, si va a elezioni” ). Uno show che aveva irritato un po’ tutti, allo scopo evidente di chiarire “si fa come dico io”. Ieri non ne aveva bisogno. E così tra i banchi del governo a rappresentarlo ci sono Graziano Delrio e soprattutto Maria Elena Boschi. Al ministro delle Riforme vanno complimenti e strette di mano. Lui si fa sentire subito dopo, a forza di Tweet: “ “Voto riforme ok alla Camera. Un Paese più semplice e più giusto. Brava @meb, bravo @emanuelefiano, bravi tutti i deputati magg #lavoltabuona”.
Complimenti alla Boschi e a Fiano, relatore di maggioranza alla Camera. Sulla stessa linea il Tweet del ministro delle Riforme: “Abbiamo fatto un passo in avanti. Ora abbiamo tanti argomenti da affrontare, a cominciare da scuola, fisco e Pubblica amministrazione”. Come dire: non c’è tempo per prendere in considerazione il dissenso. Renzi domani ha in programma un Cdm su scuola e Rai. Poi Milano, sui cantieri dell’Expo. Altro giro, altra corsa.
“Domani, mi dici sempre che vivrai domani, Postumo. Ma dimmi, questo domani, quando arriva? Dov’è questo domani? È lontano? Dove si trova?”
Marziale, Epigrammi
il Fatto 11.3.15
Gli oppositori di domani dicono ancora “Sì”
I democratici promettono grande battaglia, ma dalla prossima volta
I forzisti vorrebbero votare le loro “riforme”, ma poi non lo fanno
di Fabrizio d’Esposito
“Domani, mi dici sempre che vivrai domani, Postumo. Ma dimmi, questo domani, quando arriva? Dov’è questo domani? È lontano? Dove si trova? ”
Marziale, Epigrammi
Il mio no è più forte del tuo no. Il mio sì non è uguale al tuo sì. Il solito marziano di Ennio Flaiano atterrato ieri a Montecitorio avrebbe riso a crepapelle della folle farsa consumata sulla legge più alta e nobile della nostra Repubblica, la Costituzione. Cinquanta sfumature di sì e di no, tra Pd e Forza Italia. Su un divanetto, nella galleria dei fumatori, il centrista casiniano Ferdinando Adornato se la ride come il marziano di Flaiano: “Ormai siamo al dissenso futuro anteriore”. È come nell’epigramma di Marziale dedicato a Postumo: “Mi dici sempre che vivrai domani, Postumo”.
IL PRIMO POSTUMO bersaniano che si alza in piedi è Alfredo D’Attorre, che per l’occasione ha sistemato il ciuffo della sua chioma gramsciana. Il Postumo bersaniano è di un’assertività gelida, non ammette repliche, al punto che in dodici righe di resoconto parlamentare la parola responsabilità compare venti volte, un record: “Voglio anch’io illustrare le ragioni per le quali oggi esprimerò un voto favorevole che è legato alla responsabilità che avverto di non interrompere il processo riformatore. Se questa posizione sarà riconfermata nelle prossime settimane, a partire dal passaggio della legge elettorale qui alla Camera, io non mi sentirò di assicurare più il mio sostegno e la mia condivisione a questo percorso di riforma”. Una volta era: non si interrompe un’emozione. Adesso è: non si interrompe un processo riformatore.
Ecco. Ecco allora il punto dove l’asino precipita, non casca, e il comune mortale, non solo il marziano, impazzisce. D’Attorre, antirenziano forgiato con l’acciaio sovietico, annuncia che voterà contro, ma solo la prossima volta. Non ora, non qui. La stessa cosa Rosy Bindi, che bersaniana non è, è Rosy Bindi e basta, e fa anche lei la parte della Postuma, prima dell’intervento di D’Attorre: “Io oggi dimostrerò con il mio voto favorevole che non intendo fermare il processo riformatore ma, se il governo resterà fedele alle parole del presidente del Consiglio e non verrà modificata la legge elettorale né verranno apportati miglioramenti a questo testo, nelle votazioni successive io non voterò a favore”. Le comiche della sinistra dem sono più o meno tutte di questo tenore e sono sublimate nella parte finale di un documento di 24 deputati: “Nel caso in cui il governo rifiutasse di riaprire il confronto sulle ipotesi di miglioramento avanzate da più parti su riforme e Italicum, ciascuno si assumerà le proprie responsabilità. Da parte nostra ci riserviamo fin d’ora la nostra autonomia di giudizio e di azione”. È una storia che parte dalla scorsa estate, quando le riforme sono approdate al Senato. Già allora gli scaltrissimi bersaniani andavano rassicurando cronisti e colleghi: “State tranquilli, adesso la prima lettura passa ma la nostra battaglia è sull’Italicum”. E così di volta in volta. “L’Italicum passa? Nessun problema, vedrete quelle che combineremo sulle riforme alla Camera”.
DINANZI A QUESTA farsa, Pippo Civati (che non ha partecipato al voto insieme a Boccia, Fassina) non ce l’ha fatta più e sul suo blog ha ratificato filosoficamente: “La cosiddetta minoranza non fa altro che alzare palloni alla maggioranza e al premier che li schiaccia (i palloni e non solo). La battaglia da affrontare è sempre la prossima: così è stato sul Jobs Act, così nei vari passaggi delle riforme. Così sarà sull’Italicum, ma poi magari si vota a favore anche su quello”. Civati svela anche il bluff di minacciare la “prossima volta”: questa riforma, allo stato, non è più modificabile. Quindi, di che cosa stiamo parlando?
Sostituite il sì alle riforme con il no e avrete le stesse scene, solo un po’ più movimentate, nel campo berlusconiano. I verdiniani di Denis Verdini, lo sherpa forzista del patto del Nazareno, avevano promesso l’Apocalisse. Invece l’ex Cavaliere ha convinto “Denis”, durante una telefonata, con la mozione degli affetti e i nazareni verdiniani hanno votato no partorendo però un documento con 17 firme contro Berlusconi e anche Brunetta, il capogruppo. A quel punto i ribelli di Raffaele Fitto hanno sentito il bisogno impellente di differenziare il loro no da quello dei verdiniani. Ecco Daniele Capezzone: “Il no di tanti di noi non nasce oggi, non nasce nelle ultime ore”. Ed ecco uno strepitoso Maurizio Bianconi, che è ingiusto ridurre a semplice fittiano: “Il no del gruppo non è il mio no ed è un no, quello del gruppo, che sarà forse transitorio e strumentale”. Per la cronaca, a beneficio di marziani e comuni mortali. Nel Pd nessuno ha votato contro. In Forza Italia, un solo sì, quello di Gianfranco Rotondi. E questo è tutto.
il Fatto 11.3.15
Sinistrati
Minoranza Pd, gente senza dignità
Obbedite sempre e comunque al capo di turno
di Maurizio Viroli
Persone senza dignità, senza intelligenza politica, senza senso di responsabilità repubblicana: questa è la minoranza del Pd (della maggioranza non merita neppure discorrere). Senza dignità perché dignità impone coerenza fra pensiero e azione, e dunque se avete dichiarato, come avete dichiarato, (vero Bersani?) che la riforma renziana della Costituzione, accompagnata dalla nuova legge elettorale rompe l’equilibrio democratico e poi votate l’una e l’altra siete persone indegne. Non sono affatto sorpreso del loro comportamento. Bersani e gli altri vengono dal Pci, che tutto era fuorché una scuola di schiene dritte (nobili eccezioni a parte). Li hanno abituati ad obbedire al segretario perché il segretario è il segretario. Sono ancora così. Non avrei mai immaginato di dover giungere ad una conclusione siffatta, ma devo riconoscere che se in Italia avessero vinto i comunisti avremmo avuto un regime autoritario per la semplice ragione che i “bersani” sono servi della peggior specie, quelli che obbediscono al capo di turno perché è il capo. Senza intelligenza politica: perché non capiscono che oggi già non contano nulla e domani, a riforma approvata, conteranno ancora meno. Renzi non riconoscerà loro alcunché. Vuole servi docili, non servi che si permettono qualche mugugno . Si sente onnipotente perché sa che vincerebbe le elezioni e dunque ritiene che gli sia dovuta obbedienza assoluta. Diventato padrone delle liste elettorali, li butterà fuori e nessuno dirà una parola in loro difesa perché non lo meritano. A onor del vero un riconoscimento lo meritano. I Bersani, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino e i loro corrispettivi locali una grande opera politica l’hanno realizzata, quella di distruggere la tradizione del socialismo in Italia. Non c’era riuscito il fascismo, non c’era riuscita la Cia, non c’era riuscita la Dc, ce l’hanno fatta loro con le loro fredde intelligenze, capaci di minuziosi calcoli senza mai l’ombra di un principio, di un’idea nobile, di una visione politica. Congratulazioni vivissime. Senza responsabilità repubblicana: capisco che il concetto di responsabilità repubblicana risulti ostico per chi è passato dalle Frattocchie ai talk show. Ma provo a spiegarlo. Responsabilità repubblicana vuol dire che voi avete soltanto un dovere, quello di servire la nazione, cioè la forma repubblicana descritta dalla Costituzione. Ogni altra considerazione è del tutto irrilevante. Se dunque con il vostro voto devastate, per vostra stessa ammissione, la forma repubblicana, venite meno al vostro primo dovere. Le vostre parole sulla lealtà di partito, o addirittura alla “ditta” fanno soltanto pena e ribrezzo.
il Fatto 11.3.15
In attesa del referendum ecco il Ddl Boschi
ADDIO AL BICAMERALISMO perfetto e largo a un senato di nominati (con indennità). In più, corsia preferenziale per i disegni di legge del governo. Sono i punti principali della riforma costituzionale approvata ieri in prima lettura dalla Camera, che ora dovrà tornare in Senato per la votazione che chiuderà il primo passaggio. In base all’articolo 138 della Carta, la riforma va votata in doppia lettura dalle due Camere, e nella seconda votazione dovrà essere approvata con la maggioranza assoluta (maggioranza dei componenti). Alla fine dei passaggi parlamentari si terrà un referendum. I cittadini potrebbero esprimersi su un ddl che abolisce il bicameralismo perfetto. Non più due rami del Parlamento con eguali poteri, ma una Camera “forte” che potrà approvare da sola gran parte delle leggi. Il Senato diventa un organo per lo più consultivo, con “funzione di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica". Soprattutto, diventa un ente ad elezione indiretta, ovvero composto da 100 senatori (prima erano 315): 95 scelti tra consiglieri regionali e sindaci, votati dai Consigli regionali, a cui questi si aggiungono i 5 senatori nominati dal Capo dello Stato, in carica per 7 anni, ed eventualmente gli ex presidenti della Repubblica. I membri del nuovo Senato non percepiscono indennità parlamentari, ma godono dell’immunità. Palazzo Madama può chiedere di esaminare i ddl approvati dalla Camera, e suggerire modifiche, ma il via libera definitivo lo darà comunque Montecitorio. Rimangono alcune materie per cui è obbligatorio il sì delle due Camere: le riforme e le leggi costituzionali, le leggi elettorali del Parlamento e degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali e le leggi sui referendum popolari. Previsto il voto a data certa, grazie a cui il governo può chiedere un ddl essenziale per l’attuazione del programma venga approvato entro 70 giorni dalla delibera della Camera. Cambiano i quorum. Quello per l’elezione del Capo dello Stato, dopo il quarto scrutinio, prevede la maggioranza dei tre quinti dei parlamentari (prima bastava la maggioranza assoluta) e quella dei tre quinti dei votanti dopo il settimo. Referendum abrogativo: se a chiederlo sono 800 mila cittadini, può passare con la maggioranza dei votanti alle ultime Politiche (e non più degli aventi diritto al voto).
il Fatto 11.3.15
A verbale
Ecco i 357 che distruggono la Costituzione
Alle 12:33 di ieri, l’aula di Montecitorio ha approvato il ddl costituzionale sulla riforma del Senato. Al momento della votazione erano presenti in 489. Hanno votato in 482: 347 hanno detto “sì”, 125 “no”, 7 si sono astenuti. Di seguito i nomi di chi ha voluto modificare la Costituzione.
AP (NCD/UDC) Ferdinando Adornato, Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Dorina Bianchi, Paola Binetti, Antonino Bosci, Raffaele Calabrò, Luigi Casero, Giuseppe Castiglione, Andrea Causin, Angelo Cera, Fabrizio Cicchitto, Enrico Costa, Giampiero D’Alia, Nunzia De Girolamo, Vincenzo Garofalo, Beatrice Lorenzin, Maurizio Lupi, Antonino Minardo, Dore Misuraca, Alessandro Pagano, Vincenzo Piso, Sergio Pizzolante, Eugenia Roccella, Gianfranco Sammarco, Rosanna Scopelliti, Paolo Tancredi, Raffaello Vignali.
FI Gianfranco Rotondi
GRUPPO MISTO Aniello Formisano, Edoardo Nesi, Renata Bue-no, Daniel Alfreider, Renate Gebbhard, Mauro Ottobre, Albrecht Plangger, Manfred Schullian, Marco Di Lello, Oreste Pastorelli.
PD Luciano Agostini, Roberta Agostini, Luisella Albanella, Tea Albini, Maria Amato, Vincenzo Amendola, Sesa Amici, Sofia Amoddio, Maria Antezza, Michele Anzaldi, Ileana Argentin, Tiziano Arlotti, Anna Ascani, Pier Paolo Baretta, Cristina Bargero, Davide Baruffi, Lorenzo Basso, Alfredo Bazoli, Teresa Bellanova, Gianluca Benamati, Paolo Beni, Marco Bergonzi, Marina Berlinghieri , Giuseppe Berretta, Pier Luigi Bersani, Stella Bianchi, Rosy Bindi, Caterina Bini, Franca Biondelli, Tamara Blazina, Luigi Bob-ba, Sergio Boccadutri, Gianpiero Bocci, Antonio Boccuzzi, Paola Boldrini, Paolo Bolognesi, Lorenza Bonaccorsi, Fulvio Bonavitacola, Francesco Bonifazi, Francesca Bonomo, Michele Bordo, Enrico Borghi, Ilaria Borletti Dell’Acqua, Maria Elena Boschi, Luisa Bossa, Chiara Braga, Giorgio Brandolin, Alessandro Bratti, Gianclaudio Bressa, Vincenza Bruno Bossio, Giovanni Mario Salvino Burtone, Vanessa Camani, Micaela Campana, Emanuele Cani, Salvatore Capone, Sabrina Capozzolo, Ernesto Carbone, Daniela Cardinale, Renzo Carella, Anna Maria Carloni, Elena Carnevali, Mara Carocci, Marco Carra, Pier Giorgio Carrescia, Floriana Casellato, Franco Cassano, Antonio Castricone, Marco Causi, Susanna Cenni, Bruno Censore, Khalid Chauki, Eleonora Cimbro, Laura Coccia, Matteo Colaninno, Miriam Cominelli, Paolo Coppola, Maria Coscia, Paolo Cova, Stefania Covello, Filippo Crimì, Diego Crivellari, Magda Culotta, Gianni Cuperlo, Luigi Dallai, Gian Pietro Dal Moro, Cesare Damiano, Vincenzo D’Arienzo, Alfredo D’Attorre, Umberto Del Basso De Caro, Carlo Dell’Aringa, Andrea De Maria, Rogeder De Menech, Marco Di Maio, Vittoria D’Incecco, Titti Di Salvo, Marco Di Stefano, Marco Donati, Umberto D’Ottavio, Guglielmo Epifani, David Ermini, Marilena Fabbri, Luigi Famiglietti, Edoardo Fanucci, Davide Faraone, Gianni Farina, Marco Fedi, Donatella Ferranti, Alan Ferrari, Andrea Ferro, Emanuele Fiano, Massimo Fiorio, Giuseppe Fioroni, Cinzia Maria Fontana, Paolo Fontanelli, Filippo Fossati, Gian Mario Fragomeni, Dario Franceschini, Silvia Fregolent, Gianluca Fusilli, Maria Chiara Gadda, Giampaolo Galli, Guidi Galperti, Paolo Gandolfi, Laura Garavini, Francesco Saverio Garofani, Daniela Matilde Gasparini, Federico Gelli, Manuela Ghizzoni, Roberto Giachetti, Anna Giacobbe, Antonello Giacomelli, Federico Ginato, Dario Ginefra, Tommaso Ginobile, Andrea Giorgis, Gregorio Gitti, Fabrizia Giuliani, Giampiero Giulietti, Marialuisa Gnecchi, Sandro Gozi, Gero Grassi, Maria Gaetana Greco, Monica Gregori, Chiara Grimaudo, Giuseppe Guerini, Lorenzo Guerini, Mauro Guerra, Maria Tindara Gullo, Itzhak Yoram Gutgeld, Maria Iacono, Tino Iannuzzi, Leonardo Impegno, Antonella Incerti, Wanna Iori, Luigi Lacquaniti, Francesco La Forgia, Francesca La Marca, Enzo Lattuca, Giuseppe Lauricella, Fabio Lavagno, Donata Lenzi, Enrico Letta, Danilo Leva, Emanuele Lodolini, Alberto Losacco, Luca Lotti, Maria Anna Madia, Patrizia Maestri, Ernesto Magorno, Gianna Malisani, Simona Flavia Malpezzi, Andrea Manciulli, Massimiliano Manfredi, Irene Manzi, Daniele Marantelli, Marco Marchetti, Maino Marchi, Raffaella Mariani, Elisa Mariano, Siro Marrocu, Umberto Marroni, Andrea Martella, Pierdomenico Martino, Michela Marzano, Federico Massa, Davide Mattiello, Matteo Mauri, Alessandro Mazzoli, Fabio Melilli, Marco Meloni, Michele Meta, Marco Miccoli, Gennaro Migliore, Emiliano Minnucci, Anna Margherita Miotto, Antonio Misiani, Michele Mognato, Francesco Monaco, Colomba Mongiello, Daniele Montroni, Alessia Morani, Roberto Morassut, Sara Moretto, Antonino Moscatt, Romina Mura, Delia Murer, Alessandro Naccarato, Martina Nardi, Giulia Narduolo, Michele Nicoletti, Nicodemo Oliverio, Matteo Orfini, Andrea Orlando, Alberto Pagani, Giovanna Palma, Valentina Paris, Dario Parrini, Edoardo Patriarca, Vinicio Peluffo, Caterina Pes, Paolo Petrini, Liliana Cathia Piazzoli, Teresa Piccione, Flavia Piccoli Nardelli, Giorgio Piccolo, Salvatore Piccolo, Nazareno Pilozzi, Giuditta Pini, Barbara Pollastrini, Fabio Porta, Giacomo Portas, Ernesto Preziosi, Francesco Prina, Lia Quartapelle, Fausto Raciti, Michele Ragosta, Roberto Rampi, Ermete Realacci, Francesco Ribaudo, Matteo Richetti, Andrea Rigoni, Maria Grazia Rocchi, Giuseppe Romanili , Andrea Romano, Ettore Rosato, Paolo Rossi, Anna Rossomando, Michela Rostan, Alessia Rotta, Simonetta Rubinato, Angelo Rughetti, Giovanni Sanga, Luca Sani, Francesco Sanna, Giovanna Sanna, Daniela Sbrollini, Ivan Scalfarotto, Gian Piero Scanu, Gea Schirò, Chiara Scuvera, Angelo Senaldi, Marina Sereni, Camilla Sgambato, Elisa Simoni, Roberto Speranza, Nico Stumpo, Luigi Taranto, Mino Taricco, Assunta Tartaglione, Veroni Tentori, Alessandro Terrosi, Marietta Tidei, Irene Tinagli, Mario Tullo, Valeria Valente, Simone Valiante, Franco Vazio, Silvia Velo, Laura Venittelli, Liliana Ventricelli, Walter Verini, Rosa Calipari, Sandra Zampa, Alessandro Zan, Giorgio Zanin, Giuseppe Zappulla, Diego Zardini, Davide Zoggia.
PI-CD Roberto Capelli, Federico Fauttilli, Gian Luigi Gigli, Carmelo Lo Monte, Mario Marazziti, Gaetano Piepoli, Domenico Rossi, Milena Santerina, Mario Sberna, Bruno Tabacci.
SC Alberto Bombassei, Mario Catania, Antimo Cesaro, Angelo D’Agostino, Stefano Dambruoso, Giovanni Falcone, Adriana Galgano, Gianfranco Librandi, Andrea Mazziotti di Celso, Bruno Molea, Roberta Oliaro, Giuseppe Quintarelli, Mariano Rabino, Giulio Cesare Sottanelli, Pier Paolo Vargiu, Andrea Vecchio, Valentina Vezzali, Paolo Vitelli, Enrico Zanetti.
Binetti e D’Attorre Ansa, Dlm
il Fatto 11.3.15
Orfini e le origini del Pd respingente
di Antonio Padellaro
"La responsabilità è nostra, siamo respingenti”, ha detto Matteo Orfini, commissario del Pd romano all’assemblea dei tesserati commentando “il mistero di un partito che in città prende 500 mila voti e ha solo 9 mila iscritti tra veri e falsi...”. Bisogna dare atto a Orfini, che è anche presidente nazionale dei Democratici, di aver usato senza ipocrisie l’espressione giusta perché se è vero che oggi è l’intera categoria dei partiti a essere “respingente” per chi volesse accostarsi con le migliori intenzioni alla politica, il problema tocca la natura stessa del Pd che con Matteo Renzi si è proposto come la forza del “cambiamento”. E in effetti non è facile immaginare per quale motivo, per così dire ideale, un giovane possa entrare in una sezione Pd magari per sentirsi chiedere quale dei tanti signori delle tessere (false) lo abbia indirizzato lì e perché. Nominato commissario a seguito dello scandalo di Mafia Capitale, in questi mesi Orfini deve aver visto cose che noi umani neppure immaginiamo. In piccolo accadde anche a chi scrive quando, come direttore dell’Unità, il giorno delle prime primarie, fiducioso nel nuovo che avanzava, entrai nel circolo del quartiere dove abito e subito fui avvicinato da un tale che mi avvertì che in quella sezione i nuovi dirigenti erano già stati decisi a tavolino secondo una rigida ripartizione tra Ds e Margherita e che questo sistema vigeva un po’ dappertutto. Come dire, respingenti fin dalla culla.
il Fatto 11.3.15
Eletti, non eletti, grandi capi
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, ho visto questa scena: grande evento istituzionale (prendo questo termine dai Tg), escono i partecipanti. Parte una prima auto blu e circola la domanda: chi è? Finché la risposta è “il Questore”, “Il Prefetto”, “il Comandante generale”, tutti tacciono assorti al passaggio dei macchinoni. Appena qualcuno dice: “è l’onorevole tale” o “il senatore tal’altro”, scoppiano grida di “vattene a casa, vai a lavorare”, “basta rubare!”. Comincio a capire Landini che vuole fare politica ma non entrare in politica. Mi domando se si può.
Matteo
CREDO CHE in questa lettera ci sia un’intuizione interessante. Una grande e diffusa irritazione popolare riguarda i titolari di tutte le cariche, purché siano eletti dal popolo. Credo sia facile predire che il nuovo Senato, composto da non eletti, anche se i suoi membri avranno ben presto “diaria” e “rimborso spese” per quando vengono a Roma, e anche se sentiranno la necessità, per il bene del Paese, di venire spesso a Roma, sfuggiranno allo spettacolo appena descritto perché non eletti. Avrete notato che in questo ultimo difficilissimo periodo della storia italiana, segnata da violentissimi episodi di antipolitica, solo due figure si sono sottratte al brutale giudizio di folla appena descritto (e tuttora molto frequente): il capo dello Stato, e il presidente del Consiglio. Devo immediatamente chiarire che non parlo delle persone e del loro valore e prestigio personale. Parlo di due situazioni che, in questo strano momento italiano, hanno un importante tratto in comune: le due persone non sono elette. Il capo dello Stato infatti viene eletto dalle Camere riunite ma non dai cittadini e dunque ha, e mantiene a lungo, un suo prestigio che gli deriva dalla doppia distanza dal voto. E questo presidente del Consiglio che, caso unico, governa senza essere mai passato attraverso le urne. Strano che nessuno abbia mai pensato che il non essere mai stato eletto sia la vera forza e la vera (temporanea) infrangibilità di Matteo Renzi. È come un prefetto, ma in una versione rafforzata sia dalla vastità dei poteri sia dall’ostentato esercizio di comandare come qualcuno che se n’è conquistato il diritto. La strana fiaba che stiamo vivendo è che, appena eletto in regolari elezioni, Renzi perderà subito questa magica campana di vetro che lo mantiene al sicuro. Per questo continua a dirci che lui governerà per tutta la legislatura (prorogando il più possibile la sua magica condizione che lo rende non giudicabile), e si guarda bene dall’esercitare quella serie di compensazioni e di bilanciamenti che sono la preoccupazione costante degli eletti. Per questo è sfacciato e non le manda a dire. Non essendo stato eletto, nessuno gli rimprovererà l’arroganza e, a volte, toni di deliberata maleducazione, riservata sempre a quegli stracci degli eletti. Renzi, da non eletto che governa con pieno potere e anzi sposta e cambia l’intero mobilio della casa costituzionale svolgendo un compito che nessuno gli ha assegnato, cammina letteralmente sulla acque. Faccio un esempio. Se Renzi fosse un eletto, dopo la doppia “performance” del neo presidente Mattarella (aereo di linea a Palermo e tram a Firenze) non potrebbe più accostarsi a un aereo di Stato. Ricorderete che, solo poco prima, Renzi era andato a sciare, con fermate intermedie per la famiglia, usando un aereo di Stato. Da eletto nessuno lo avrebbe perdonato, e il tuono di proteste e richieste di rimborsare il costo sarebbe ancora in giro, aprirebbe ancora le sedute mattutine della Camera. Da non eletto ha avuto un rimbrotto e via. Attenzione. Quello che sto dicendo non è una teoria politica. È una constatazione. Qualunque cosa sia, l’antipolitica e l’anti-casta riguardano gli eletti. Ecco perché alcuni stanno seriamente pensando di fare politica senza entrare nella politica. L’esempio di Renzi, libero di muoversi su campi minati dove le mine per lui non esplodono, è troppo attraente.
Corriere 11.3.15
Nuova Costituzione
Il potere senza contrappesi
di Michele Ainis
Non c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la seconda approvazione. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già finita. Perché adesso il Senato può intervenire esclusivamente sulle parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò.
Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiamenti non si sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che magari s’offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo 70 — che regola la funzione legislativa — s’esprime con 9 parolette; dopo quest’iniezione ri-costituente ne ospiterà 430. Una grande, grandissima riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzione.
Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinearle, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato. Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se la legge più alta non è una cosa seria.
In secondo luogo, è altrettanto necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le stesse istituzioni. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni: almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo imperfetto con un bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio.
Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a maggioranza assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda meno complicato l’ iter legis . E dunque non è vero che semplifichi la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario delle crisi di governo, nonché — di fatto — il potere di decidere l’interruzione anticipata della legislatura.
Da qui la preoccupazione che s’accompagna alla riforma. Servirebbero maggiori contrappesi, più contropoteri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle opposizioni, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzionale, spalancando il suo portone all’accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare il capo dello Stato, magari concedendogli il potere d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in conclusione vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un soprammobile. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della serratura.
il manifesto 11.3.15
Una Costituzione di minoranza
Un brutto giorno per la Repubblica
di Massimo Villone
qui
Repubblica 11.3.15
Le mosse sterili della minoranza e la trincea finale in casa Renzi
La volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum offre l’impressione di una scaramuccia di retroguardia
di Stefano Folli
«HO votato sì per l’ultima volta» dice Bersani dopo aver dato il suo consenso alla riforma del Senato. In realtà l’ex segretario del Pd, oggi figura di riferimento della minoranza anti-Renzi, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un fronte che un passo dopo l’altro sta perdendo la guerra.
Del resto, non c’è nulla che alimenti il successo come il successo medesimo. Renzi si è costruito la fama del vincitore, una specie di «veni, vidi, vici» moderno. Finché la sorte lo assiste, è difficile credere che la minoranza del suo partito riesca a rovesciare il tavolo. Certo, l’argomento di Bersani e dei suoi amici non è irrilevante. In sostanza, si ritiene che la legge elettorale — l’Italicum — sia inadeguata per via dei numerosi deputati «nominati» dalle segreterie e non realmente eletti in un confronto nei collegi. Soprattutto il combinato disposto dell’Italicum e di un sistema monocamerale, prodotto dalla riforma che trasforma il Senato in un’assemblea di «secondo grado», cioè non eletta dal popolo, appare agli occhi degli oppositori un vulnus democratico. Un tema molto vicino alla posizione espressa dai vendoliani di Sel.
Il problema è che la minoranza non ha la forza e nemmeno una linea coerente per tentare di vincere la battaglia. Quando la riforma costituzionale era a Palazzo Madama in prima lettura, gli anti-Renzi del Pd — salvo alcune eccezioni — non seppero o non vollero impegnarsi all’unisono per bloccarla. Lasciarono intendere che il vero scontro sarebbe stato a Montecitorio, dove peraltro i numeri sono molto più favorevoli al premier- segretario. In realtà, come si è visto, alla Camera Bersani e quasi tutti i suoi hanno votato secondo la disciplina interna, sia pure «per l’ultima volta».
A questo punto la riforma è a due passi dalla sua definitiva approvazione ed è davvero arduo immaginare che possa essere insabbiata, nonostante l’esiguo margine di voti al Senato. Inoltre, come è noto, la linea del Pd è storicamente favorevole al sistema monocamerale e ciò spiega perché l’attenzione della minoranza si è già spostata verso la legge elettorale. L’obiettivo minimo è modificare lo schema delle liste bloccate, ma anche il premio alla lista anziché alla coalizione non piace.
Questa volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum, in vista di ottenere modifiche significative all’impianto della legge, è in sé legittima, ma non si sfugge all’impressione che si tratti di una scaramuccia di retroguardia. Qualcosa a cui forse non tutti credono negli stessi ranghi della minoranza del Pd. Vale per la legge elettorale quello che si è detto per la riforma costituzionale: perché non c’è stato un maggiore impegno quando forse era possibile spuntare un risultato? Anche l’Italicum è già passato sotto le forche caudine del Senato ed è stato approvato. Eravamo in gennaio, prima che le Camere si riunissero per eleggere il capo dello Stato, e Renzi giocò abilmente sia Berlusconi sia la sua minoranza interna, ottenendo il «sì» alla riforma.
Anche allora i bersaniani annunciarono lotta senza quartiere, ma solo pochi di loro tennero fede ai propositi e alla fine furono comunque sconfitti dai numeri. Gli altri, per varie ragioni, si defilarono. Adesso l’Italicun si sta avviando verso Montecitorio per la seconda e definitiva lettura. Bersani chiede di non perdere l’ultima occasione di modificarne la sostanza ed è andato anche da Mattarella per illustrargli il suo punto di vista. Ma se è una battaglia per la rappresentanza democratica, il «pathos» è purtroppo assente. E di nuovo il terreno scelto — l’assemblea di Montecitorio — è il meno propizio per ribaltare i rapporti di forza con i renziani.
Peraltro il presidente del Consiglio già da tempo è dedito a dividere l’opposizione interna, portando dalla sua spezzoni più o meno consistenti. E lasciando intendere, invece, che per gli intransigenti non ci sarà futuro nelle liste elettorali dell’Italicum. I bersaniani ortodossi, più che vincere un braccio di ferro tardivo, non dovranno sembrare interessati solo a salvare il seggio in Parlamento.
Il Sole 11.3.15
Il referendum ridisegna i partiti
di Lina Palmerini
È il nostro ultimo sì. Bersani l’ha detto a Renzi e i 18 dissidenti di Verdini l’hanno detto a Berlusconi prima della sentenza. Due penultimatum deboli e con obiettivi diversi ma entrambi guardano al referendum 2016 sulla riforma costituzionale che ieri ha tagliato il secondo traguardo.
Sarà quello lo spartiacque che ridisegnerà i partiti, dal Pd renziano a Forza Italia. La diversità dell’altolà delle due minoranze non sta solo nel voto di ieri alle riforme – i Democratici hanno votato si, i verdiniani no - ma sulle prospettive che hanno davanti. Più che diverse sono opposte. Il Pd ha un leader forte con un piano politico molto chiaro. E va avanti, al contrario di chi accusava Renzi di “annuncite”. Dall’altra parte, non c'è un leader forte e non c’è un partito. Se quella minoranza di Forza Italia dice di aver “obbedito” a Berlusconi solo per “lealtà e affetto”, vuol dire che la politica è finita. Che non c’è un programma, un’identità, una strategia ma che si è entrati in un altro mondo - quello dell’affetto, appunto - che come si sa in politica dura poco. In questo caso, dura giusto il tempo di conoscere la sentenza della Cassazione sul processo Ruby. E subito si apriranno i giochi veri nel centrodestra. Nei quali entreranno anche le due Leghe, quella di Salvini e quella che sarà di Tosi, ieri messo fuori dal partito.
È chiaro che le regionali saranno un punto di svolta. La deadline per tutti i partiti è quel voto di maggio che restituirà pesi e forza, anche se il rischio di astensionismo potrebbe appannare tutto, anche le vittorie. In ogni caso il destino di Forza Italia si conoscerà solo dopo l’esito delle urne di primavera. È chiaro che Verdini tira verso la versione moderata, alleata perfino strutturalmente di Renzi. Quindi, non solo sulle riforme istituzionali ma punta a una vera alleanza, nel senso più ampio, magari valida anche per le prossime politiche. Un nuovo disegno della mappa di partiti e coalizioni che potrebbe debuttare proprio sul referendum popolare sulle riforme che Renzi ha già “chiamato” per il 2016. È a quell’appuntamento che guardano con obiettivi diversi le due minoranze di ieri. Perché quell’appuntamento potrebbe diventare il luogo per la nuova versione del Pd e per quella di Forza Italia, per schieramenti e alleanze, pro o contro Renzi.
Ed è ciò che spaventa di più l’altra minoranza, quella di Bersani e Cuperlo. Da che parte si collocheranno al referendum, fuori o dentro il Pd renziano? Per questa ragione il loro penultimatum è debole. Innanzitutto perché non è il primo: è successo già con la legge elettorale, con la legge di Stabilità, con la delega sul Jobs Act e ieri con la riforma costituzionale. Ogni volta era l’ultima, proprio come ieri ha detto Bersani minacciando barricate al prossimo voto sull’Italicum. In secondo luogo sono minacce sussurrate perché sono prive di prospettiva. Renzi va avanti senza che vi sia una alternativa al suo Pd. La minoranza è a rimorchio, costretta a un’azione politica fatta solo di correzioni, emendamenti che pochissimi tra gli elettori capiscono. E soprattutto in preda a una paura. «Renzi dica se vuole sostituirci con Verdini», dicevano ieri nell’area di Bersani.
E questo è ciò che c’è in ballo, che il Pd renziano assorba pezzi dei partiti di oggi: da Ncd-Udc a Scelta civica fino all’area di Forza Italia più vicina al premier, quella dei verdiniani. E questo partito potrebbe prendere forma lentamente fino al referendum del 2016 sulla riforma costituzionale. Lì ci sarà un dentro o fuori. Con le riforme, con Renzi o contro. È chiaro che se si andasse a parare lì, una parte della minoranza Pd sarebbe spinta all’esterno. Ma l’unico programma politico non potrà essere una variante di quello che pigramente ha accompagnato la sinistra per vent’anni: l’anti-renzismo dopo l’anti-berlusconismo. Che non è un'idea ma un “no” e basta. Per quella data bisognerà preparare un piano vero fatto non solo di ostruzionismi e penultimatum parlamentari ma di un progetto politico.
Il Sole 11.3.15
Solo la realtà ci dirà se funziona
di Paolo Pombeni
Giudicare come una vittoria di Renzi quel che è successo con l’approvazione alla Camera del ddl sulle riforme costituzionali è riduttivo. Prima di tutto perché il percorso per arrivare all’entrata in vigore della riforma è ancora lungo e insidioso.
In secondo luogo perché non si può ridurre una riforma così delicata ad una prova muscolare fra il premier sempre più emergente e le opposizioni di varia natura e colore.
La riforma contiene molto di più del superamento del bicameralismo paritario. Se fosse solo questo non si capirebbe perché, dopo sessant’anni di tormenti sul perché in Italia non abbiamo un sistema simile alle grandi democrazie anglosassoni, oggi ci si sprechi in discorsi poco comprensibili sulle bellezze del parlamentarismo puro e sui rischi di ciò che con un brutto neologismo si definisce “democratura”.
Il disegno di legge Boschi è complesso e accanto alla trasformazione e al ridimensionamento del Senato contiene quella riforma del Titolo V (i poteri delle regioni) che da tempo era stata invocata, più varie altre norme di vario peso. Tanto per citare quella che più potrebbe incidere sul futuro della nostra vita politica, la possibilità per il governo di imporre la valutazione di un disegno di legge entro il termine massimo di 60 giorni. Significa che praticamente la necessità di fare decreti legge si ridurrebbe davvero a pochi casi di reale ed estrema “necessità ed urgenza”.
Le critiche principali si sono appuntate sulla denunciata mancanza di confronto su questa importante normativa. Il governo ha risposto che se ne è discusso ampiamente. In questo caso la verità sta nel mezzo: la discussione c’è stata, ma più come una ricerca di compromesso o di scontro aprioristico all’interno di una classe politica frammentata e non esattamente all’altezza del momento, che come un lavoro di confronto e di approfondimento con tutte quelle istanze competenti che potevano aiutare a scrivere una normativa meno imprecisa e meno strutturata come un puzzle di interventi diversi.
Naturalmente si deve tenere conto della non infondata paura del governo che imbarcandosi in un confronto a largo raggio si finisse nell’inconcludenza, secondo un copione ampiamente sperimentato (ricordiamo solo tre bicamerali andate a vuoto). Da tanti punti di vista è un lusso che il Paese non può più premettersi. Ricordiamo il pessimo esito di uno pseudofederalismo straccione che ha moltiplicato spese inutili e improduttive, gonfiamenti di organici e superburocrazie regionali, discreto proliferare di corpi politici locali più attenti agli interessi delle loro botteghe che allo sviluppo del Paese. Bene dunque una riforma che dia allo Stato strumenti di contenimento di queste deviazioni, anche se rimane da chiedersi se la burocrazia statale sia oggi in grado di fare certamente meglio di quelle locali. Almeno però eviteremo ridicolaggini tipo il cambiamento di ordinamenti su certe infrastrutture che variano da regione a regione (le normative sulle pale eoliche per fare un esempio).
Su gran parte delle normative approvate solo la loro gestione concreta dirà se funzionano o meno. Dire per esempio che il Senato sarà una scatola vuota è rischioso. Nella nostra costituente del 1946 si disse questo della figura del Presidente della Repubblica, ma la gestione storica della carica non ha dato ragione a quelle fosche previsioni.
Ciò che invece si può dire con ragionevole certezza è che il cammino per arrivare a capo della riforma è ancora lungo e insidioso. Innanzitutto quel che oggi si è approvato deve tornare al Senato dove i numeri sono poco favorevoli al governo, e se ci fossero ulteriori modifiche ci sarebbe un nuovo avvilupparsi nella rete dei rinvii. Infatti la legge allora dovrebbe tornare alla Camera e poi, ammesso che adesso o nel secondo passaggio si giungesse ad un testo accettato da entrambi i rami, si dovrà obbligatoriamente rivotarlo in entrambe le Camere a distanza di tre mesi. Coi tempi che corrono e con la volatilità degli schieramenti politici (mettiamoci anche in mezzo possibili risultati spiazzanti alle prossime elezioni amministrative) non è detto che tutto filerà liscio.
Anche se così fosse, ci sarebbe poi il passaggio del referendum confermativo a cui Renzi ha detto di voler ricorrere in ogni caso. Ebbene si tratta di un referendum senza quorum, il che può anche significare che, con l’astensionismo ormai dilagante e tanto più a fronte di una materia complessa che i cittadini faticano a capire, tutto potrebbe ridursi ad una sfida a base di slogan fra tifoserie contrapposte e minoritarie entrambe nel Paese. Cosa ciò significherebbe in termini di equilibrio complessivo è facile da immaginare.
La Stampa 11.3.15
E ora si riapre il fronte della legge Severino
di Marcello Sorgi
La conferma da parte della Cassazione dell’assoluzione già ricevuta dai giudici d’appello di Milano per il “caso Ruby” chiude (anche se non del tutto, pendente c’è un terzo processo) per Berlusconi il capitolo più infamante delle sue traversie giudiziarie e quello che senza dubbi ha più contribuito al suo declino politico.
Sul piano giudiziario, si tratta di un indubbio alleggerimento della sua condizione di superimputato, che resta tuttavia prigioniero di un pesante contenzioso in cui le cosiddette “feste eleganti”, accantonate a Milano, riappaiono a Bari, anche se l’indirizzo emerso dalla decisione della Cassazione avrà il suo peso su altre accuse dello stesso genere.
Berlusconi, che aveva atteso la sentenza in uno stato di prostrazione, senza dare grande importanza alla gran confusione e alle divisioni con cui il suo partito ha affrontato il voto sulla riforma del Senato alla Camera, sarà portato a riprendere in mano il filo del suo impegno politico, partecipando con più passione alla campagna elettorale per le elezioni regionali, e in particolare a quella per la Campania.
La quale è l’unica amministrazione ancora guidata da un governatore del suo partito, Caldoro, che potrebbe pure essere riconfermato, visto l’handicap di partenza del suo avversario De Luca, il sindaco di Salerno uscito a sorpresa dalle primarie del Pd, che a causa della sua condanna e successiva sospensione per la legge Severino, in caso di vittoria potrebbe non potersi insediare alla guida della regione.
Nell’immediato, la battaglia per la cancellazione, o almeno la trasformazione della legge Severino (che a questo punto, via De Luca, riguarda anche il Pd), rimane l’impegno prevalente per l’ex-Cavaliere, il suo “primum vivere”, dato che a questo sono legate le sue residue speranze di riabilitazione politica.
Il secondo obiettivo resterà la durata della legislatura fino al termine naturale del 2018 o almeno fino alla data più prossima a quella scadenza, ciò che Berlusconi, a dispetto delle divisioni del suo partito, o forse approfittandone e perfino favorendole, come ha fatto finora, cercherà di perseguire, in attesa di riallacciare il filo del patto con Renzi che delinea l’unico equilibrio possibile, al di là di quelli occasionali, di un Parlamento nato sciancato.
La Stampa 11.3.15
Bologna, la procura indaga sui conti degli onorevoli Pd
di Franco Giubilei
Fino al 2013 c’è stato un giro di denaro in contanti, riguardante l’attività locale dei parlamentari Pd bolognesi, che ha finito per insospettire la guardia di finanza: si parla della gestione di quella parte dei compensi di deputati e senatori versata ogni mese su conti correnti a loro intestati, soldi che servivano a pagare le spese per iniziative politiche sul territorio, una gestione di cui si occupava l’allora amministratore dell’ufficio parlamentari Pd, Fausto Sacchelli. Quest’ultimo risulta indagato per appropriazione indebita aggravata nel quadro di un’inchiesta affidata al pm Morena Plazzi. Le Fiamme gialle sono arrivate quasi per caso alle ripetute movimentazioni di denaro, quindi hanno segnalato il comportamento del funzionario Pd al magistrato. Dopo l’interrogatorio, in cui l’indagato ha sostenuto che le somme erano state utilizzate per far fronte alle spese dei politici, la finanza è entrata nella sede della federazione bolognese di via Rivani e ha acquisito fatture, ricevute e documenti fiscali. La procura si limita a confermare che le indagini sono aperte, senza fornire altri dettagli. Walter Vitali, deputato per due legislature fino alle ultime elezioni ed ex sindaco di Bologna, osserva che «il reato di appropriazione indebita prevede che sia la vittima ad attivarsi, invece nessuno di noi parlamentari lo ha fatto perché sapevamo che quei soldi venivano spesi per attività politiche sul territorio. A occuparsene era una persona che godeva della nostra totale fiducia e alla quale avevamo dato la procura di prelevare dal nostro conto. Se si fosse comportato male sarebbe stato cacciato, invece se n’è andato di sua volontà». L’ex parlamentare aggiunge: «Noi deputati e senatori bolognesi, eravamo otto in tutto, versavamo su conti correnti a noi intestati circa 3mila euro del nostro stipendio al mese a testa: una parte dei fondi serviva a pagare le fatture con bonifici, una parte veniva gestita dal nostro fiduciario per spese varie, dalla macchina a noleggio ai costi delle utenze, fino a volantini o annunci. Se di queste iniziative siano state tenute tutte le ricevute non lo so, anche perché allora non c’era obbligo di rendicontazione». Una precisazione arriva anche dal tesoriere del Pd di Bologna, Carlo Castelli: «I documenti richiesti dalla guardia di finanza riguardano atti e fatture di singoli parlamentari e non l’attività dell’Unione provinciale Pd. L’ufficio parlamentari, sito anch’esso in via Rivani, si è messo a disposizione delle forze dell’ordine per fornire tutta la documentazione richiesta. Il Pd di Bologna ha piena fiducia nell’operato delle autorità ed è altrettanto certo della correttezza dell’operato dei parlamentari, della trasparenza dei loro atti e delle spese d’ufficio legate al loro mandato».
Corriere 11.3.15
Gli affitti di Montecitorio pagati all’immobiliarista il doppio del mercato
Lo svela una perizia del Demanio. E ora il prezzo scende
di Sergio Rizzo
Ricordate i famosi palazzi Marini che ospitavano gli uffici dei deputati e per i quali la Camera ha speso mezzo miliardo di affitti pagati alla società Milano ’90 dell’immobiliarista Sergio Scarpellini?
Adesso c’è una lettera firmata Roberto Reggi, direttore dell’Agenzia del Demanio, che su quella vicenda apre un nuovo scenario. C’è scritto che per uno di quei quattro immobili, classificato convenzionalmente come Marini 3, il canone giusto è di 2 milioni 720 mila euro: 313 euro annui al metro quadrato, che dovrebbero scendere addirittura a 266 con la riduzione prevista dalla legge. Meno della metà, ossia, rispetto ai 647 euro pagati finora. Ma anche dei 618 euro proposti da Milano ’90 giusto qualche giorno fa, nel tentativo di salvare almeno una parte di quella clamorosa rendita apparentemente franata con la decisione della Camera di rescindere i contratti. È raccontato in quella lettera ufficiale di cui sopra, sia pure con l’imperdonabile inciampo in un errore d’ortografia da seconda elementare: «per l’utilizzo di Palazzo Marini 3 la società proprietaria a richiesto una somma di euro 5.376.925,12».
Più di quella «a» senz’acca, che certo qualche interrogativo lo meriterebbe, il contrasto fra le cifre fa sorgere inevitabilmente una serie di domande.
Per tutto questo tempo, considerando che i contratti risalgono alla fine degli anni Novanta, quanti denari in più abbiamo sborsato rispetto a ciò che avremmo dovuto pagare? La perizia del Demanio spiega che «il valore locativo annuo individuato all’attualità risente evidentemente del trend negativo attraversato dal comparto immobiliare». E ci sta. Ma ci sta pure un’altra considerazione: la crisi va avanti ormai da molti anni, durante i quali il vecchio affitto dei palazzi Marini, che non pochi hanno sempre giudicato esorbitante, continuava a correre. Ma poi: come vennero fissati i canoni originari? Esistono forse precedenti pareri di congruità? Dopo la lettera del Demanio, sarebbe opportuno renderli pubblici. O no?
Anche perché salta fuori adesso che le strade della Camera e di Scarpellini non sono ancora destinate a dividersi. L’arma letale dell’immobiliarista sono i 400 dipendenti di Milano ’90 che in base ai contratti di fornitura di servizi prestavano servizio in quei Palazzi. Con la rescissione degli affitti finirebbero in mezzo a una strada: inutile dire che la colpa è già stata mediaticamente appioppata agli onorevoli indifferenti verso chi perde il posto. Da qui l’improvvisa virata. Se non proprio a 180, almeno a 90 gradi: si rinuncerà a due soli palazzi anziché a tutti e quattro, com’era stato già deciso.
Una svolta per certi versi clamorosa, capace di far tirare un respiro di sollievo non soltanto ai lavoratori e al proprietario degli immobili, ma pure a molti deputati che rischiavano di restare senza ufficio. Che tuttavia fa a pugni con tante dichiarazioni incendiarie ascoltate in questi mesi, secondo cui la pagina dei palazzi Marini si doveva considerare definitivamente chiusa. Una svolta, peraltro, accettata anche dalla forza politica che si era impegnata con più determinazione per la soluzione radicale. Sia pure, hanno spiegato i tre rappresentanti del Movimento 5 Stelle nell’ufficio di presidenza Luigi Di Maio, Claudia Mannino e Riccardo Fraccaro in poche righe inviate alla presidente della Camera Laura Boldrini, «con il fine precipuo di salvaguardare i posti di lavoro» e alla condizione che «l’eventuale accordo dovrà contenere la rinuncia al contenzioso della Milano ’90».
Il percorso tuttavia è ancora in salita. Non soltanto per il prezzo. Alla stima del Demanio Scarpellini ha replicato ieri offrendo i palazzi Marini 3 e 4 per un canone totale di 8 milioni l’anno più Iva. Ovvero, quasi 400 euro al metro quadrato: ritenendo che la Camera debba pagare anche la sua rinuncia alle carte bollate. E per una durata contrattuale di sei anni più altri sei. La proposta è finita per ora in frigorifero. Si è scoperto che Milano ‘90 ha un debito di 615 mila euro con l’Inps e l’Inail per i contributi previdenziali non versati di quei lavoratori.
Corriere 11.3.15
Scuola, più poteri ai presidi «Si sceglieranno la squadra»
di Claudia Voltattorni
ROMA Nessun decreto. Sulla Buona scuola il governo conferma la strada del disegno di legge, cioè sarà il Parlamento a decidere su assunzioni, maggiore autonomia dei presidi, stipendi dei prof legati al merito per il 70 per cento, materie da aggiungere o rinforzare. Dopo quasi due ore di incontro a Palazzo Chigi, ieri sera il premier Matteo Renzi e la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini hanno rivisto il testo che domani pomeriggio il Consiglio dei ministri dovrà licenziare e poi inviare alle Camere. E hanno deciso di andare avanti sulla linea decisa la settimana scorsa, evitando la decretazione d’urgenza, che però non viene ancora del tutto esclusa nel caso in cui i tempi si allungassero troppo (l’iter parlamentare partirebbe dopo il 17 marzo e l’esecutivo vorrebbe concluderlo per il 15 aprile).
Il nodo dei precari da assumere rimane il punto chiave di tutto il ddl. «Sarà data una risposta importante al precariato» è stato detto alla fine dell’incontro. Tra Graduatorie a esaurimento, seconda fascia e vincitori del concorso 2012, le immissioni in ruolo potrebbero arrivare a 100 mila, di cui almeno la metà dal primo settembre 2015, il resto nel 2016. Ma il Miur intanto ha avviato le procedure per la quantificazione degli organici del prossimo anno — le scuole sapranno entro il 31 marzo quanti professori avranno a disposizione — e, per ora, sono stati confermati i numeri dello scorso anno. Non sono escluse perciò delle «nomine giuridiche», con precari al lavoro dal primo settembre 2015 ma assunti dal 2016.
Per quanto riguarda il testo della Buona scuola, Renzi ha voluto alcuni aggiustamenti per rafforzare l’autonomia «strumento del merito e chiave per aprire la scuola al territorio e di pomeriggio». L’idea del premier è puntare sui presidi che, grazie ad un’autonomia sempre maggiore, possono «farsi la propria squadra», scegliendo i professori in base al progetto formativo della propria scuola. Idea bocciata da tutti i sindacati che dal 20 marzo sono in mobilitazione con una sorta di sciopero bianco. I precari sciopereranno il 17 marzo.
E ieri l’Unione degli Studenti, chiedendo il ritiro del ddl, ha presentato «L’altra scuola»: progetto in sette punti che va dal diritto allo studio all’abolizione della bocciatura, dallo stop ai voti all’obbligo scolastico fino ai diciotto anni, e poi l’alternanza scuola-lavoro «finanziata e qualificata» e l’eliminazione della divisione tra scuola elementare e media. Domani scenderanno nelle principali piazze d’Italia per una giornata di mobilitazione nazionale.
il Fatto 11.3.15
La lobby del cemento copre l’Appia Antica
Grottaperfetta. Le proteste non bloccano l’avanzata delle ruspe
Il Comune di Roma regala 400 mila metri cubi ai soliti costruttori
Una tangenziale e 32 palazzi sorgeranno sopra una necropoli che nessuno potrà più vedere, sotto le fondamenta
di Silvia D’Onghia
Dicono che a Roma, ovunque si faccia un buco nel terreno, si trovi qualcosa di antico. Forse è per questo che, con una frequenza impressionante, la Soprintendenza decide di ricoprire qualsiasi cosa venga alla luce al di fuori dal centro storico (anche perché lì è tutto già scavato). Non ci sono i soldi, si dice ancora, per mantenere aperti i nuovi siti. È vero. Ma forse nel caso dei ritrovamenti di Grottaperfetta, a pochi passi dall’Appia Antica, i soldi per una volta sarebbero entrati nelle casse del Comune e in misura molto maggiore rispetto alle uscite.
UNA NECROPOLI risalente al I-II secolo dopo Cristo, completa di piccoli mausolei e recinti funerari, cospicue quantità di frammenti ceramici di età medio repubblicana, una fattoria evolutasi in villa suburbana, un lungo tratto di strada romana con rivestimento basolato ben conservato, un tratto di acquedotto e un’antica cava. Almeno per quello che si è scavato. Il tutto non solo beatamente ceduto al consorzio di costruttori Grottaperfetta, perché all’interno di un’area ceduta dal Comune di Roma in convenzione, ma altrettanto beatamente ricoperto da abbondanti strati di terra. Né i romani né i turisti potranno mai visitare quella necropoli. In compenso gli acquirenti dei lussuosi appartamenti nei mega-palazzoni che sorgeranno a partire dal 2016 potranno dire di camminare sulla storia.
La vicenda dell’intervento urbanistico n. 60 comincia nel lontano 1962, quando – nell’allora Piano regolatore – venivano destinati 180 mila metri cubi all’edilizia, in una zona ancora poco abitata. Siamo a pochi metri dal parco dell’Appia Antica, c’è soltanto una strada che divide le due aree. Ed è proprio l’Appia Antica, nello specifico la Tenuta di Tor Marancia, che determina 40 anni dopo l’ampliamento del regalo ai “palazzinari”: non potendosi costruire in zona vincolata, il Comune, anzi che dire “scusate, ci siamo sbagliati”, decide di “compensare”. E così i metri cubi di Grottaperfetta passano da 180 mila a 400 mila all’inizio del 2000. Il gruppo che si aggiudica il premio è formato da una cordata in cui si sono alternati la famiglia Mezzaroma, Ciribelli, Calabresi, Rebecchini, Marronaro e il Consorzio di cooperative Aic. Nomi che i romani, ma non solo loro, conoscono bene. La convenzione con il Campidoglio viene siglata il 5 ottobre 2011 e integrata il 18 giugno 2012. I 400 mila metri cubi si traducono in altri numeri, che danno ancora di più la dimensione dell’affare: sull’area, che si estende per 23 ettari, si dovranno costruire 32 edifici a uso abitativo, un centro polifunzionale, due asili, una piazza, strade interne per la viabilità locale, parcheggi, una pista ciclabile, un sovrappasso in legno e, tanto per non farsi mancare nulla, una tangenziale di collegamento con la via Laurentina. L’hanno chiamata “Nuovo Rinascimento”, forse perché la popolazione aumenterebbe di 5.000 unità. E del resto come dire di no a “piacevoli linee architettoniche”, “ampie terrazze” e “lussuosi appartamenti” che partono dalla modica cifra di 230 mila euro (box escluso, naturalmente)? Le vendite sono già in corso e pullulano le inserzioni sui giornali locali, a firma Immobildream di Roberto Carlino, quello che “non vende sogni ma solide realtà”.
GLI UNICI che stanno tentando di opporsi a quest’immensa colata di cemento – in una città in cui Legambiente stima la presenza di 250 mila alloggi sfitti – sono i cittadini e il Municipio
VIII. I primi si sono costituiti in un comitato, “Stop I-60” (che ha un proprio sito e una pagina Facebook), e da tempo cercano con ricorsi e manifestazioni di bloccare le ruspe. Il Municipio ha messo in campo tutte le iniziative legali possibili. “Nel febbraio dello scorso anno – racconta il presidente Andrea Catarci – abbiamo fermato le opere abusive di reinterro dello storico Fosso delle Tre Fontane, intorno al quale esiste un doppio vincolo: idraulico, sul quale abbiamo già vinto, e paesaggistico. A luglio 2014, il Gip di Roma ha disposto il sequestro preventivo dell’area, già sottoposta a sequestro probatorio dalla polizia giudiziaria di Roma Capitale, per consentire il ripristino del Fosso. La legge dice, oltre tutto, che si deve costruire a 150 metri dai corsi d’acqua”.
Ma come sempre, quando ci sono di mezzo carte e pareri (e soprattutto cemento), la soluzione non è semplice. La giunta regionale del Lazio, su sollecitazione del Consorzio, ha approvato una delibera che toglie il vincolo esistente al Fosso delle Tre Fontane. Contro la giunta Zingaretti, si è espresso per ben due volte (l’ultima, a dicembre 2014) il ministero per i Beni culturali: “Si sottolinea – ha scritto
– che la rettifica deliberata dalla Regione è motivata su un dichiarato errore di graficizzazione. Si conferma la rilevanza paesaggistica del corso d’acqua”. Anche l’Autorità di bacino del Tevere richiede che il Fosso venga “tutelato e valorizzato”. Come se non bastasse, la Procura di Roma sta indagando per capire se il re-interro del Fosso sia avvenuto attraverso “false” autorizzazioni e – scrive il Gip – il Corpo forestale ritiene il cantiere “‘abusivo’ poiché la convenzione, e con essa i progetti delle opere di urbanizzazione ed edificazione sono stati adottati su un presupposto falso, quale la dichiarazione di tombinamento del fosso”.
“C’È UN’ALTRA anomalia, che se non fosse tragica sarebbe addirittura ridicola – prosegue Catarci –: due estati fa i sei antichi casali presenti sull’area della lottizzazione hanno deciso di suicidarsi tutti insieme. Sono crollati, si sono auto-demoliti, così ci è stato detto. Esiste, però, un vincolo della Soprintendenza per cui si può costruire a 50 metri dalle pre-esistenze”.
Che sarà mai, sostiene Barbara Mezzaroma, che in una lettera alla cittadinanza parla di “argomentazioni pretestuose e prive di fondamento”. Quisquilie, insomma. E, se proprio volete ammirare i resti antichi, potete sempre fare un buco nel giardino di casa (nostra).
il Fatto 11.3.15
Sardegna, cubature sulla riva
Oggi in Regione la proposta Pd
Si potrà edificare a meno di 300 metri dal mare
di Maddalena Brunetti
Cagliari Non è un proconsole berlusconiano, ma un governatore renziano a riportare l’incubo del cemento sulle coste della Sardegna. Nuove cubature potranno sorgere anche nei primi – finora inviolabili – 300 metri dal mare, dove non potranno vedere la luce altri posti letto, ma nuovi servizi sì. E anche vecchi progetti, congelati nel 2006 dal rigoroso Piano paesistico regionale (Ppr) dell’allora governatore Renato Soru, potrebbero tornare validi. Lo spettro delle speculazioni edilizie sulla costa sembra materializzarsi nella proposta di legge della giunta di centrosinistra guidata dal renziano Francesco Pigliaru che oggi sarà discussa dal consiglio regionale. La norma cancellerà il vecchio “piano casa” targato centrodestra, anche se gli ambientalisti sono già sulle barricate: “Il centrosinistra sta facendo peggio di Ugo Cappellacci”, il governatore berlusconiano sconfitto da Pigliaru un anno fa.
QUELLA per i litorali non è l’unica minaccia contenuta nel testo di legge: le betoniere potrebbero tornare a farsi largo nei centri storici, anche questi blindati da Soru – patron di Tiscali, attuale segretario regionale del Pd ed europarlamentare. La discussione su – come vuole la dicitura esatta – “Norme per il miglioramento del patrimonio edilizio e per la semplificazione e il riordino di disposizioni in materia urbanistica ed edilizia” verrà avviata oggi. La prima versione del testo era stata varata dalla giunta il 23 ottobre dell’anno scorso, su proposta dell’assessore regionale agli Enti locali, Cristiano Erriu del Pd.
Dopo il vaglio della commissione Urbanistica del consiglio regionale la norma è stata modificata, ma la sostanza non cambia e lascia molti scontenti. Se nelle dichiarazioni l’obiettivo era – come si legge nella relazione – una regolamentazione improntata alla certezza delle norme, il contenimento del consumo del territorio e la riqualificazione del patrimonio esistente, il risultato sembra diverso. Con la minoranza di centrodestra che mostra il pollice verso (voleva un maggiore impulso al settore) e parte del Pd che storce il naso per il rischio di tradimento al Ppr. Così gli emendamenti, anche amici, sono dietro l’angolo. E, come sempre in Sardegna quando si parla di urbanistica e cubature, gli animi sono già infuocati.
MENTRE Pigliaru, professore di economia, cita l’edilizia tra i motori della sua ricetta keynesiana per far uscire l’economia dell’isola da una crisi nerissima, gli ambientalisti lo accusano: “Il consiglio regionale della Sardegna si appresta a esaminare una proposta di legge che fa da coperchio alla più retriva speculazione immobiliare. Un salto indietro di 30 anni”, è l’attacco di Stefano Deliperi, leader delle associazioni Gruppo di intervento giuridico e Amici della Terra. Il cavallo di Troia per il grande ritorno del cemento nella fascia ultra tutelata dei 300 metri si chiama turismo. In nome dello sviluppo di quella che dovrebbe essere la maggiore industria sarda saranno permessi ampliamenti del 25 per cento di volumetria per le attività esistenti, anche a ridosso del mare: il tabù dell’intangibilità della battigia potrebbe dunque cadere. Il perché lo spiega un esponente del Pd, Antonio Solinas, relatore di maggioranza: “Si è ritenuto meritevole prevedere incrementi volumetrici maggiori, a condizione che tali incrementi diversifichino e riqualifichino le dotazioni e i servizi delle strutture ricettive al fine di promuovere la destagionalizzazione dell’offerta turistica”. Mentre ci si interroga sull’esistenza del cemento destagionalizzante, sul punto sono arrivate anche le critiche di segno opposto del centrodestra che non condivide il divieto, previsto dalla legge, di creare nuovi posti letto. Si fa invece notare il silenzio dell’ala del Pd legata a Soru, che tace anche sulla violazione di un caposaldo del suo piano paesistico regionale, l’intangibilità dei centri storici, finora vincolati. La nuova normativa consentirebbe incrementi volumetrici fino al venti per cento, anche se subordinati a un apposito piano particolareggiato delegato al Comune.
Il punto che più agita gli animi e su cui le associazioni ambientaliste vanno giù dure è quello delle cementificazioni zombie: “Pare un testo che punta a resuscitare i progetti edilizi morti e sepolti dal Ppr, e a render permanente la disciplina permissiva che era provvisoria nel pessimo piano del 2009 di Cappellacci”. Le lottizzazioni finora paralizzate sarebbero rimesse in corsa da norme transitorie, che consentono il completamento degli interventi già autorizzati prima dell’intervento anti-cemento di Soru: Arzachena, Costa Smeralda e Villasimius sono le tre zone a maggior rischio.
il Fatto 11.3.15
Rima Karaki
“Ho zittito lo sceicco perché offendeva tutti gli esseri umani”
La giornalista libanese diventata una star nel web dopo aver tenuto testa all’ultra-islamico egiziano
di Roberta Zunini
Il tono di voce lieve e umile di Rima Karaki è quello di una persona che, seppur abituata a parlare in pubblico e davanti alle telecamere, non ama i protagonismi. Ma, suo malgrado, da quando, cinque giorni fa, ha chiuso il collegamento video con l'avvocato e sceicco islamista Al-Seba'i durante il programma che conduce sulla tv libanese Al Jadeed, è diventata una sorta di eroina nota ormai in tutto il mondo. Specialmente per le donne. Più di 5 milioni di utenti internet hanno visto su Youtube la registrazione del duello verbale tra lagiornalista, nonché docente universitaria libanese, e il barbuto egiziano “esperto” di Islam che in un cablo rivelato da Wikileaks emerge come un estremista condannato in contumacia nel suo paese a causa della sua vicinanza al terrorismo islamico e al mondo sunnita integralista.
ORA L'UOMO VIVE a Londra, dove ha ottenuto lo status di rifugiato politico. “Ho già dato un'intervista a un giornale inglese, non vorrei tornare ancora sull'argomento”, dice la signora Karaki al Fatto. “Non voglio continuare ad alimentare la diatriba con il dottor Al-Seba'i perché non mi interessa lui, ma quello che rappresenta, cioè l'intolleranza degli integralisti nei confronti delle donne. Ho deciso di tagliare il collegamento quando mi ha mancato di rispetto dicendomi di stare zitta e in seguito quando mi ha accusata di essere una donna arrogante, non scelta da lui per farsi intervistare. Questa persona mi ha mancato di rispetto. Non mi sono offesa perché la pensiamo diversamente sulla religione o sul ruolo delle donne. Ho semplicemente voluto rivendicare che ho una dignità come persona e come professionista”. Quando le diciamo che abbiamo apprezzato la sua compostezza nel rispondere agli insulti ma anche la sua fermezza, ci ringrazia con un soffio di voce. Non è impaurita però Rima, vuole solo tornare a fare il lavoro che la appassiona e “che mi dà l'opportunità di dimostrare che le donne libanesi sono indipendenti e preparate”. Rima dice di provare rispetto per il velo, ma di non indossarlo. Quando però è iniziata la trasmissione, i suoi lunghi capelli erano coperti. Nell'intervista al britannico Guardian, ha spiegato che l'aveva indossato perché ne aveva fatta espressa richiesta il suo ospite. Il quale, via twitter, il giorno dopo lo “scandalo” aveva scritto di esigere le scuse del canale libanese: “Sono stati parziali, hanno cercato di dipingermi come un fondamentalista e un amico del leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri. Come se l'amicizia del dottor Zawahiri fosse un insulto. Ma io sono orgoglioso e ogni musulmano è fiero di esserlo”.
LO SCEICCO rifugiato nel Regno Unito ha quindi sottolineato che “quando la donna mi ha interrotto, era come se fosse posseduta da un demone e delirasse”. Chi ha visto la registrazione non può essere d'accordo perché la conduttrice non ha mai parlato di legami tra l’ospite e il leader attuale di Al Qaeda.
“L'ho interrotto perché avevamo poco tempo e lui stava facendo un excursus storico che non rispondeva alla mia domanda - ha spiegato la giornalista - e ho chiuso il collegamento con lui perché è stato maleducato nei miei confronti. Mi sarei odiata se gli avessi permesso di continuare”.
Repubblica 11.3.15
Dall’archeofascismo al neofascismo il marketing nazionalista della Le Pen
Le nuove destre di Front National e Lega hanno il potere di disorientare il dibattito politico deformando la realtà, ponendo le domande sbagliate, mettendo un marchio sopra ogni paura, dalla crisi economica all’immigrazione. Questo continuo “rebrand” è il segreto del loro successo
di Christian Salmon
L’OMBRA di Marine Le Pen aleggia sulle prossime elezioni locali. Il primo ministro Manuel Valls è arrivato ad affermare che il Front National è alle porte del potere. Il presidente della Repubblica parla di strappare a Marine Le Pen i suoi elettori. Sono trent’anni che la classe politica francese agita lo spauracchio frontista per riportare all’ovile gli elettori smarriti. In questo modo Jacques Chirac fu rieletto nel 2002 contro Jean-Marie Le Pen con più dell’80% dei voti in un clima di mobilitazione antifascista artificiale che all’epoca il filosofo Jean Baudrillard etichettò come appartenente all’opera buffa: la lotta del bene contro il male, la difesa dei “valori” contro il vizio spudorato. Da trent’anni ci si allea contro lo spettro del veterofascismo, non sapendo come chiamare e analizzare il neofascismo marinista, una costruzione politica originale che comincia a ispirare operazioni simili in altre parti d’Europa, come il “rebranding” politico della Lega Nord per opera di Matteo Salvini, che Repubblica ha recentemente chiamato “fascioleghismo”.
Che cos’è oggi un’operazione di rebranding politico? L’esperienza francese può dare qualche indizio per interpretarne altre.
Pierre Poujade diceva di Jean-Marie Le Pen, che fece eleggere deputato nel 1956 sotto l’etichetta del movimento per la difesa di artigiani e commercianti (UDCA): «Le Pen è la bandiera francese sul registratore di cassa». Di fatto, fin dalle origini, la piccola impresa familiare “Le Pen” ha prosperato rivestendo con la bandiera francese le cause più diverse e la loro clientela, i “registratori di cassa” elettorali. Salito opportunamente sul “treno poujadista” che gli aprì le porte del Parlamento sul finire della Quarta Repubblica, Le Pen si fece difensore di commercianti e artigiani. Poi, quando De Gaulle tornò al potere e l’Algeria ottenne l’indipendenza, sposò la causa dei perdenti della decolonizzazione, i rimpatriati dell’Africa del Nord la cui frustrazione fu canalizzata sotto forma di razzismo contro gli immigrati, vero vivaio del Front National, quindi, sfruttando a proprio favore il vento della rivoluzione neoliberista all’inizio degli anni ‘80, cercò di diventare il Reagan francese nel momento in cui la sinistra saliva al potere, riciclando certe parole d’ordine del breviario neoliberista come il “Buy american” o “l’America, o la ami o te ne vai” e le storielle alla Reagan sulla “Welfare Queen”, la “Regina assistenza” che si era comprata una Cadillac con il sussidio di disoccupazione...
Dall’inizio degli anni ’80 il Front National si è costruito aggregando le clientele successive che le crisi politiche, economiche e sociali gli hanno servito su un piatto d’argento. A ogni tappa i suoi perdenti: prima la “piccola gente” del poujadismo contro i “grandi”, il fisco, i notabili e gli intellettuali, poi è stato il turno dei perdenti della colonizzazione, i rimpatriati dell’Africa del Nord che forniranno i battaglioni elettorali del Front National nell’attesa che le crisi economiche e finanziarie che si sono succedute negli ultimi trent’anni andassero a gonfiare le file dei perdenti della globalizzazione.
L’abilità del Front National consiste da sempre nell’offrire a tutti i suoi perdenti non un programma politico, che potrebbe migliorare la loro situazione, bensì dei capri espiatori comodi per appagare la loro sete di rivalsa. Da trent’anni il Front National ricicla le frustrazioni in schede elettorali. Mette un marchio alle paure. È un franchising, un marchio depositato che “fissa” sotto un’etichetta comune (la bandiera nazionale) gli elettorati volubili, le cause perse: dalle più antiche, nate dalle guerre coloniali e dall’anticomunismo, alle più recenti, contro le élite globali; dalle più fuori moda alle più in voga che ispirano lo storytelling di questo Front National new look. Da Maurras all’Algeria francese, dal fascismo tra le due guerre al vecchio fondo pétainista, dal neoliberismo reaganiano al “sovranismo” antieuropeo. Il Front National è il partito della protezione nazionale che promette al contempo il “ritorno a casa” del franco e la mobilitazione patriottica contro gli invasori. Qualunque cosa si muova!
Marine Le Pen può cacciare di frodo a suo piacimento nelle riserve della sinistra e in quelle della destra, prendendo a prestito dalla sinistra la critica della globalizzazione neoliberista e dalla destra neoliberista la denuncia degli immigrati profittatori, dei Rom senza fede e senza legge, di quelli che gabbano lo stato assistenziale. Lungi dal combattere questi argomenti, la sinistra li ha convalidati dopo le cosiddette “giuste domande” poste sull’immigrazione dal Front National negli anni ’80 fino al programma di “raddrizzamento nazionale” tuttora difeso dalla “sinistra popolare”, senza dimenticare la partizione tricolore strombazzata dalla destra e dalla sinistra sul ritornello del “non lasciamo al Fronte nazionale il monopolio dell’identità, della Nazione, della sicurezza e dell’immigrazione”. La xenofobia del Front National, quindi, più che un razzismo congenito che si dovrebbe combattere in nome dei valori repubblicani, è un prisma deformante che dà una falsa immagine della società, delle sue disuguaglianze e delle sue ingiustizie. Il Front National non ha mai posto le domande giuste. Al contrario, è il suo potere di disorientamento e di deviazione che da trent’anni gli garantisce il successo. Volge male le domande che si presentano e alle quali destra e sin istra non trovano ris poste. Getta sul dibattito pubblico una specie di sortilegio che condanna destra e sinistra al ruolo di gregari e di amplificatori del grande consenso nazional-securitario in via di costituzione. Relegato ai margini del sistema elettorale, il “diavolo” perseguita la coscienza democratica. È il brutto sogno della società francese traumatizzata dalla batosta del 1940. È la coscienza sporca del “pétainismo” e del collaborazionismo. È la “vergogna” della tortura in Algeria e della fama che gli è sopravvissuta. È l’arto fantasma dell’impero dilaniato dalle guerre d’indipendenza. È il (brutto) sogno francese che agita la notte della democrazia con il suo seguito di simboli e di emblemi: vestigia di vecchie lotte ideologiche del secolo trascorso, caschi coloniali, croci celtiche colorate di bianco rosso e blu, statue di Giovanna d’Arco... e il suo popolo di spettri: i vinti della storia nazionale che gridano vendetta, reduci dell’Algeria francese, cattolici tradizionalisti, nazionalisti rivoluzionari o monarchici, alcuni riapparsi nelle manifestazioni contro le nozze gay.
Altrimenti la longevità del Front National non si spiega. È “l’inconscio collettivo” che, invece di essere analizzato, si applica e si esprime nel fenomeno lepenista quale si manifesta attraverso certi giochi di parole, calembour che non sono semplici sviste o errori che la ragazza potrebbe correggere per guadagnarsi il diritto di entrare nella realtà politica, vale a dire “nel sistema”. Sono invece il marchio di un fenomeno politico che si radica nell’inconscio collettivo, infatti, proprio come l’inconscio, anche il lepenismo è strutturato come un linguaggio. Le sue battaglie, il Front National non le combatte più per le strade, ma sui media e sul significato delle parole: sono “battaglie semantiche”, dove la posta in gioco è il controllo dell’agenda mediatica, l’inquadratura e la gestione di quello che gli anglosassoni chiamano la conversazione nazionale.
Marine Le Pen ha spinto l’ideologia della “rivoluzione nazionale” nell’era del marketing politico. Capisce d’istinto i codici del sampling ideologico. Da JP Chevènement alla Nouvelle droite non c’è che un passo e lei non esita a citare Karl Marx o Bertolt Brecht, Victor Schoelcher, George Orwell, Serge Halimi di Le Monde diplomatique o perfino il Manifesto degli economisti atterriti. Il Rassemblement bleu Marine è un partito camaleontico, capace di adattarsi a tutte le frustrazioni e di captare tutte le pulsioni in una logica di marketing, perché le adesioni politiche non si ottengono più sulle note delle ideologie e delle convinzioni ma su quelle del desiderio e delle attenzioni. «Appartengo alla generazione Disney», confessava un tempo suo padre. La figlia è della generazione Madonna, la sua unica vera rivale sullo scacchiere della notorietà (la stessa Madonna non si è sbagliata, usandola come bersaglio durante il suo ultimo concerto a Parigi...). All’epoca della “Cool Britannia” di Tony Blair, Kate Moss si era fatta fotografare avvolta nella Union Jack per incarnare, sotto le insegne del vecchio marchio Burberry, la trasformazione della vecchia Inghilterra in un paese giovane e cool. Marine Le Pen agisce allo stesso modo ma avvolgendo nella bandiera francese le frustrazioni nazionali. Probabilmente è questa la chiave del suo irresistibile successo. ( Traduzione di Elda Volterrani)
Repubblica 11.3.15
Il partito sotto inchiesta a Strasburgo
BRUXELLES Il partito di Marine Le Pen finisce nel mirino della magistratura europea per una frode sugli stipendi dei suoi assistenti al Parlamento di Strasburgo. Una storia che potrebbe danneggiare il Front National a due settimane dalle amministrative francesi, dove la leader della destra — a Strasburgo alleata della Lega di Matteo Salvini — aspira a confermare il risultato ottenuto alle europee. Sotto inchiesta ci sono venti assistenti del gruppo del Front National pagati con i soldi dell’eurocamera ma di fatto funzionari di partito. Alcuni di loro sarebbero segretari personali della leader del movimento e del vecchio fondatore, il padre Jean-Marie Le Pen. Marine Le Pen ha reagito parlando di «manipolazione politica indegna in vista delle imminenti elezioni amministrative in Francia» e ha accusato il presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico Martin Schulz. (A. D’A.)
Corriere 11.3.15
Noi, ragazze del campo-prigione
Nella città dei profughi in Giordania, dove la gente soffre e i bambini ridono, tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull’Isis
di Sara Gandolfi
Shatha alza il mento, lo sguardo perso in qualche infinito lassù. Sopra i libri un po’ stinti che le ha dato il governo giordano, sopra le ciabatte di due misure più corte che lasciano scoperto il tallone, oltre il limbo di polvere e fango in cui vive. «Voglio fare il soldato». Non sei stanca di guerra? No, mi piace. Una risata e vola via, con le amiche che sognano, solo, di diventare dottore e avvocato. Neanche il tempo di chiederle contro chi o per cosa combatterà.
Dalla scuola modello del campo, regalo del Qatar, escono teenager e bambine; nel pomeriggio tocca ai maschi. Le alunne si rincorrono, sfiorando i camion che passano con i carichi d’acqua per le cisterne. A Zaatari, uno dei campi profughi più grandi al mondo, non ti aspetti di vedere così tanti sorrisi.
Domenica saranno quattro anni da quando è scoppiata la rivolta a Dara’a, in Siria, l’11 marzo 2011. Da Zaatari, con il fossato di cinta e i tank militari all’ingresso, molti se ne sono andati. Sono usciti tentando la fortuna in case d’affitto – l’80% degli oltre 600.000 profughi in Giordania vive di stenti nelle «host communities» – o pagando a caro prezzo la traversata del Mediterraneo. Altri, alla spicciolata, stanno tornando in Siria, perché non sopportano più l’esilio o per combattere. Ne restano 85.000, imprigionati nel limbo. E Zaatari ha sbarrato le porte.
Gli ultimi arrivati — pochi, le frontiere sono di fatto chiuse da tempo — finiscono nel nuovo campo di Azraq, in mezzo al deserto. E chi è rimasto qui non può più uscire se non con permessi giornalieri difficili da conquistare. Perché i siriani, in Giordania, non possono lavorare («il Paese ha già troppi disoccupati» spiegano i funzionari ad Amman) ed è pure meglio che non si facciano vedere tanto in giro.
«Io non voglio restare» assicura Muhammad, 34 anni, che s’è appena trasferito in una delle nuovissime case-container del campo, con tanto di toilette inserita. «Possono anche metterci in un castello ma non sarà mai casa nostra». Viene da Al Tadamu, quello che era un quartiere elegante della periferia sud di Damasco ed ora è solo macerie. «Assad ha bombardato tutto, non ho potuto far altro che andarmene, con i miei due bimbi e la moglie». Lei non parla né si fa fotografare. Ci guarda andare via in silenzio, dalla soglia di quella casa di lamiera, lo sguardo implorante.
Poco più in là, ci sono i bagni comuni costruiti dall’organizzazione internazionale non governativa Oxfam. Da una parte quelli per gli uomini, dall’altra quelli per le donne. Quattordici latrine per 55 famiglie. E pure le docce, ma quelle sono sempre vuote: i mariti non si fidano. Paura delle violenze improvvise, che non sono poi così rare nel campo, ma non solo. «In Siria avevano il bagno in casa, l’acqua corrente, la tv satellitare, il wifi. Difficile per loro abituarsi alla vita da profugo» spiega Andy Bosco, responsabile Oxfam al campo. «Si attaccavano alle tubature comuni e portavano l’acqua ai container. Ora costruiremo una rete idrica capillare. Costerà 12 milioni di dollari. Sul lungo periodo meno dei camion cisterna». Le ong ormai lo hanno capito: la crisi non sarà breve, il campo è già una città stabile che ha bisogno di infrastrutture.
Città prigione, dove la gente soffre e i bambini ridono, dove le «abitazioni» messe a disposizione dall’Unhcr si rivendono e passano di mano secondo un mercato immobiliare consolidato, 100 dinari le tende, pari a 130 euro, fino a 250 i container. Inferno che funziona come un orologio svizzero, grazie ai capitribù siriani, gli Abou, che garantiscono la pace nei dodici distretti del campo. Dove tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull’Isis.
Circolano troppi uomini giovani, nullafacenti e dalle facce scure. E molte donne, spesso sole, a volte maltrattate perché «quando c’è solo tempo libero e noia, la violenza aumenta», avverte la responsabile dell’oasi di UnWomen. E poi ci sono i ragazzi. Più di un profugo su due ha meno di diciassette anni. Selma ne ha 13 e oggi non è andata a scuola. Mamma l’ha spedita a fare la spesa al magazzino del World Food Programme, armata del voucher per il cibo, 20 dinari a testa al mese. Spalanca gli occhi blu e apre il sacchetto di plastica, fegatini, formaggio, latte, 7 dinari. Poi scappa via. L’ordine è non stare in giro troppo, da sola. «Le ragazze sono spesso vittime di molestie, molti genitori non le mandano neppure a scuola per paura, altri le sposano appena possono» dice la preside di una delle sei scuole gestite dall’Unicef con i fondi dell’Unione europea.
Alle elementari si accalcano in 100 per aula, poi via via il numero cala. Al dodicesimo anno, quello del Tawjihi , la maturità, non sono più di trenta. Le ragazze portano il velo, l’insegnante di Islamic studies il niqab che lascia scoperti solo gli occhi. Riham ha 16 anni, è una delle allieve più promettenti. «Sono arrivata qui da Damasco tre anni fa, con la mamma e i fratelli. Papà è rimasto in Siria. Il mio mondo è tutto cambiato».Vuoi continuare? « Akeed…Taba’an , certo! Voglio finire le superiori e poi studiare informatica. Ma l’università costa, ci sono pochissime borse di studio». Ti manca la Siria? «Là c’era il verde, qua è solo deserto».
I tre sciuscià con la sigaretta in bocca non sono in classe. Mohammed, Ayed, Yusef non fanno trent’anni in tre, «in Siria ci andavamo, ma qui...». Si arrabattano a tirar su qualche soldo, dove e come possono. Gran parte delle famiglie di Zaatari dipende da quello che racimolano i figli. Se la polizia li piglia a lavorare in nero, dentro o fuori dal campo, loro in fondo non rischiano molto. Naela e Nagam, 6 e 7 anni, studiano al mattino, lavorano al pomeriggio. Vendono lunghi vestiti neri bordati d’oro in un negozio di Champs Elisée. È la lunga strada di fango che taglia Zaatari in due, dall’entrata dove pascolano le pecore alla fine del distretto 12. È il bazar all’aperto che vende cibo, abiti, utensili per la casa, canarini in gabbia, il miglior shawarma (o kebab) nel raggio di chilometri e un arcobaleno di altra mercanzia. Sono oltre 2500 i negozi a Zaatari, un giro d’affari da 10 milioni al mese.
C’è pure la «boutique» di intimo. Vende baby doll rosso fuoco, giarrettiere, mutandine velate col fiocco. Il pezzo più osé, made in China, costa 6 dinari, «ma fuori lo paghi 15». Le promesse spose qui fanno incetta di tutto quello che servirà, poi finiscono in uno dei tanti coiffeur-container del campo. Come il Sirian Princess di So’ad che prende 7 dinari per taglio e meche . Alcune spose, annuisce, non arrivano ai tredici anni.
Nelle campagne siriane è normale ma qui i matrimoni precoci si sono moltiplicati, per la dote che i genitori incassano (fino a 1000 dinari) e perché pensano che le figlie siano più al sicuro. Lo ammette fra i denti l’imam del distretto 8, 53 anni e nove figli alle spalle. Celebra 15-20 matrimoni a settimana, «ma nessun minorenne, sono altri gli imam che li autorizzano». Gli sfugge un nome: Abu Fadi. Basta il suo sì per sposare una bambina. Poi il giudice giordano, però, quei matrimoni non li convalida. Così la sposa è una non sposa e i suoi figli saranno illegittimi.
Samar ha 22 anni, viene da Al Ghouta, il sobborgo di Damasco finito sotto attacco chimico. «Il mio fidanzato era un soldato. Ha disertato, ci siamo sposati nel quartiere assediato, ho partorito mentre bombardavano. Io sono fuggita in auto. Lui, che era ricercato, per i campi. Ma era un campo di mine ed è saltato per aria». Samar non ha potuto registrare il matrimonio, la sua bambina, Rimas, che ha poco più di un anno, risulta figlia di suo fratello. Ti risposerai? «No, sarebbe un tradimento. Lo amavo».
Nella maternità del distretto 5 nascono 15-20 bambini al giorno, in tre container affiancati. Il primo è la sala delle doglie, sei letti di dolore. Il secondo ha due poltrone affiancate per il parto. Nel terzo le puerpere si fermano cinque-sei ore al massimo. Quasi una catena di montaggio, ma animata dalla passione di ostetriche e dottoresse, e dai sorrisi stanchi delle neomamme. Come quello di Manar, 28 anni, laureanda in legge, che ha mollato gli studi e Damasco per fuggire con il marito. Parla un inglese perfetto e abbraccia forte al seno la sua piccola. «Alla mia Rand auguro una vita felice, lontano da qui» sussurra.
Nel cortile incrociamo Um Yassin e Um Haitham, velate dalla testa ai piedi, con gli occhi che ridono. La prima racconta: «Siamo arrivate due anni fa dal villaggio di Inkhel Dara. Io ho quattro figli, ma a mio marito non bastava. Ha sposato altre tre mogli, poi ha divorziato da me per sposarne una quarta. Eccola qui, è lei (e indica Um Haitham). Mia nuora ha appena partorito mio nipote, Hussein. Ma non può registrarlo, aiutateci». Perché non può? «Ha quasi 15 anni...».
La Stampa 11.3.15
Quei saccheggi dell’Occidente ora sono una salvezza
Nei nostri musei le testimonianze di antiche civiltà oggi minacciate dai picconi del Califfato: un furto provvidenziale, non è più tempo di rimorsi
di Domenico Quirico
Come l’essenziale tremendo di questo pensiero totalitario è di credere non a un solo dio ma a un solo dio dell’islam, così la tolleranza non può che essere data una volta per sempre, per sempre identica a sé stessa.
Di fronte all’avanzare del blasfemo piccone del miliziano islamista è arrivato, forse, il momento di smontare uno dei recenti rimorsi dell’Occidente, l’aver cioè saccheggiato le antiche civiltà per trasformarne testimonianze di pietra, di marmo, di sabbia in musei, i nostri musei. È vero: smontarono altari e templi, imballarono obelischi e statue come portavano via, nei ventri delle navi, oro e minerali.
Si giustificarono: gli eredi di quelle straordinarie civiltà sono gente miserabile coperta di stracci, dominata da pascià e emiri indolenti e osceni, indegna di custodire quei tesori, che risultano loro indifferenti, o al massimo lucroso bottino per ladri di tombe. Arroganza venata di razzismo, dunque.
Ma senza quei virtuosi saccheggi, quelli sì provvidenziali e salvifici, che rimarrebbe oggi di queste creazioni dell’uomo? L’avanzata del Califfato, la violenza iconoclasta di un totalitarismo religioso che nega la molteplicità delle Storie sarà il problema del mondo per i prossimi venti, trent’anni: una presenza cieca e ostacolante, un processo di retrocessione del mondo moderno a forme sacrali primitive, la regressione quasi a uno strato fossile. E lo sarà in luoghi - il Vicino Oriente, la Via della Seta, l’Africa mediterranea - che sono state la culla delle civiltà. Immaginate i bulldozer del Califfato avanzare, presto o tardi, dal Sinai all’Egitto, muovere all’assalto della sfinge, idolo insopportabile come i lamassu che invano dovevano proteggere le città sul Tigri; o smontare con il martello pneumatico i volti dei giganti di Abu Simbel, appena salvati da un nuovo diluvio, come i talebani fratelli nell’oscurantismo bigotto, hanno scalpellato altri giganti a Bamiyan.
Un nuovo Medioevo
Prepariamoci, allora, come per un nuovo Medioevo, a raccoglierci attorno a ciò che noi abbiamo messo al sicuro, a riunire i frammenti ancora sparsi o che riusciremo a sottrarre agli Assassini: degli uomini per loro presunta impurità, e del Passato anch’esso impuro perché Altro. Un nuovo Medioevo avanza in questa straziata e convulsa parte del mondo, che uscirà dalla nostra storia perché non più visibile e raccontabile, arriveranno solo gli echi di massacri e di devastazioni come da terre in preda a dei feroci e implacabili. I musei dell’Occidente saranno i chiostri di un nuovo, miracoloso archivio del Tempo, con l’amarezza di non aver salvato di più.
Il linguaggio delle rovine
A Ninive, Hatra, Nimrud gli uomini che le scoprirono attendevano di trovare nient’altro che l’arte e la morte. I semiti hanno lavorato nell’effimero, i loro edifici nati dalla polvere spesso ci sono tornati. Le civiltà si sono appiattite, abbassate le une sulle altre. A Ur le nove città sovrapposte abitate da tante generazioni occupano solo novanta centimetri di taglio verticale. Eppure gli archeologi alla fine dell’Ottocento (l’ultimo secolo che ha creduto nel progresso dell’uomo come destino e contemporaneamente ha amato il passato) non si rassegnarono.
La terra è gibbosa quasi fosse sollevata da onde fino all’orizzonte. Il cielo, infinitamente puro sotto il freddo della notte, ridiventa di un bianco smagliante nella calura del giorno. Non le avevano ancora completamente liberate dal suolo, le antiche capitali del mondo, e parlavano il grande linguaggio delle rovine. Avevano l’accento delle «pietre del diavolo» e delle montagne sacre: liberate dai badili, le vaste facce consunte di creature alate e di re rianimavano alla luce i luoghi in cui un tempo parlavano gli dei e scacciavano l’immensità informe della sabbia. Il sigillo di tutte le forme che hanno captato una parte di inafferrabile: il segno che il reale è apparenza e non si chiama ancora Dio, linguaggio dell’effimero e della verità dell’eterno e del sacro, quello vero, non quello feroce del dio islamista.
Ogni arte sacra si oppone in fondo alla morte, perché non è una decorazione della propria civiltà ma l’esprime secondo il suo valore supremo. Quei meravigliosi «ladri» occidentali hanno scoperchiato questo mondo sepolto di sabbia e di oblio: i soli realismi che durino, sì, sono quelli dell’oltremondo. Le rovine che univano i templi franati e i palazzi un tempo d’oro e di feroci glorie fuggenti si trasformarono a poco a poco in siti archeologici, in Siria, in Iraq. Non vedremo più le sfingi e i leoni alati affondati fino al collo nel deserto né quelle corrose a tal punto dal vento delle sabbie che la loro testa assomiglia al ceppo dei vecchi ulivi… Resterà solo il confuso labirinto aperto dai saccheggiatori islamici del pazzo Califfo. La loro via è fatta: briciole, scaglie, sabbia. Il destino non ha cessato di rimescolare con i suoi gesti da cieco il dominio degli antichi re di Assiria.
Dall’Assiria all’Isis
Eppure, strano paradosso, l’Assiria che i forsennati di Daesh cerca meticolosamente di distruggere, per certi versi loro assomiglia. È il Vicino Oriente «balcanizzato» dopo la bufera dei popoli del mare, una folla di piccoli Stati litigiosi che occupano abusivamente la scena della Storia e parlano a voce troppo alta. L’Assiria può essere tranquilla, aperta come è a tutti i venti, solo minacciando gli altri, terrorizzandoli a sua volta. Per esistere, non diversamente dal Califfato, è condannata a sterminare i vinti, a opprimerli, a deportare intere popolazioni, a condurre guerre senza pietà. I suoi sovrani amavano la ferocia delle decapitazioni di massa, come il Califfo invisibile. I rilievi dei palazzi di Ninive, di Nimrud e Khorsabad raccontavano in modo eloquente queste lugubri storie che, in fondo, assomigliano alla loro.
L’idea di estrarre dalla sabbia il passato per conservarlo e rileggerlo nei suoi oggetti è un’idea occidentale: come la democrazia e i diritti dell’individuo. Non può appartenere all’islam radicale dei nuovi califfi. Quello che li connette e li cementa infatti è la storia, non il sangue e nemmeno il colore, la vicenda storica intessuta da una speciale confessione religiosa che offre un forte status comune, più forte e sentito che in qualsiasi altra fede o religione. Dalla retrocessione nel passato remoto questo islam forma a sé stesso una faccia indelebile e che deve sempre più pietrificarsi. Perché accetti le altre Storie dovrebbe rinunciare a se stesso come islam, rinunciare alla indistinzione tra sacro e profano, Stato e religione.
La Stampa 11.3.15
Ma a Mosul gli islamisti sono stati beffati
Gran parte dei pezzi erano a Baghdad per restauri quelli asportati saranno rivenduti in Europa e Usa
di Maurizio Molinari
A pochi giorni dallo scempio di antichità nel museo di Mosul, nel Nord dell’Iraq, sono alcuni archeologi arabi a ricostruire nel dettaglio ciò che sarebbe avvenuto da parte dei miliziani del Califfo Abu Bark al-Baghdadi. Anzitutto, dei 2200 oggetti contenuti nel museo circa 1700 erano stati trasferiti a Baghdad mesi fa e dunque sono scampati dalla razzia. Si tratta di collezioni antichissime di oggetti di piccole dimensioni, che ora sono nelle mani delle autorità irachene. Lo spostamento a Baghdad è stato una coincidenza del tutto casuale, dovuta al bisogno di restauri e ripuliture, e non è possibile sapere se i miliziani di Isis ne fossero a conoscenza.
Fra i circa 500 restanti oggetti d’arte rimasti nel museo, quelli di maggiore valore sono stati portati via da Isis in una mega-operazione di saccheggio con centinaia di uomini e dozzine di mezzi. Li avrebbero trasportati in un luogo segreto che probabilmente è diventato la base da dove gestire il traffico di oggetti d'antichità con la criminalità internazionale.
Gli archeologi iracheni tengono a far sapere, attraverso interviste a media arabi, che la priorità di Isis è stata dunque di «asportare in gran segreto» tutto quanto era possibile portare via, al fine di creare una sorta di «centrale operativa» da dove gestire i traffici illeciti con i grandi collezionisti di America e Unione Europea. Ciò che Isis non ha potuto rimuovere sono state le statue dei grandi idoli alati assiri, e queste sono state distrutte in loco davanti alle telecamere.
I miliziani si sono accaniti in particolare contro le esposizioni allestite nelle sale assira e hatrena mentre a non essere toccate sono state quella islamica e quella preistorica. Anche qui, i movimenti dei «distruttori d’arte» sembrano suggerire l’esistenza di un piano di lungo periodo: conservare quanto più possibile la memoria del passato islamico, ma liberarsi senza esitazione di tutto il resto. È una ricetta politico-culturale che si rispecchia nelle decisioni del Califfo adottate nei confronti dei libri di scuola, perché i miliziani di Isis responsabili dell’«educazione» tolgono da ogni libro di testo - inclusi quelli delle elementari - qualsiasi tipo di riferimento a Siria e Iraq, per dare forma a un «buon musulmano» la cui identità si origina solamente dalla sharia, la legge islamica, e dall’esempio della vita di Maometto.
Repubblica 11.3.15
Musulmani ebrei e cristiani insieme contro l’Is
di Marek Halter
DI’. Musulmano, ebreo, cristiano! È appena iniziato un secolo che André Malraux prevedeva religioso. Pur senza abbandonare del tutto il secolo precedente, i cui ultimi decenni hanno visto compenetrarsi due eventi eccezionali: la fine del comunismo e la comparsa politica dell’Islam. La caduta del muro di Berlino, simbolo della frontiera tra due mondi, ci ha lasciati orfani del nostro principale nemico: il totalitarismo sovietico. Nessuna delle ingiustizie che combattiamo da allora può sostituirlo: chi le compie non si appella all’universale. Se l’uomo non può vivere senza speranza, non può nemmeno “porsi, se non opponendosi”. La Bibbia ci esorta centosessantanove volte a essere vigili. Perché il popolo distruttore, gli amaleciti, questo nemico permanente, assume a ogni generazione un volto nuovo. E ora ecco che, sulle rovine del comunismo, appare l’Islam. Non quello che per alcuni di noi è incarnato da Averroè, traduttore di Aristotele, da Ibn Khaldun, uno dei primi storici, da al-Khwarizmi, padre dell’algebra, o dall’autore delle Mille e una notte, ma quello che ha le fattezze del Jihad, la guerra santa.
Oggi basta accendere la televisione per vedere le immagini dei massacri in Siria, le persecuzioni dei cristiani in Iraq, le atrocità commesse in nome di Allah in Africa e in Asia, la distruzione delle chiese copte in Egitto e, da noi, le aggressioni contro gli ebrei a Parigi o Bruxelles. Il Jihad è su tutte le labbra. È in suo nome che a Timbuctù sono stati distrutti monumenti antichi e bruciati libri. La scrittura, le parole farebbero dunque paura? Ho sempre pensato, fratelli, amici, che la violenza cominci laddove finisce la parola. Voltaire diceva che «sono quasi sempre i furfanti a guidare i fanatici, a mettere il pugnale nelle loro mani». Le immagini e le informazioni che riceviamo fanno paura. E, siccome quegli estremisti non sono fanatici isolati, ma forze politiche e statuali che rivendicano l’appartenenza a una religione di aspirazione universale, l’Islam rischia di assumere, nella pièce in cui si rappresenta il nostro futuro, il ruolo di quel mitico nemico che andiamo inconsciamente cercando dalla caduta del comunismo.
Di’. Fratello, amico, vicino. In casa, al bar, al lavoro, ti domandi chi sono quegli uomini che là, in Iraq, in Siria, in quell’antica Mesopotamia dove la Bibbia situa il paradiso, oggi decapitano i loro simili. Da quale grotta preistorica escono? Cosa vogliono? Sono davvero, come afferma il presidente americano Barack Obama, più pericolosi di Bin Laden? Forse. Bin Laden non aveva un progetto universale. I suoi eredi talebani hanno come scopo la presa del potere a Kabul. Non a New York. Anche se nel 2001 hanno inferto un duro colpo al potere occidentale distruggendo le due torri del World Trade Center, che di quel potere erano il simbolo. In compenso, i jihadisti di Daesh prendono di mira noi, amici, fratelli, coloro che non aderiscono alla loro ideologia. E cosa propongono gli adepti del “grande califfato”? In apparenza un obiettivo generoso: l’uguaglianza per tutti… a patto che ognuno diventi musulmano.
Se il concetto di Islam dei jihadisti è arcaico, i metodi che usano per imporlo sono moderni: padroneggiano i social network e i sistemi informatici, e le migliaia di giovani europei che si uniscono a loro forniscono un aiuto prezioso. Non decapitano le loro vittime a qualsiasi ora. Mirano ai nostri telegiornali. La lotta che conducono non è soltanto militare. È ideologica. Mediatica. E noi, amici, fratelli? Cosa abbiamo da opporre loro? Oltre ai nostri bombardieri? La democrazia. Una bella conquista, ma che non è una concezione del mondo. È un sistema politico che permette a tutte le ideologie di espandersi. A tutte le religioni. Compreso l’Islam. Compreso l’Islam estremo.
Ecco perché, vicini, amici, fratelli, dovete fare blocco. Non lasciarvi trascinare in quella che potrebbe diventare una guerra di religione. È la battaglia dell’intera umanità contro coloro che la minacciano. Per fare blocco, però, bisogna che prima vi riconciliate. A questo proposito, avete sentito il discorso del presidente Obama? Mi ha ricordato quello pronunciato nel 1095 da papa Urbano II a Clermont. Fece appello all’umanità dei principi e dei re affinché s’impegnassero nella lotta contro il “barbaresco” e salvassero i cristiani d’Oriente. Fu la prima crociata. Oh, come sognano, i Jihadisti di Daesh, di riuscire a trasformare i loro crimini commessi in nome dell’Islam in una guerra che opponga tutti i musulmani al resto del mondo!
Credo sia dunque vitale per le democrazie non sbagliare strategia. Combattere i fanatici, sì; i musulmani, no. Tanto più che il miliardo e trecento milioni di musulmani che vivono sotto regimi politici diversi non aderiscono all’ideologia purificatrice propugnata da alcuni. Il buzz scatenato dall’espressione Not in my name (“Non in mio nome”) sui social network lo dimostra. Le decine di milioni di giovani musulmani non la pensano altrimenti e non nutrono un sogno diverso da quello della maggior parte dei giovani di tutto il mondo. Le ragazze di Teheran che vediamo sui nostri teleschermi intente ad ascoltare i discorsi pieni di odio dei loro politici indossano di sicuro, sotto i chador, jeans come le nostre ragazze e, tornate a casa, guardano certamente i programmi di una tv occidentale. È un caso se la polizia islamica in Iran ha iniziato la caccia alle antenne paraboliche che sono spuntate come per miracolo sui tetti delle case, come il bosco di Birnam in una tragedia di Shakespeare?
Eh, sì, amici, fratelli. Felici di aver trovato un nemico a nostra misura, non ci spingiamo oltre nelle nostre riflessioni. La paura e il senso di rivolta che suscitano in noi l’efferatezza degli atti e dei discorsi di alcuni ci inducono a diffidare di tutti i musulmani, compresi i nostri vicini. Li lasceremo in mezzo a una strada dove gli apostoli del Jihad, con il loro lugubre convoglio, sono pronti a raccoglierli? Secondo un rapporto di luglio 2014, ottocento musulmani, nella sola Francia, sono stati reclutati per combattere in Siria o in Iraq. E gli altri? C’è ancora tempo per tendere loro la mano! Per aiutare le democrazie musulmane a organizzarsi.
Questi democratici esistono. Si fanno avanti, e sono loro che i folli di Dio minacciano in primis. Noi possiamo, dobbiamo fornire loro i mezzi per difendersi. L’ex presidente della Repubblica federale tedesca, Richard von Weizsäcker, diceva che non erano stati i fascisti a far cadere la Repubblica di Weimar, ma la mancanza di democratici. Non so se questi democratici fossero allora così poco numerosi; quel che è certo è che sono stati abbandonati dai Paesi democratici. Non siamo noi quelli in guerra con i fanatici islamisti, ma sono i musulmani stessi. E noi dobbiamo sostenere questi ultimi con ogni mezzo. Ora, quando accompagno una delegazione di imam francesi in Vaticano, da papa Francesco, alcune “anime belle”, anziché applaudire, si domandano se quegli imam sono davvero rappresentativi. Quando vanno a Gerusalemme, dove osano dire una preghiera in arabo alla memoria dei sei milioni di ebrei massacrati dai nazisti, li si accusa di tradimento. Chi li accusa, amici, fratelli? I jihadisti? No, i buoni democratici francesi.
Quando i musulmani democratici condannano, in nome dell’Islam, l’assassinio di ebrei, perché ebrei, da parte di fanatici, si scrive che sono venduti a Israele. Strano, questi amici francesi dell’Islam che fanno di tutto per dimostrare che non esistono buoni musulmani. Se si desse il caso, con chi vorreste riconciliarvi, voi? Lo ripeto, i democratici musulmani esistono. Agiscono, parlano, si chiamano Hassen Chalghoumi, imam di Drancy, Tareq Oubrou, imam di Bordeaux, Mohamed Ali Kassim, imam dei comoriani di Marsiglia, Kamel Kabtane, rettore della grande moschea di Lione, o anche Latifa Ibn Ziaten, madre del soldato ucciso dall’islamista Merah a Montauban. E, attorno a loro, sono centinaia, forse migliaia, e sarebbero milioni se noi volessimo amplificare le loro voci.
Non dimenticate, il tempo stringe. Nel nostro mondo ci sono due miliardi di cristiani, un miliardo e trecento milioni di musulmani, ottocento milioni di induisti, quattrocento milioni di buddisti e quattordici milioni di ebrei. Immaginiamo, amici, fratelli, una guerra di religione oggi. Con i mezzi di distruzione in nostro possesso, sarebbe mille volte più tragica della guerra dei Cent’anni che ha, a suo tempo, insanguinato l’Europa. Eh, sì, quando si uccide in nome di Dio, si uccide più allegramente. Che ci si senta assolti in anticipo? Ci sono, nel mondo, uomini e donne pronti a darsi la mano: aiutiamoli adesso, domani sarà troppo tardi. Testo tratto da “ Riconciliatevi! Ebrei Cristiani Musulmani”, Marsilio editori.
(Traduzione di Francesco Bruno)
Corriere 11.3.15
«La Cina pretende dal Vaticano una resa incondizionata»
Il cardinale di Hong Kong Zen Ze-kiun: in Curia non conoscono il regime
di Guido Santevecchi
HONG KONG Ha 83 anni il cardinale emerito di Hong Kong Joseph Zen Ze-kiun, ma all’appuntamento arriva a passo spedito, in anticipo: «Vengo dal carcere, sa io sono anche cappellano dei detenuti». Va subito dritto al punto: i contatti tra governo di Pechino e Santa Sede, che non hanno relazioni diplomatiche dal 1951. Come ha rivelato ieri il Corriere , la Segreteria di Stato ha ricevuto «un rilancio», dopo le aperture del Papa. L’architetto di questa nuova fase è il Segretario di Stato Pietro Parolin. Joseph Zen è contrario: «In Vaticano non capiscono e non ascoltano».
Che cosa non capiscono a Roma?
«In Curia gli italiani non conoscono la dittatura cinese perché non hanno mai provato che cosa è il regime comunista. Avevo sempre avuto fiducia in Parolin, fino a quando non ho saputo che anche lui era a favore di un accordo che in questa fase sarebbe solo una resa incondizionata».
Ma negli ultimi mesi la Cina ha segnalato una nuova disponibilità, si è parlato di un’offerta sul nodo della nomina dei vescovi.
«A Pechino non c’è volontà di dialogo, mi risulta che nei colloqui i loro delegati mettano sul tavolo un documento da firmare e i nostri non abbiano la possibilità e la forza di fare proposte diverse. Vogliamo sacrificare la nomina e la consacrazione dei vescovi per un dialogo fasullo?».
La proposta fatta filtrare dai cinesi sarebbe di dare alla Santa Sede la facoltà di scegliere il vescovo fra due candidati proposti dall’Amministrazione statale per gli affari religiosi di Pechino.
«In Cina ci sono ancora due vescovi in carcere, molto anziani, uno forse è morto dopo anni di detenzione e non lo dicono, lasciano anche la sua famiglia nel dubbio. Parlo del vescovo Shi Enxiang, impri-gionato per la sua fedeltà alla Santa Sede. Avrebbe 93 anni monsignor Shi. A febbraio il capo comunista del suo villaggio è andato a chiedere alla famiglia se avevano ricevuto il corpo, poi altri invece sono venuti a dire che quel funzionario era ubriaco e che del vescovo non si sapeva nulla».
Quindi che cosa si dovrebbe fare?
«Bisognerebbe battere i pugni sul tavolo, rafforzare la nostra Chiesa cattolica e il nostro clero in Cina, perché quando i nostri stanno uniti i funzionari del regime hanno paura, sono terrorizzati dalla prospettiva di avere problemi con i loro superiori, perché ogni capo politico in Cina è al tempo stesso imperatore e schiavo: può schiacciare chi gli sta sotto ma teme chi gli sta sopra».
Ma il dialogo è meglio dello scontro senza sbocchi.
«Quelli che discutono per conto della Curia non sanno nemmeno bene chi sono i rappresentanti cinesi di fronte a loro: uomini del vecchio presidente Jiang Zemin o scelti da Xi Jinping? Non è un fattore secondario, tra le due fazioni a Pechino è in corso una lotta mortale. Comunque i delegati cinesi sono come un grammofono: ripetono sempre la stessa lezione e chiedono di firmare. Ma poi, in Vaticano c’è la Commissione per la Chiesa cattolica in Cina, inutilizzata ormai da più di un anno. È morta? Se non ci dicono niente è mancanza di rispetto».
Ha parlato con il Papa?
«L’ho incontrato per tre quarti d’ora faccia a faccia. Sa come mi ha accolto? “Ah, Zen, quello che combatte con una fionda”. Ha detto cose molto belle e con me ha mostrato fiducia completa. Il Papa non è un ingenuo, in queste condizioni non cederà».
Ma se invece ora il Papa le chiedesse di tacere?
«Risponderei ricordandogli che lui a Buenos Aires diceva messa in piazza, faceva comizi sul marciapiede, era formidabile».
Per non rovinare i nuovi contatti con Pechino il Papa non ha ricevuto il Dalai Lama.
«Gli hanno fatto fare un grosso errore che non serve a niente, dimostra solo paura e i comunisti quando vedono che hai paura ti schiacciano. Invece bisogna incoraggiarli a essere coraggiosi i nostri perseguitati in Cina. Quelli che a Roma hanno l’ansia di riuscire a ogni costo vanno verso un compromesso che è una resa incondizionata, quello che vuole Pechino».
Repubblica 11.3.15
“Mente e bestemmia” la vendetta della Cina contro il Dalai Lama
di Giampaolo Visetti
PECHINO PER i leader cinesi il Dalai Lama resta «un lupo travestito da agnello». Ora la definizione fa però un preciso salto di qualità: Tenzin Gyatso diventa un «blasfemo non reincarnato». Bestemmiatore e umano. Per i buddisti dell’Asia l’effetto è paragonabile a quello che una simile definizione eserciterebbe sui cattolici dell’Europa se si parlasse del Papa.
L’attacco di Pechino contro il premio Nobel per la pace parte dall’Assemblea nazionale del popolo e non arriva in un giorno qualsiasi. Il 10 marzo del 1959, 56 anni fa, il 14° Dalai Lama fu costretto a scappare da Lhasa. La rivolta contro l’invasione maoista del 1950 fallì, il palazzo del Potala fu messo a ferro e fuoco dai cinesi e il giovane leader buddista fu costretto a lasciare il Tibet per sempre. Nel 2008, sempre il 10 marzo, alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino una sommossa dei monaci fu repressa nel sangue. Per le autorità comuniste insomma questo giorno resta una data cruciale.
Il tempo scorre, il Dalai Lama è sulla soglia degli 80 anni e la sua successione diventa un incubo. Davanti ai leader rossi, riuniti nel palazzo affacciato su piazza Tiananmen, il governatore filo-cinese del Tibet ha ufficializzato così l’ultimo tentativo di delegittimazione dell’autorità spirituale buddista. Padma Choling, fedelissimo del presidente Xi Jinping, ha accusato il Dalai Lama di «bestemmiare», adombrando «pesanti dubbi» sul fatto che sia «la reincarnazione del suo predecessore». L’alto funzionario di Pechino ha spiegato che ipotizzare che il prossimo Dalai Lama non possa reincarnarsi sul territorio cinese, come ha fatto Tenzin Gyatso, «è una profanazione del buddismo», possibile solo «a chi non ha origini divine».
Dietro le dispute teologiche si cela uno scontro cruciale e totalmente politico. Da quando il Dalai Lama è riparato in India, insediando a Dharamsala il governo tibetano in esilio, la Cina tenta di assumere il potere di nominare il suo erede, completando così la colonizzazione della regione himalayana. E’ una guerra che coinvolge anche l’Occidente, Usa in testa, combattuta a colpi di designazioni unilaterali, come avviene con la nomina dei vescovi cattolici, ma pure con sequestri di persona e promozioni di monaci. L’ultimo strappo, quattro anni fa: l’amministrazione statale per gli affari religiosi, sorta di ministero che controlla i fedeli delle varie confessioni, approvò la legge che fissa i criteri per una «legittima reincarnazione di Buddha». Gli eredi di Mao, orgogliosamente atei, stabilirono che il dio dei buddisti d’ora in poi non potrà che nascere in Cina, ossia sotto il potere dei funzionari del partito-Stato. Tenzin Gyatso, nel frattempo ritiratosi dalle responsabilità politiche del governo, rispose che al contrario, fino a quando le regioni del Tibet storico saranno sotto il dominio di Pechino, il suo successore non si sarebbe reincarnato sul territorio cinese. E’ la nuova “guerra della reincarnazione”, da cui dipende il destino del Tibet, ma pure quello dello Xinjiang, altra “regione ribelle” a minoranza musulmana, e indirettamente anche quello di Hong Kong e di Taiwan, dove da mesi monta il sentimento anticinese.
Per secoli i baby-pretendenti al trono del Potala hanno corso il rischio di essere assassinati da clan e sette rivali. Nel 1995 il bambino indicato dal Dalai Lama come la reincarnazione dell’undicesimo Panchem Lama, numero due della gerarchia lamaista, è stato rapito e Pechino ha insediato al suo posto il proprio candidato. L’attuale Karmapa Lama - capo di una delle scuole principali del buddismo tibetano - è vivo solo grazie ad una fuga da romanzo dalla Cina verso l’India, nel 2000.
Con l’accusa di blasfemia la leadership cinese tenta dunque oggi l’ultima delegittimazione dell’anziano Dalai Lama, cercando di ridurlo allo stato di un umano che alla morte non può scegliere in chi reincarnarsi. Il timore di Xi Jinping è di dover presto apprendere il nome di un successore individuato da altri all’estero, libero dagli ordini del partito e capace di raccogliere l’immensa eredità morale e d’immagine di Tenzin Gyatso.
In Tibet e in India la tensione è così di nuovo alle stelle. Centinaia di indipendentisti tibetani hanno manifestato ieri davanti all’ambasciata cinese a New Delhi, mentre una madre di tre figli si è data alle fiamme fuori da un monastero del Sichuan. E’ l’autoimmolazione anti-Pechino numero 137, la prima dell’anno. Impossibile invece documentare ciò che accade a Lhasa, da oltre tre anni inaccessibile ai giornalisti stranieri.
Il Sole 11.3.15
E-commerce. Il ministro dell’Industria Zhang attacca le aziende inadempienti nella lotta alla contraffazione
Cina, tolleranza zero sui falsi online
«A rischio i rapporti con i Paesi da cui importiamo prodotti di qualità»
di Rita Fatiguso
PECHINO L’e-commerce in Cina ha sfondato nel 2014 il tetto del 10% sul totale della rete commerciale e viaggia a un ritmo di crescita tra il 30 e il 40% all’anno. Ma non tutto va liscio, le piattaforme online sono un colabrodo, i prodotti falsi impazzano, le richieste di risarcimento da parte di clienti delusi sono cresciute a dismisura così il ministro dell’industria Zhang Mao ha appena lanciato un attacco frontale ai trafficanti di prodotti copiati online e, di conseguenza, a chi li ospita sulle proprie piattaforme e non fa abbastanza per stroncare il fenomeno.
Zhang Mao durante la conferenza stampa che ha tenuto in occasione delle due sessioni del Congresso del Parlamento cinese ha evocato il vero convitato di pietra: Alibaba Group Holding Ltd., il colosso online “inventato” da Jack Ma, un’azienda campione per fatturato ma anche per prodotti copiati. Una realtà che dovrà fare da apripista anche per quanto riguarda la regolamentazione del commercio online.
A gennaio, infatti, si è bruscamente interrotta la luna di miele tra la Cina e il ricco tycoon fresco di quotazione da record a Wall Street: un rapporto di Saic (State administration for industry and commerce), ovvero proprio il ministero dell’Industria dimostrava che meno del 40% dei prodotti venduti su Taobao, il popolare negozio online di Alibaba, era autentico. Il rating di Alibaba inoltre era persino più basso dei diretti competitor. Peraltro l’indagine era stata lanciata prima della quotazione sui listini americani e questo aveva creato non pochi problemi di gestione della fase precedente all’Ipo. Insomma, Alibaba si sarebbe imbellettata in vista dello sbarco in borsa attribuendosi un punteggio migliore nella lotta interna ai prodotti contraffatti.
Un simile stato di cose, secondo il ministro Zhang Mao, «può compromettere non solo la buona fede dei cinesi ma anche i rapporti con i Paesi dai quali la Cina importa prodotti di qualità». L’Europa, e in particolare l’Italia, specie per quanto riguarda la sicurezza dei prodotti alimentari.
Zhang ha proposto di stabilire un nuovo sistema che monitori le aziende dell’e-commerce per verificare se si danno da fare oppure no. Schedando quelle che insistono nel vendere prodotti non autentici. Sbarrando la strada ai furbi. Un pugno di ferro che sembra dettato anche dalle ultime vicende che coinvolgono il colosso di Hangzhou: l’incontro di Jack Ma con i vertici di Saic a fine gennaio è finito in un nulla di fatto, mentre le quotazioni del titolo a New York oscillavano paurosamente. Dall’inizio dell’anno le perdite sono state a due cifre per l’uomo dei record Jack Ma.
Alibaba aveva promesso una stretta collaborazione con le autorità di controllo, inclusa la condivisione dei dati degli utenti con le autorità cinesi solo se relativi alle indagini sul terrorismo o reati simili. Sulla contraffazione ha detto di voler lavorare duramente, almeno 90 milioni di elenchi di prodotti a rischio sono stati banditi dalle piattaforme, 160mila dollari investiti per fermare i venditori scorretti. Ma non è servito a molto, nemmeno il team da duemila persone dedite alla caccia al falso o la denuncia di 400 contraffattori.
Saic insiste sul fatto che Alibaba consente ai suoi clienti, i commercianti, di operare senza le licenze necessarie, di copiare marchi famosi e vendere vino adulterato e borse false. C’è chi ha pescato perfino falsi diplomi venduti online. Il ministero finora non ha adottato misure nei confronti di Alibaba, ma come dimostra l’orientamento emerso dalla conferenza stampa lo Stato cinese non vuol cedere sulla linea della fermezza.
Nel tentativo di recuperare terreno sull’affidabilità del suo business, Alibaba si è rivolto all’autorità di controllo AQSIQ, l’ente responsabile della qualità dei prodotti importati. Si tratta di una strategia legittima, ma completamente diversa da quella suggerita da Zhang Mao: prendendo accordi con AQSIQ alla quale ha promesso la più ampia collaborazione visto che a sua volta dialoga con le dogane, Alibaba scaricherebbe sulle dogane stesse la responsabilità della garanzia dei prodotti di importazione. Che è proprio quello che non vuole ottenere chi ha lanciato la campagna tolleranza zero.
Il Sole 11.3.15
Ripresa e mercati
Atene rilancia e sfida Bruxelles
Varoufakis: il debito non sarà mai ripagato - Tsipras pronto a usare i fondi per le banche
di Vittorio Da Rold
Oggi riprendono i difficili colloqui tra la troika e i rappresentanti del governo greco a Bruxelles e ad Atene. L’accordo di far tornare i rappresentanti di Commissione europea, Bce e Fondo monetario internazionale nella capitale greca è giunto grazie alla mediazione del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, che avrebbe chiesto direttamente al ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, di far tornare i rappresentanti dei creditori ad Atene oggi.
Secondo la ricostruzione offerta da Bloomberg, Draghi avrebbe chiesto a Varoufakis di accettare il ritorno della troika perché, senza la possibilità di vedere il reale stato dei conti pubblici del Paese, l’Unione europea non sarebbe mai stata in grado di poter autorizzare il pagamento alla Grecia della tranche da 7,2 miliardi di euro ancora rimanente del piano di aiuti da 240 miliardi di euro concessi al Paese.
Il ministro ellenico avrebbe ribattuto che l’idea per cui Atene si era opposta a un tale ritorno era un grande malinteso e i due avrebbero trovato rapidamente un accordo per un ritorno già nella giornata di oggi. Gran parte delle resistenze di parte greca sarebbero dunque di natura semantica, perché Atene rifiuta il termine troika, che, come spiegato da Varoufakis l’altro ieri in conferenza stampa, sa di coloniale. «La troika - ha detto il ministro - è una raccolta di tecnocrati che arrivavano ad Atene ed entravano nei ministeri proiettando un senso di potere che sapeva tanto di attitudine coloniale. Quella pratica è finita. Faremo tutto il possibile per fornire alle istituzioni ogni informazione di cui possano avere bisogno».
Una concessione importante da parte del governo di Syriza, perché la troika era stata bandita da Atene, ma i tecnici hanno bisogno di verificare sul posto l’andamento e l’attuazione delle riforme promesse dai politici a Bruxelles.
In questo quadro di mezze concessioni e bracci di ferro la televisione pubblica tedesca Ard ha mandato in onda ieri un documentario sulla crisi greca con un’intervista sempre a Varoufakis. Il ministro ha affermato che «qualsiasi persona dotata di buon senso a Bruxelles, Francoforte e Berlino sapeva nel maggio 2010 che la Grecia non avrebbe mai ripagato il suo debito. Ma tutti si mossero come se la Grecia non fosse in bancarotta, ma come se fosse semplicemente a corto di liquidità».
Parole che hanno rilanciato le aspre polemiche sulle modalità del primo salvataggio della Grecia che aveva previsto manovre di austerità, ingenti prestiti da 110 miliardi di euro ma non la riduzione del debito che avrebbe consentito di portare un fardello minore sulle spalle dei greci.
Anche Berlino è intervenuta. «La Grecia deve concordare con le istituzioni una chiusura soddisfacente del Memorandum d’intesa, dopodiché verranno versati gli aiuti - ha affermato Wolfgang Schaeuble - prima di allora non accadrà nulla».
Infine da Atene è arrivata la notizia che il governo Tsipras sarebbe pronto, secondo la Reuters, a prelevare 555 milioni di euro dal fondo di salvataggio bancario nazionale - nonostante la contrarietà della troika - nel tentativo di reperire denaro per far fronte alla crisi del credito. Atene rischia di restare a secco nelle prossime settimane.
La Stampa TuttoScienze 11.3.15
“Ricerca libera o prigioniera? Ripartiamo dal caso Turing”
Il genio che rivoluzionò il Novecento ci obbliga a ripensare l’idea di “Big Science” e le percezioni dell’opinione pubblica
di Gabriele Beccaria
Ha infranto il codice della macchina Enigma, ma l’enigma della sua vita continua a resistere ai tentativi di decifrarla.
Il vero Alan Turing - una star grazie al film «The Imitation Game» - non smette di apparire e scomparire dietro un muro di stereotipi, alimentati dallo stesso kolossal, più incline ai moduli hollywoodiani che a indagare la verità biografica. Uno dei pochi a incrinarli è stato Andrew Hodges, matematico di Oxford e autore del bestseller «Alan Turing. Storia di un Enigma», edito da Bollati Boringhieri: da Berlino, invitato dalla Humboldt-University, dove mercoledì scorso ha tenuto una lezione (piuttosto enigmatica) su «Wistor Geometry and its modern application to scattering amplitudes», parla del genio matematico morto suicida il 7 giugno 1954 e alla cui avventura - intellettuale e personale - si è legato.
Mi spiega che tra il vero e il falso si estende un territorio di indizi e prove. Turing non è stato un cervellone isolato da tutto e tutti, non è vero che fosse l’afasico teorico incapace di comunicare ed è indiscutibile che i suoi interessi si sono spinti molto al di là di Enigma, coprendo un panorama immensamente più vasto di quanto suggerisca il bollo di «padre dei computer» che si porta appiccicato. Quando gli suggerisco la parola contraddizione, esclama: «Sì, contraddizione!». È quella - sottolinea - che segna la vita e la morte di un innovatore e di un visionario, vittima allo stesso tempo di un rozzo test medico (si tentò di annichilire la sua omosessualità con gli ormoni). Ed è la contraddizione del creativo, dilaniato tra la libertà intellettuale che lo portò a ricerche in campi diversissimi, dall’intelligenza artificiale alla biologia, e le costrizioni della segretezza, imposte dalla Seconda Guerra Mondiale.
Ecco perché, oltre a sfidare i confini della matematica, Turing ha terremotato i territori che racchiudono l’idea di scienza, obbligandoci a pensare nuovi pensieri: sia quella degli Anni 30, 40 e 50 del Novecento sia la concezione che si ha della «Big Science» del XXI secolo. Spiega Hodges: «Anche oggi gli scienziati godono di libertà intellettuale e si dedicano all’investigazione pura, ma contemporaneamente la scienza e la tecnologia - e penso ai computer - hanno forti legami con le agenzie di intelligence. Sono questioni che di recente - come sappiamo - hanno fatto notizia. Il primo e il secondo aspetto toccano scelte rilevanti e che tuttavia vengono discusse di rado».
Perché, secondo lei, molti sono attratti dalle biografie - spesso inconsuete - degli scienziati, ma, quando poi passano alle loro teorie e scoperte, le rifiutano, dai vaccini agli Ogm?
«È una questione fondamentale e tocca la natura della scienza, che è un’opera collettiva: ne scrisse Turing nel 1948, in un brano dove descriveva il lavoro del ricercatore come un processo di gruppo, in cui nessuno era destinato a primeggiare più di tanto. Era un duro giudizio della sua stessa opera e anche un punto di vista stoico, ma corretto. Perlopiù, ieri come oggi, il contributo individuale, anche quando va oltre, viene assorbito e trasformato da altri e tuttavia è una realtà difficile da visualizzare e drammatizzare. La gente, invece, è più interessata al singolo. Quanto a me, ho scritto la biografia di Turing non per esaltarlo come il protagonista della “computer science”, ma perché ero attratto dalla possibilità di raccontare un’esistenza nella sua totalità. Non solo per il suo interesse verso le scienze della mente - e la possibilità di catturarla con la computazione - ma perché rappresenta una sintesi di aspetti: storia, politica, tecnologia, pensiero creativo, rapporti personali».
Oggi siamo dilaniati tra le meraviglie della comunicazione globale, che permettono a un ragazzo di New York e a uno di Mumbai di accedere alla British Library, e i pericoli delle manipolazioni digitali, dove il blogger complottista, che immagina farmaci deleteri diventa autorevole come lo scienziato esperto di vaccini. Straordinaria disponibilità di sapere e pochi strumenti per discernere il vero dal falso. Quanto era consapevole Turing dei rischi che ci aggrediscono?
«Penso che fosse meno consapevole di questi problemi di quanto lo fosse invece, negli Anni 40 e 50, Norbert Wiener, autore di celebri saggi sulla cibernetica: il secondo era un personaggio di sinistra, con un forte punto di vista sociale rivolto al futuro, mentre Turing non appartiene a questa tradizione attenta a funzioni e obiettivi. E non è un caso, non privo di una tragica ironia, che sia diventato vittima di un esperimento sulla sessualità: il modernizzatore, rappresentante della Royal Society, fu sottoposto a qualcosa che non aveva nulla di moderno. Non conosciamo le sue opinioni al riguardo e questo sì che è un enigma. Ma la sua storia sembra fatta apposta per provocare tanti interrogativi sulla natura della scienza».
E la sua storia dimostra che fu un abile divulgatore: è così?
«I suoi scritti rivelano spesso il piacere di spiegare i concetti, a cominciare da quelli sull’intelligenza artificiale. Un articolo del 1954, per “Penguin Science News”, era destinato a un vasto pubblico: andava oltre i tempi per capacità di divulgazione e influenzò non solo riviste e libri. Fu il precursore della rivista “New Scientist”. Aveva lo stile coinvolgente, spesso colto e spiritoso, che oggi è tanto lodato. Turing, in effetti, ambiva ad appartenere a una cultura estesa, al di là di quella da laboratorio».
Come immagina la prossima - e necessaria - rivoluzione divulgativa degli scienziati?
«Le discussioni di tipo filosofico tra scienziati ci sono sempre state e lo dimostra quella, nel 1946, sul primo “cervello elettronico”. Credo, però, che oggi noi ricercatori non abbiamo ancora elaborato un nuovo vocabolario per affrontare la rivoluzione - di fatti, idee e fiction - di Internet. Ma mi rendo conto che nemmeno i media tradizionali ci sono riusciti».
20 - Continua
La Stampa TuttoScienze 11.3.15
Guarda negli occhi il paziente, poi lo guarirai
Crescono le iniziative per un nuovo rapporto medici-malati: “Sono molto più che macchine da riparare”
di Gianna Milano
Regola numero uno: guardare negli occhi il paziente e mantenere il contatto dello sguardo durante la visita. Regola numero due: scandire le parole e non far sfoggio di un linguaggio tecnico, il «medicalese». Regola numero tre: non usare un tono di voce freddo, ma cordiale, stabilendo un rapporto empatico.
Sono alcuni dei suggerimenti-base di Roberta Milanese, psicoterapeuta, e Simona Milanese, oncologa, nel saggio «Il tocco, il rimedio, la parola» (Ponte alle Grazie). Le autrici sottolineano quanto importante sia una buona comunicazione medico-paziente anche per l’efficacia della cura stessa: se il malato non si sente ascoltato e considerato (e il tempo dedicato alla visita nella maggior parte degli studi si aggira sui 10-15 minuti), difficilmente seguirà con scrupolo la terapia prescritta.
Come non cadere nelle trappole linguistiche e comportamentali che possono influire sull’esito di un trattamento? «Il medico deve recuperare la disponibilità all’ascolto su cui si basava l’ars curandi di cui parlava già nel V secolo a.C. Ippocrate», rispondono le autrici. «Oggi la medicina dispone di strumenti potenti per la diagnosi e la cura, ma sembra proprio che quelle stesse tecniche abbiano finito per inaridirla».
Agli occhi della maggior parte dei medici - spiegano - «gli aspetti psichici ed emotivi del paziente non sono considerati essenziali per recuperare il benessere e si affida, semmai, il compito a psicologi e psicoterapeuti». Così la medicina ultra-specialistica e tecnologica ha finito per sacrificare la comunicazione. Il medico, infatti, ricorre sempre di più a indagini di laboratorio e alla diagnostica strumentale e sembra non essere più un interlocutore alle domande che i pazienti pongono. Secondo l’antropologo della medicina Byron Good, professore all’Università di Harvard, la crisi di questa professione è da ricercare nelle stesse premesse della medicina occidentale: il medico pretende di imporre la sua razionalità e instaura un rapporto di potere: «Sono io che ho le competenze per decidere cosa è bene». Così facendo, diventa sordo alla narrazione dei fatti.
Secondo uno studio inglese, in media, i medici interrompono l’esposizione dei sintomi da parte dei pazienti al 22° secondo. «Peccato, perché di solito il racconto si conclude entro un minuto e mezzo e quindi informazioni importanti vanno perse». Non è un caso che il medico di famiglia sia ormai percepito più come un tecnico-burocrate che come una persona cui affidare le proprie sofferenze.
Se si è imposta una visione riduzionista, centrata sulla malattia, ora è il momento di riportare il paziente al centro: la malattia non è solo un «guasto» ma un’esperienza mentale. Se ne rende conto chi, medico, vive «Dall’altra parte», come racconta il titolo del saggio di Gianni Bonadonna, oncologo, che, ammalandosi, capisce quanto sia fondamentale «curare» la relazione di cura.
Occorre quindi - concludono le autrici - un mutamento di prospettiva, che parta dalla formazione dei futuri medici. E in questa direzione vanno diverse iniziative, non ultima quella di Slow Medicine che si rifà a una campagna promossa nel Regno Unito da Kate Granger, medico e ammalata di tumore: l’obiettivo è ricordare ai professionisti della salute l’importanza di presentarsi con il proprio nome, quando si incontra un paziente. È il primo passo per instaurare una relazione di fiducia.
Repubblica 11.3.15
Vivere fino a 140 anni
L’elisir della longevità è in mano alla biologia di frontiera. Che punta a ritoccare l’orologio delle cellule per rallentarlo
Ma adesso è diventata una sfida anche per i Big del web. Google ha appena annunciato che investirà nella ricerca contro l’invecchiamento
di Elena Dusi
L’OROLOGIO sta ticchettando. All’interno delle nostre cellule, le fa invecchiare a ogni istante. Il meccanismo che fa avanzare le lancette è però sotto assedio, perché da una manciata di sentieri gli scienziati si stanno avvicinando per comprenderlo e disinnescarlo. Sugli animali, in particolare i topi di laboratorio, l’obiettivo è stato raggiunto. Da anni i biologi riescono ad allungare la vita dei roditori fino al 50%. Applicare le stesse tecniche agli uomini è difficile, ma iniziative decisive per rallentare l’orologio delle cellule umane attraverso i farmaci o la dieta sono appena state lanciate, o stanno per partire. In vendita oggi si trova una pillola che promette di allungare la vita, ma ha il difetto di non essere stata testata. In sperimentazione sugli uomini sarà presto una sostanza ben nota in medicina come la metformina. È pronto poi l’avvio di un trial clinico sui cani della rapamicina, sostanza isolata nel terreno dell’isola di Pasqua, che ha dimostrato effetti enormi sugli animali da laboratorio. «Ammettiamo di riuscire a estendere anche la vita media e massima degli uomini del 40%» spiega Richard Miller, direttore del Centro di ricerca per la biologia dell’invecchiamento all’università del Michigan. «Una donna giapponese avrebbe un’aspettativa di vita di 112 anni, con punte di 140». Con la previsione concorda Rudi Westendorp dell’università di Leida, autore di “Come invecchiare senza diventare vecchi” (Ponte alle Grazie): «Nell’arco di un centinaio di anni l’aspettativa di vita è salita da 40 a 80 anni e la probabilità di raggiungere i 65 anni è passata dal 30% al 90%. Tra i neonati di oggi c’è chi arriverà a 135 anni».
Dalla metà dell’800 la vita media è aumentata a dispetto delle previsioni secondo cui il tetto era stato raggiunto. Finora però sono stati medicina e igiene a regalarci anni di salute. Quel che gli scienziati stanno tentando adesso è cambiare il nostro corpo: manipolare l’orologio delle cellule per spingerlo a ticchettare più lentamente, evitando così vecchiaia e malattie. Per questo la ricerca della longevità oggi è nelle mani di una biologia di frontiera che cerca di intervenire sul Dna, la sua replicazione, le sue estremità (i telomeri), il metabolismo delle cellule, le loro fonti di energia, la composizione della dieta. Sono queste le strade percorse per stringere d’assedio gli orologi che ticchettano senza sosta.
La chiave di volta di queste ricerche è che gli animali da laboratorio sottoposti a restrizione calorica vivono tra il 30 e il 40% più a lungo del normale. La restrizione calorica è un taglio drastico dell’alimentazione (almeno il 30%): un regime di inedia che costringe le cellule a riorganizzarsi per sopravvivere. Nel loro Dna si attivano alcuni geni che riducono il metabolismo e — attraverso percorsi biochimici chiari solo fino a un certo punto — allungano la vita della cellula. La restrizione calorica fa rallentare l’orologio biologico in tutti i tessuti dell’organismo, e quindi anche nell’organismo intero. Ma poiché una dieta così drastica è difficile da sostenere per la volontà e il corpo di un uomo, la ricerca si sta concentrando sulle sostanze chimiche capaci di mimare l’effetto della restrizione calorica sul Dna. Cioè su delle pillole.
Il sogno di una pillola della lunga vita non ha stimolato solo la scienza, ma anche il business. Google ha fondato nel 2013 una compagnia — la Calico — specializzata in studi sulla longevità. Ha ingaggiato alcuni pesi massimi della biologia e di tanto in tanto scalda l’atmosfera con annunci come quello lanciato ieri dal presidente di Google Ventures, Bill Maris, sulla copertina di Bloomberg Markets: «Se oggi mi chiedete: è possibile vivere fino a 500 anni, la mia risposta è sì». Scienziato con un occhio agli affari è anche Leonard Guarente, direttore del laboratorio di biologia dell’invecchiamento al Mit. Dopo aver fondato la compagnia Elysium Health, ha invitato nel board scientifico 5 premi Nobel e ha messo in vendita come integratore alimentare (quindi senza i test cui sono sottoposti i farmaci) la pillola “Basis”. Costo: 50 euro al mese. «Anch’io la prendo tutti i giorni. La sostanza che uso è un precursore di un enzima chiamato Nad+ che diminuisce all’interno delle cellule con l’invecchiamento. Si è dimostrata efficace nei topi. La venderemo su internet per dialogare con i nostri clienti e capirne gli effetti».
Sentiero più ortodosso è quello seguito da Matt Kaeberlein dell’università di Washington a Seattle. «Sono sicuro che molti interventi che hanno successo sugli animali siano efficaci anche sugli uomini, ma dimostrarlo è difficile» spiega. Lo scienziato ha avviato una sperimentazione sui cani con la rapamicina, sostanza che a basse dosi è estremamente efficace nell’allungare la vita negli animali senza effetti collaterali, ma che sugli uomini viene usata solo per evitare il rigetto dopo un trapianto. «Dimostrare che un farmaco funziona sui cani avrà un impatto sufficiente per convincere le persone (e i governi) a puntare su questo campo di ricerca» dice Kaeberlein. «A Tor Vergata stiamo provando la rapamicina sulle persone affette da progeria», la malattia dei “vecchi bambini” spiega Giuseppe Novelli, genetista e rettore dell’università romana. Nir Barzilai all’Albert Einstein College of Medicine di New York sta per iniziare un esperimento sugli uomini con un’altra sostanza allunga-vita: la metformina. «Si tratta di un farmaco usato da 60 anni per la cura del diabete» spiega Barzilai. «Sulla sua sicurezza non ci sono più dubbi. Dagli esperimenti sugli animali ci siamo accorti che la metformina influenza i processi cellulari e metabolici legati all’invecchiamento ».
Alla “pillola della longevità” crede fino a un certo punto Luigi Fontana delle università di Brescia e Washington. «Prendere un farmaco e continuare a mangiare schifezze non servirà a molto. Stiamo sperimentando sugli uomini nuove versioni della restrizione calorica più sostenibili. Uno o due giorni di digiuno a settimana, solo con verdure e olio di oliva, hanno effetti sul metabolismo delle cellule simili alla restrizione calorica. Altre strade percorribili sono assumere calorie solo nella prima parte della giornata e sostituire le proteine animali con quelle vegetali ». Sulle staminali punterebbe Pier Giuseppe Pelicci dell’Ifom-Ieo di Milano: «Negli animali da laboratorio longevi la funzione delle staminali è aumentata. Stimolare la riprogrammazione delle cellule adulte in staminali è dunque un’altra strada promettente ». Dimostrare che una pillola o una dieta contro l’invecchiamento funziona senza essere capaci di misurare l’invecchiamento rischia però di essere un controsenso. «Per questo penso che una delle scoperte più interessanti sia l’”orologio epigenetico” » spiega Luigi Ferrucci, direttore scientifico del National Institute of Aging. «Un bioinformatico dell’università della California, Steve Horvath, ha scoperto come scoprire l’età biologica di una persona osservando il modo in cui il Dna è avvolto, come fosse un gomitolo, nel nucleo della cellula. Il livello di invecchiamento dei tessuti può infatti non coincidere con l’età anagrafica. L’orologio epigenetico è in grado di rivelarlo con precisione sorprendente».
Repubblica 11.3.15
Se l’eterna giovinezza diventa una vecchiaia infinita
di Maurizio Ferraris
«STA bene», pare che abbia mormorato in punto di morte Immanuel Kant. Correva l’anno 1804, Kant aveva ottant’anni, un’età venerabilissima per l’epoca, ma almeno da un decennio le sue forze intellettuali erano state progressivamente compromesse da una forma di demenza senile. Un ottantenne di oggi forse non direbbe «sta bene», perché la vita media si è allungata. Un ottantenne del futuro, quando pare sarà possibile vivere sino a 140 anni, forse maledirebbe le stelle come un eroe di Metastasio: in fondo, si troverebbe poco più che a metà del cammino, come un cinquantenne attuale. Non potrebbe, poniamo, assistere al pensionamento dei nipoti, al primo divorzio dei pronipoti, e scaricare l’aggiornamento 3493 del sistema operativo del suo computer.
Pochi adagi sono falsi come quello secondo cui la vita incomincia a quarant’anni. No, lì incomincia il declino, ed è inutile illudersi che le cose vadano diversamente. I quarant’anni che abbiamo dietro di noi sono di esistenza vigile e in ascesa, gli altri sono di declino, un declino che oggi è stimato in media di 30-40 anni, ma che nell’ipotesi dei 140 anni significherebbe “un secolo di decadenza”.
È bene saperlo per dare agli anni che vengono il loro intero senso, e anche per spiegarci fenomeni come la crisi dei quarant’anni, che dopotutto non è che un atavismo, il fatto che in effetti quella è l’età in cui i nostri antenati erano decrepiti e morivano. Non è detto che fossero più infelici di noi. La vita è una cosa seria, ma una vita lunghissima diventa di una serietà insostenibile. Commettere una stupidaggine a settant’anni è un conto, oggi, ma se la vita media si dovesse estendere sino ai 140 significherebbe avere di fronte a sé altri settant’anni di rammarico, vergogna e rimpianti.
Più seriamente, siamo sicuri che vivere sino a 140 anni sia auspicabile? Certo, non lo è per chi non ha i mezzi per consentirsi lo stile di vita che permette di raggiungere una età così venerabile. Non è affatto escluso che per permettere a pochi benestanti di raggiungere una vecchiaia estrema molti altri abitanti del pianeta rischino di morire prima del tempo, magari con organi espiantati a beneficio dei longevi. E non è affatto implausibile, in questo scenario, la costituzione di grandi cliniche in cui, a una temperatura costante, delle quasi mummie attendono impassibili la fine, mentre fuori i parenti picchiano contro i vetri e reclamano l’eredità (difficile stabilire chi sia più umanamente sgradevole, se la mummia o l’erede).
Ammettiamo, infine, che si riesca a concedere a tutti, senza discriminazione di classe, sesso o nazionalità, una aspettativa di vita di 140 anni. Le carestie più cupe si abbatterebbero sull’umanità, in gran parte inoperosa perché anziana, e soprattutto (ne sono certo) una noia e una tristezza senza fine riempirebbero le giornate dei più. Tutta la vita sarebbe un déjà vu, tutte le storie ci suoneranno vecchie e risapute, tutte le barzellette saranno stantie a meno che un provvidenziale Alzheimer ce le faccia apparire nuove di zecca. E per coloro — a tutt’oggi, la maggior parte dell’umanità — per cui la vita è come quella descritta da quell’allegrone di Hobbes, cioè “solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve”, verrebbe meno quel “breve” che allevia il peso degli altri quattro aggettivi.Nuovo attacco di Pechino al leader buddista: al centro della disputa il braccio di ferro su chi dovrà scegliere il successore di Tenzin Gyatso
La Stampa 11.3.15
È morto il critico musicale Paolo Terni
È morto Paolo Terni, critico musicale, scrittore, docente per molti anni dell’Accademia d’arte drammatica «Silvio D’Amico» di Roma e storica voce di RadioTre. Era nato nel 1939 ad Alessandria d’Egitto, città dove visse per tutta l’infanzia e l’adolescenza e dove avviò gli studi del violino e della musica. È stato consulente musicale di molti registi cinematografici e teatrali, in particolare di Luca Ronconi con cui ha avuto un sodalizio durato più di trenta anni.
Corriere 11.3.15
Oggi al via il portale della Crusca
Si chiama Vivit-Vivi Italiano (www.viv-it.org) il portale Internet per vivere e diffondere la lingua italiana nel mondo e viene presentato oggi nella Sala del Consiglio del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre (ore 11). Il portale è il frutto di un progetto coordinato dall’Accademia della Crusca e offre uno dei più ampi archivi digitali integrati, mirato alla diffusione della conoscenza del patrimonio linguistico e culturale italiano, in particolare per gli italiani all’estero e per gli studiosi e studenti stranieri.