Il video di un colloquio in tra Umberto Galimberti e Diego Fusaro
Heidegger e il nazismo. A partire dai "Quaderni neri"»
«Heidegger è stato effettivamente il più grande filosofo del Novecento
«La filosofia di Heidegger in quanto tale non ha contenuti intrinseci che conducano al nazismo»
qui segnalazione di Carlo Patrignani
Corriere 2.3.15
Aldo Masullo: ognuno corre per sé e per i suoi
Che vergogna, non è più un partito
Filosofo tra i più autorevoli del Dopoguerra, il professor Masullo si avvia a compiere 92 anni e ha conosciuto da vicino ben altre generazioni di politici di sinistra. Da indipendente ha fatto parte del Senato per tre legislature, quando esisteva il Pci o al massimo i Ds
intervista di Fulvio Bufi
Napoli Se gli si chiede che cosa resta del Pd dopo la lunga e tortuosa marcia di avvicinamento alle primarie in Campania, il professor Aldo Masullo usa una parola sola, molto napoletana: «Scuorno». Significa vergogna. Un tipo di vergogna forte, fortissima, dove non basta diventare rossi, ma si vorrebbe proprio sparire («Pe lo scuorno ca se pigliaje sotto a ‘nu scuoglio se ‘mpizzaje», recitano i versi della tarantella ‘O guarracino : per lo scuorno andò a infilarsi sotto uno scoglio).
Nel Pd campano però nessuno ha dato segno di voler sparire. Nemmeno chi si è ritirato, come Gennaro Migliore, spinto più che altro dalla certezza di perdere e di giocarsi quindi candidature future.
Filosofo tra i più autorevoli del Dopoguerra, il professor Masullo si avvia a compiere 92 anni e ha conosciuto da vicino ben altre generazioni di politici di sinistra. Da indipendente ha fatto parte del Senato per tre legislature, quando esisteva il Pci o al massimo i Ds.
Oggi come li vede?
«Totalmente privi di pudore».
Non salva nessuno?
«Mi rendo conto che la mia può sembrare una reazione emotiva, e anzi lo ammetto: reagisco emotivamente, è vero. Ma è vero anche che questo non è più un partito».
Eppure è l’unico che si chiama ancora partito.
«Se è per questo non è che il Pd non lo sia più e altri invece sì: in Italia nessuno schieramento politico è più un partito».
Restiamo al Pd: che manca?
«Tutto. Innanzitutto un progetto politico. E poi il dibattito: interno e con gli elettori».
I candidati di elettori ne hanno incontrati durante la campagna elettorale.
«Sì, ma che gli hanno detto? Certo, io non sono stato presente, però i giornali li leggo, le cose le seguo. E non ho sentito una parola sul programma. La differenza tra un progetto politico e uno personale è se si ha o non si ha un programma che voglia tentare di favorire il bene comune».
E Cozzolino e De Luca che progetto avevano?
«Appartengono a quella categoria di politici che corrono per se stessi».
Hanno ampio seguito.
«E allora diciamo che corrono per se stessi e per i loro uomini».
Così sembra che siano il peggio del peggio.
«Non facciamone una questione personale. Rappresentano quello che è oggi la politica e quello che è oggi il Pd: non esistono gare di idee e di proposte. Esistono lotte tra persone e i rispettivi seguiti».
C’è stata pure la polemica per i presunti aiuti ai due candidati dal centrodestra.
«Sì, ho seguito. Ma non c’è da meravigliarsi molto».
Almeno un poco sì, però.
«Si tratta di un rischio congenito nel meccanismo delle primarie aperte. Se possono votare tutti, significa che possono votare tutti, anche quelli che appartengono a un altro schieramento».
A quelli, però, nessuno dovrebbe chiedere i voti, no?
«Certo. E invece ci vanno. Diciamoci la verità: il voto aperto a tutti dovrebbe evitare che le primarie diventino una guerra tra fazioni interne al partito, come era ai congressi quella dei signori delle tessere. Ma nella realtà è la stessa cosa: le fazioni si allargano, non condividono l’appartenenza a una corrente ma un’idea di potere che bada solo all’interesse personale».
Lei la politica l’ha fatta. Sicuro che quello che vede ora sia proprio una novità rispetto ai suoi tempi?
«Io? Io andavo nelle fabbriche a parlare con gli operai. Nei quartieri, nelle sezioni. Ognuno poteva dire la sua. Poi i dirigenti facevano a modo loro. Però almeno c’era qualcuno che ci provava».
Chiarissimo. Quindi quello che ha visto in queste primarie alla fine non l’ha deluso?
«Deluso? E perché? Per deludermi avrei dovuto prima illudermi. E io ho 92 anni: è da un bel po’ che ho smesso di avere illusioni».
Corriere 2.3.15
La resa del partito
La politica campana resta ferma al passato
I democratici di Roma hanno dovuto ammainare la bandiera della questione morale
di Antonio Polito
Ha vinto Vincenzo De Luca, l’intramontabile sindaco-ras di Salerno. Secondo è Andrea Cozzolino, l’impenitente delfino di Bassolino. Perde Roberto Saviano, guru della sinistra legalista, che aveva incitato i militanti del Pd al boicottaggio delle primarie: l’affluenza alle urne è stata invece forte, oltre quota 150 mila. Certamente un successo, anche se non si sa quanto drogato: un collaboratore del Corriere del Mezzogiorno è riuscito ieri a votare in quattro seggi del salernitano con lo stesso certificato.
Ma, nonostante l’afflusso ai seggi, non ha molto da festeggiare neanche Matteo Renzi. Il segretario del Pd deve aver tirato ieri sera un sospiro di sollievo: si temeva il bis del 2011, quando per i brogli furono annullate le primarie a Napoli, e invece almeno finora le contestazioni sono poche, perfino meno che in Liguria, forse anche grazie alla spasmodica attenzione dei media. Eppure il Pd che si è imposto in Campania non è il suo, ha piuttosto il volto del passato, è dominato come sempre dai signori delle tessere e delle clientele, e quel che è peggio si è dimostrato impermeabile ad ogni tentativo di rottamazione.
Il Pd di Roma ha dovuto ammainare la bandiera della questione morale, consentendo a De Luca di gareggiare nonostante una condanna penale per abuso di ufficio, che gli costerà l’immediata sospensione dall’incarico da parte del prefetto in caso di elezione a governatore della Campania, a norma della legge Severino. Di più: il sindaco di Salerno è stato dichiarato decaduto da un tribunale perché si è ostinatamente rifiutato per un anno di ottemperare alla legge che gli imponeva di dimettersi dopo essere stato nominato viceministro del governo Letta. La vittoria di De Luca è insomma il risultato più imbarazzante per la segreteria Renzi: non sarà facile per il premier fare la campagna elettorale in Campania accanto a lui, contro il centrodestra di Caldoro.
Cozzolino, secondo arrivato, è stato invece il braccio destro di Bassolino nell’ultima Giunta regionale, quella che fu travolta dallo scandalo dei rifiuti: non esattamente l’immagine che il premier vuole dare del suo nuovo partito della nazione. Mentre si è dovuto ritirare Gennaro Migliore, l’ homo novus lanciato in campo da Renzi nella speranza che con lui si riuscissero ad evitare le primarie, che alla fine si è trovato solo nella gabbia dei leoni ed è scappato. Perfino Gino Nicolais, lo scienziato presidente del Cnr, è stato brutalmente messo da parte, tant’era la voglia delle correnti di contarsi nell’ordalia delle primarie.
Forse è giunto il momento di riflettere sul senso di gare così fatte, puri duelli personalistici, in cui lo scambio di favori e di promesse prevale sul confronto politico, senza neanche il tempo di una campagna elettorale degna di questo nome (rinviate per quattro volte, le primarie sono state confermate appena quattro giorni prima del voto), aperte all’inquinamento di pacchetti di voti provenienti da altri partiti (un eurodeputato si è dimesso dal Pd accusando i candidati di aver stretto patti con la destra dei cosentiniani; un altro deputato ha accusato l’Udc salernitana di aver fatto votare i suoi).
Più che il rapporto con l’elettorato, conta la mobilitazione delle truppe sul territorio. In competizioni così è davvero difficile che vinca il migliore. Il massimo che si può sperare è che non vinca il peggiore.
il Fatto 2.3.15
In Campania
Napoli derby al veleno nel Pd
di Vincenzo Iurillo
Come la mano del personaggio di Mario Brega in Bianco Rosso e Verdone, la macchina elettorale di Andrea Cozzolino alle primarie “pò essere fero e pò essere piuma”. Nel 2011 fu fero, e ribaltò i pronostici a botte di file sospette e urne stracolme nei quartieri disagiati, ma fu una vittoria di Pirro, poi il Pd candidò a sindaco Mario Morcone, verso la catastrofe. Forse anche memori di quell’esperienza, ieri è stata piuma: un afflusso composto e regolare ai seggi di Napoli che nemmeno a Stoccolma, e dati di affluenza per la scelta del candidato Governatore inferiori alle attese.
AVREBBERO VOTATO in circa 65.000 tra Napoli e provincia, secondo l’ultima proiezione. In 145.000 in tutta la Campania. Cozzolino ne aveva previsti circa 200.000 nell’intera regione. Sarebbe stata quindi una militarizzazione soft. O un mezzo flop dei cozzoliniani, fate voi. Davanti ai seggi partenopei si sono presentati elettori consapevoli e ben informati. Anche se in qualche caso costretti a votare in un sottoscala striminzito, come nel seggio 164 a Capodimonte. A via Toledo 106, sede del Pd di Napoli, dove ha un ufficio il segretario Venanzio Carpentieri, alle 19 erano riuscite a votare soltanto 120 persone perché il presidente di seggio, ligio alle regole, ha allontanato quasi 200 elettori perché sprovvisti di tessera o perché iscritti in un altro seggio. “A malincuore ho dovuto far andare via anche due magistrati”. A Miano, il quartiere che insieme al rione Secondigliano determinò l’annullamento delle primarie 2011, alle 13 avevano votato in 220. Una persona ogni minuto e mezzo. Quattro anni fa lì (ma in un'altra sede) avrebbe votato una persona ogni 35 secondi. Avvolto in un cappottone nero, un renziano di ferro come il portavoce della segreteria provinciale Tommaso Ederoclite ha vigilato nel seggio allestito in un circolo culturale fornito di stanza con luci stroboscopiche e la consolle dj. “Certa gente strana, esponenti locali con un ruolo nelle istituzioni, si è fatta vedere anche stavolta per chiedere 500 tessere – dice il segretario di circolo Roberto Alessandro – ma gli abbiamo risposto di andare via e di non farsi più vedere”. Il seggio di Napoli porto, in un palazzo affianco all’Hotel Romeo, era deserto. Alle 14 avevano votato solo 6 persone. Era il seggio aperto nella sede campana di Idv. “Scusate sapete dove posso votare? ” chiedeva spaseata una signora ai piedi dell’edificio. Non c’era uno straccio di indicazione, un manifesto. Con il ritiro del candidato Idv, Nello Di Nardo, la voglia di affiggerlo era scomparsa.
IERI A NAPOLI vigeva un ordine: stare calmi ed evitare prove di forza. È partito dal quartier generale dell’europarlamentare ed ex assessore della giunta Bassolino, ed è stato eseguito. Cozzolino sapeva di essere l’unico ad aver tutto da perdere in uno scontro all’ultimo sangue, perché su queste primarie vige l’ombra del sospetto a prescindere, e un successo ottenuto grazie alle truppe cammellate verrebbe invalidato dal Nazareno. Come nel 2011. Per la seconda volta. Vincenzo De Luca, che tra condanne penali e decadenze da sindaco si è affacciato alla competizione con lo spirito di chi si gioca il tutto per tutto, questo problema non se lo è posto. Soft anche la risposta di Cozzolino a Roberto Saviano e al suo appello a disertare le urne per non legittimare voto di scambio e pacchetti di voti barattati con promesse di assessorati. “Spero di smentirlo con le scelte che faremo nel governo della Regione, con i programmi che attueremo e con gli uomini che sceglieremo”. Spera di vincere, anzitutto. Ma a denti stretti un cozzoliniano palesa timore: “Con questi dati, bassi a Napoli e alti a Salerno, non mi sento più sicuro”. La notte dello spoglio è lunga.
Repubblica 2.3.15
Saviano, primarie in Campania: "Dico no, basta clientele"
Per lo scrittore la consultazioni campane restano "un fallimento"
"De Luca e Cozzolino nomi legati a vent'anni di sperperi"
"Il mio invito a disertare i seggi lontano dal nichilismo di Grillo"
di Conchita Sannino
qui
Repubblica 2.3.15
Raffaele Cutolo: "Io, sepolto vivo in una cella. Se esco e parlo crolla il Parlamento"
Da Parma, dove è detenuto al 41 bis, l'ex boss della Camorra accusa: "I miei segreti fanno tremare tutti
Chi è al comando oggi è stato messo lì da chi veniva a pregarmi"
intervista di Paolo Berizzi
qui
Corriere 2.3.15
«È Renzi che dà le carte, ha vinto il congresso Bersani deve accettarlo»
Il sottosegretario Rughetti: se si crea il muro contro muro diventa poi difficile ripetere lo schema Mattarella
intervista di Monica Guerzoni
ROMA «Se si crea il muro contro muro, come se il congresso non ci fosse stato, è difficile ripetere lo schema Mattarella». Angelo Rughetti, sottosegretario alla Pubblica amministrazione, lancia un (severo) appello a Bersani perché «scongeli» la minoranza.
Bersani chiede di essere ascoltato.
«La vecchia guardia deve accettare che le carte le dà chi ha vinto il congresso. Per poter ripetere il metodo Mattarella, è necessario ripartire da li. C’è un segretario che ha il dovere e l’onere di portare avanti la sua linea politica, coinvolgendo anche la minoranza. La quale però deve riconoscere la leadership di Renzi».
Sul Jobs act avete tradito i patti?
«Renzi ha vinto con una linea di rottura rispetto al passato. Loro non possono pensare di riproporre uno schema sconfitto e che ha prodotto conseguenze negative anche sul mercato del lavoro. Vedo un tentativo di edulcorare la forza riformista di Renzi per poter rafforzare posizioni interne, sulle quali oggi non si ritrovano nemmeno tanti parlamentari di minoranza. Se le leadership della minoranza scongelassero i loro parlamentari si potrebbe avere una discussione costruttiva sulla politica a cominciare dai territori, invece di un confronto fra tifosi».
Rosato propone un correntone unico dei renziani.
«L’iniziativa di Richetti, in cui io mi ritrovo con Delrio e Guerini, va in questa direzione. Non si tratta di fare una nuova corrente, ma di mettere a disposizione di tutti uno spazio in cui fare una discussione vera, senza ripetere lo schema precongressuale. Le posizioni storiche sull’articolo 18, ad esempio, le conosciamo e la maggioranza vuole cambiarle, il tentativo è trovare soluzioni che portino avanti le idee di tutti».
Bersani lamenta che Renzi non ascolta né la minoranza, né il Parlamento .
«Non ci si può sedere al tavolo convinti di cambiare la proposta altrui. C’è una mancanza di ascolto perché le posizioni non abbandonano la storia congressuale. Ci vuole una evoluzione nella discussione».
Se Bersani non vota l’Italicum, a scrutinio segreto si rischia?
«Non riesco a capire come si possa difendere oggi una posizione conservatrice sulle riforme. Siamo costretti a governare col Ncd perché la legge elettorale non consente di stabilire chi vince… L’Italicum è un salto di qualità impressionante. La prossima volta un partito che vince non ha bisogno di larghe intese, può governare da solo».
Il punto però sono i capilista bloccati.
«Quel punto resta in discussione. Ma qui si stanno invertendo i ruoli, la minoranza che impone di cambiare un testo e la maggioranza che si fa carico della mediazione. Non mi sembra che da parte loro ci sia la stessa disponibilità al confronto».
La minoranza chiede la riduzione dei nominati, l’apparentamento al secondo turno…
«Abbiamo accettato i quattro quinti delle richieste, a cominciare dalla clausola di salvaguardia di D’Attorre. Ma se vogliono dimostrare che contano così tanto da far cambiare l’accordo con Berlusconi solo per piantare una bandierina, si va a sbattere».
Speranza ha fissato l’assemblea di Area riformista il 14 marzo, Bersani riunisce i suoi il 21.
«Se le correnti non sono luoghi dove cresce la cultura del Pd, ma strumenti di potere per portare avanti delle carriere personali, io penso sia sbagliato».
Volete epurare i presidenti di commissione come Boccia e Damiano e sostituire il capogruppo Speranza?
«Non sono d’accordo con nessuna forma di epurazione. Ma chi ricopre ruoli istituzionali eviti atteggiamenti di parte. Se si vuole dare battaglia lo si fa con gli stessi mezzi degli altri, non da posizioni di privilegio. Alzare lo scontro per rafforzare posizioni personali o di corrente è un errore clamoroso».
In Sicilia i civatiani se ne vanno, succederà anche nel Pd nazionale?
«Una scissione sarebbe negativa. Ma se dovesse esserci, sarà dovuta a calcoli elettorali e posizionamenti personali. Nessuno potrà portare come alibi il fatto che il Pd non abbia realizzato riforme di sinistra».
Corriere 2.3.15
CasaPound: «Noi siamo mussoliniani e vogliamo governare il Paese con Salvini»
In piazza a Roma con la Lega anche il movimento neofascita
di Nino Luca
guarda il video qui
Repubblica 2.3.15
Roberto Speranza, capogruppo dem a Montecitorio
“La piazza col Duce è oltre i limiti. La sinistra reagisca”
intervista di Giovanna Casadio
ROMA . «È necessaria una reazione democratica alla piazza delle croci celtiche, del manifesto di Mussolini, di Salvini... cos’altro ci vuole per allarmare l’opinione pubblica democratica?». Roberto Speranza, capogruppo dem a Montecitorio, leader di Area riformista, una delle correnti di minoranza, afferma che l’avanzata di Salvini è un segnale preoccupante.
Speranza, a quale risposta pensa?
«Il Pd e il governo devono soprattutto prosciugare la palude di inquietudine che c’è nel paese dopo sette lunghi anni di crisi economica, attuando politiche adeguate».
Ma questa nuova destra populista può
mettere in difficoltà il Pd?
«Questo è un pezzo dell’anomalia italiana, dove non c’è oggi un’alternanza possibile tra forze compiutamente democratiche. Le croci celtiche, la partecipazione di Casa Pound, il manifesto di Mussolini sollevato in piazza... non sarà questa l’opinione di tutti quelli che hanno partecipato o che votano per la Lega, ma è inquietante. Né si può far finta di nulla. Non deve passare l’idea che tutto si può fare e tutto si può dire, siamo oltre i limiti. Il Pd è l’unico argine a tutto questo».
Renzi infatti ha rivolto un appello alla minoranza dem: il Pd non deve lacerarsi in divisioni. È d’accordo?
«E’ vero. L’unità del Pd è centrale. Siamo l’unica forza credibile che può guidare l’Italia in questo passaggio».
Però tra voi democratici crescono le divisioni.
«Abbiamo dimostrato di saper essere uniti nell’elezione del presidente della Repubblica ».
Ma il Jobs Act ha scatenato lo scontro interno.
«Qui è Renzi ad avere sbagliato. È chiaro che tutti, ma proprio tutti, dobbiamo tutelare l’unità del Pd. Io faccio il capogruppo, non sono e non sarò renziano, ma voglio l’unità del partito. Però la responsabilità maggiore spetta a Renzi. Matteo sa che ogni volta che unisce il Pd fa un servizio non solo alla nostra parte ma al paese».
È d’accordo con lo strappo di Bersani?
«Non parlerei di strappi. Bersani ha voluto riaffermare che il “metodo Mattarella” è quello giusto».
Ma anche che si sente un “figurante” nel Pd renziano. Lei si sente un “figurante”?
«No, assolutamente».
Ingaggerete l’ennesimo braccio di ferro sull’Italicum, la nuova legge elettorale? Va cambiata, ora che arriva alla Camera?
«Va rispettata la discussione del Parlamento. Aveva tre punti di debolezza, due sono stati sanati. La questione del capilista bloccati non è stata risolta, ma va risolta ».
Voi della minoranza dem siete divisi. Ci saranno due convention differenti?
«La manifestazione del 21 servirà a sottolineare che c’è uno spazio di confronto comune tra tutte le minoranze, a partire però da un punto e cioè che il Pd è più forte se la sinistra al suo interno è protagonista. “Area riformista” terrà una convention nazionale il 14 a Bologna, ma il 21 ci saremo eccome, ovviamente con il nostro profilo».
Corriere 2.3.15
Scuola, detrazioni per le private
Il nodo dei 30 mila precari esclusi
Nella bozza sgravi fiscali sulle rette fino a 4 mila euro. «Ma deciderà Renzi»
di Orsola Riva
Il decreto sulla Buona Scuola, dopo mesi di travagliata gestazione, arriva domani sul tavolo del Consiglio dei ministri. Il suo fulcro era e resta il piano di maxi-assunzioni annunciato a settembre scorso, ma negli ultimi giorni il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini (già segretario di Scelta civica, ora senatrice Pd) ha deciso di inserire un nuovo, spinosissimo, capitolo: quello delle detrazioni — fino a 4.000 mila euro — per le famiglie che iscrivono i propri figli alle scuole paritarie. Materia politicamente assai delicata — basti pensare all’articolo 33 della Costituzione che riconosce il diritto di istituire scuole private purché senza oneri per lo Stato. Gli studenti sono sul piede di guerra e il Partito democratico si è, anche su questo, subito diviso (una trentina di parlamentari ha deciso di strappare in avanti, sottoscrivendo, insieme ad altri colleghi, da Rocco Buttiglione a Paola Binetti, una lettera in favore pubblicata da Avvenire ).
Spiega l’onorevole Simona Malpezzi, una delle firmatarie: «Sto ricevendo moltissime lettere di protesta, ma il mio è un approccio laico. È stata la legge 62 del 2000 — ministro Berlinguer — a stabilire che la scuola pubblica fosse un sistema integrato. La maggior parte delle paritarie sono scuole dell’infanzia (private e comunali, ndr) che suppliscono allo Stato fornendo un servizio alle famiglie. Poi certo ci sono i diplomifici, a cui va dichiarata guerra, e i tanti professori sottopagati che io invito a farsi avanti denunciando chi li sfrutta» (pagandoli una miseria in cambio del punteggio di servizio che serve loro per risalire faticosamente le graduatorie, ndr ).
La parola ora tocca a Matteo Renzi, sicuramente più tiepido, almeno in partenza, del ministro Giannini sulla questione. Spiega il sottosegretario Gabriele Toccafondi (Ncd), pedina importante in questa partita che si gioca anche sul piano dei rapporti con il partito di Angelino Alfano: «Il nostro vuole essere un aiuto alle famiglie in difficoltà: un po’ come già si fa per le rette dei nidi». Con la differenza che in quel caso il massimale è fissato a 650 euro, equivalenti a uno sconto fiscale di 120-150 euro, qui è molto di più. «Scrivere 4.000 euro è un esercizio di stile — minimizza Toccafondi —. Se e solo se il premier ci darà l’ok, la parola poi passerà al Mef che dovrà trovare le coperture (per il mancato gettito, ndr ). Mettiamo che metta a disposizione un fondo da 10, 20 o 30 milioni. In base a quello verrà ritarato il massimale che alla fine potrebbe non discostarsi molto da quelli dei nidi». Toccafondi si dice anche disponibile a restringere la platea dei beneficiari fissando un tetto al reddito. A conferma che la partita è tutta politica: il sasso è lanciato, ora partono le trattative.
Quanto al cuore della Buona Scuola — il piano per stabilizzare i «precari storici» (circa 140 mila prof che giacciono nelle Gae, le graduatorie provinciali chiuse dal 2007, anche da 10-15 anni e che ogni anno cambiano scuola con una ricaduta pesantissima sulla continuità didattica) — anch’esso ha subito importanti modifiche. Dopo un complicato censimento, il ministero si è reso conto che le graduatorie non potranno essere svuotate integralmente. Resteranno dentro le Gae (e fuori dal piano di assunzioni) circa 30 mila persone: quelli che non insegnano più da anni (oltre 20 mila persone) ma anche una parte dei tantissimi docenti della scuola d’infanzia e della primaria. A loro, se vorranno, resterà la strada del nuovo concorso per 60 mila posti nel triennio 2016-2018. Mentre con i soldi risparmiati (nella legge di Stabilità era stato messo 1 miliardo nel 2015 — 3 a regime — ma ora per le assunzioni basteranno 700 milioni) si finanzierà la formazione obbligatoria (40 milioni), i laboratori (altri 40), l’alternanza scuola-lavoro anche nei licei (100 milioni) e il piano digitale (altri 50). Dalle graduatorie d’istituto verranno invece pescati 15 mila «fortunati» (soprattutto prof di matematica e fisica che scarseggiano nelle graduatorie provinciali). A loro verrà fatto subito un contratto-ponte e sarà riconosciuta una corsia preferenziale nel concorso (che in totale porterà in cattedra, quindi, 75 mila prof) .
Repubblica 2.3.15
“Meno tasse per chi va alle paritarie”. È battaglia
Su Avvenire appello a Renzi da quarantaquattro deputati della maggioranza: “Occasione irripetibile per una svolta epocale”
La norma inserita nel decreto messo a punto dalla Giannini
Ma servono quattrocento milioni. Domani il Consiglio dei ministri
di Corrado Zunino
ROMA Gli sgravi fiscali per le famiglie che pagano una retta agli istituti paritari sono previsti nel decreto “La buona scuola”, appena licenziato dal ministero dell’Istruzione. Il ministro Stefania Giannini nel fine settimana ha inviato l’intero articolato a Palazzo Chigi. Oggi il premier Matteo Renzi lo prenderà in esame e domani discuterà in Consiglio dei ministri, all’interno della corposa riforma scolastica centrata sulle assunzioni dei precari, del provvedimento più politico: gli sgravi a chi frequenta scuole non di Stato. Allo Stato costerebbero, s’ipotizza, 400 milioni.
Decide Renzi, ecco, ma alla vigilia del Cdm un pezzo del centrosinistra (e un pezzo consistente del Pd) chiede al premier di aiutare una quota del mondo scolastico – le paritarie – che oggi attraversa la sua crisi più profonda dal dopoguerra. Un pressing che già divide la maggioranza. Quarantaquattro deputati, ieri, hanno pubblicato sul quotidiano cattolico Avvenire una lettera lunga due cartelle in cui chiedono l’approvazione del provvedimento sugli sgravi: “La Buona scuola”, scrivono al premier, «rappresenta il più importante tentativo di riforma dall’epoca della riforma gentiliana» ed è quindi «un’occasione irripetibile per superare lo storico gap della scuola in tema di pluralismo e libertà di educazione». Dall’unità nazionale in poi, si legge, «si è trasformata una scuola a vocazione comunitaria in una scuola per ricchi e si sono costrette le famiglie che optano per la scuola non statale a una doppia imposizione, quella della tassazione generale e quella delle rette».
Nella lettera si ricorda che la paritaria in Italia è fatta di 13mila istituti e accoglie un milione e 300 mila alunni, che con 478 milioni l’anno di finanziamento lo Stato risparmia oltre 7 miliardi di potenziali spese. Citando Antonio Gramsci, don Milani a Maria Montessori, si evidenzia come la scuola pubblica non statale sia «in lenta asfissia, una morte lenta», che numerosi istituti, «talora storici», hanno chiuso mentre «le scuole che resistono sono costrette ad aumentare le rette». Quindi, «un sistema fondato sulla detrazione fiscale, accompagnato dal buono scuola per gli incapienti, potrebbe essere un primo significativo passo verso una soluzione di tipo europeo».
Fra le 44 firme ci sono, ovviamente, i centristi della maggioranza: cinque di Area popolare tra cui Buttiglione e la Binetti, cinque del Centro democratico, uno di Scelta civica. Trentadue i deputati del Pd, fra cui l’ex ministro Fioroni, il teorico del no profit Patriarca e Simona Malpezzi, ex insegnante vicina agli attuali responsabili scuola del partito. Dice la Malpezzi: «Sono profondamente laica e credo che tutti debbano essere liberi di scegliere. Le paritarie quasi sempre suppliscono ai posti non creati dallo Stato. Non possiamo investire, come faremo, 100 milioni nelle materne e poi non consentire alle paritarie di fare la loro parte. Ho vissuto all’estero: in Francia la parità tra pubbliche e private è completa».
Il sottosegretario Gabriele Toccafondi, Ncd, ex Forza Italia, a Firenze sempre all’opposizione di Renzi, nelle ultime settimane ha lavorato agli sgravi fiscali, al buono scuola per i redditi bassi e all’estensione del 5 per mille anche agli istituti privati. Tutto questo, di concerto con il ministro Giannini. La proposta di sgravio prevede una detrazione del 19 per cento modulata sui redditi. Dice Toccafondi: «Non aiutiamo le scuole paritarie, a cui non diamo un euro in più, aiutiamo le famiglie che le frequentano. Non tutte oggi riescono a pagare la retta mensile, che alle materne e alle elementari viaggia tra i duecento e i quattrocento euro. La scuola è una sola: se cede la gamba delle paritarie cede anche quella delle statali, che certo non potrebbero sostenere un altro milione di studenti. Il fondo per le paritarie nel 2015 resta a 478 milioni, già tagliato di ventidue ».
L’Unione degli studenti scrive: «La lettera dei 44 parlamentari è vergognosa, i fondi alle paritarie private sono uno spreco e uno schiaffo a una scuola pubblica che sta vivendo una situazione drammatica».
il Fatto 2.3.15
Repubblica 2.3.15
Pippo Civati
“Più risorse agli istituti pubblici così si aiutano le famiglie”
ROMA «Sono per sostenere la scuola pubblica. Questo deve essere il nostro obiettivo». Pippo Civati, dissidente dem, non accetta meccanismi di finanziamento della scuola paritaria.
Civati, perché è contrario?
«Non conosco nel dettaglio la proposta dei 44 firmatari dell’appello a Renzi. Ma sono molto scettico e critico di fronte a misure di questo tipo. Dopo le esperienze nelle regioni amministrate dalla destra che hanno abusato di questo strumento, di fatto è stato impoverito, se non annichilito, il diritto allo studio. Ma non sono d’accordo anche per un altro motivo».
Quale?
«Difendo il concetto di laicità che sembra scomparso in un momento in cui a livello internazionale si parla di integralismi e fanatismi. E a livello nazionale si discutono temi sensibili come matrimoni gay e fine vita, per non parlare degli sconti fatti alla Chiesa con l’Imu. Non sono forse detrazioni, quelle?».
I 44 deputati dicono di voler aiutare chi non se lo può permettere a esercitare il diritto di scelta sancito dalla Costituzione.
«Mi fa piacere che si parli di indigenti perché il governo finora per loro non ha fatto nulla. Sul tema, tuttavia, sono per misure più radicali come il reddito minimo».
Porta chiusa anche a discuterne?
«Sono pronto a discutere di misure del genere solo una volta che la scuola pubblica sia stata messa in sicurezza con le risorse necessarie».
(a. cus)
il Fatto 2.3.15
Scuole, 8 su 10 a rischio chiusura
Da sud a nord non cambia
di Emiliano Liuzzi e altri
A NAPOLI SU 2000 COMPLESSI SCOLASTICI ALMENO 1300 NECESSITEREBBERO DI INTERVENTI DI RISTRUTTURAZIONE, IN 400 CI SONO TRACCE DI AMIANTO
di Emiliano Liuzzi con Annalisa Dall’Oca, Vincenzo Iurillo e Thomas Mackinson
Perché sulla carta la parola funziona sempre: “Una visita alla settimana”, disse Matteo Renzi appena proclamato presidente del consiglio. Poi lo hanno visto poco, un paio di volte, ovviamente. Stessa sorte i suoi ministri. Il governo aveva già data per cosa fatta anche l’assunzione degli insegnanti precari, ma la discussione viene rinviata e loro, quelli che a parole erano già assunti, restano lì ad aspettare. Benvenuti nel mondo della scuola, più grande disastro che non fiore all’occhiello. Non che manchino le eccellenze (poche), ma in alcune classi ci sono ancora i banchi di quarant’anni fa, quelli verdi e col buco. A volte sono messi anche peggio. Mancano gli insegnanti, le barriere architettoniche resistono, gli insegnanti non ci sono e i primi a mancare sono quelli per il sostegno dei bambini con minori abilità. Per non parlare delle strutture, quasi mai a norma, soprattutto antisismica. L’80 per cento delle scuole, se la legge venisse applicata alla lettera, verrebbero chiuse dalla sera alla mattina. Se facciamo un totale degli istituti si scopre che il 60 per cento è stato costruito prima del 1974, quando vennero varate le leggi sui criteri antisismici. E parliamo di una popolazione, quella studentesca, che conta 7.830.650 divisi in 370mila classi sparse in circa 42mila scuole, e 778.736 docenti. Numeri certi sono solo questi perché il Ministero dell’Istruzione si guarda bene dall’effettuare un censimento su quelli che sono i bisogni elementari e che non esistono: strutture, ovvio, ma anche biblioteche, palestre, sedie e banchi, lavagne, personal computer (una rarità) aule attrezzate.
Prendiamo l’Emilia Romagna. Aule nei container, istituti non a norma dal punto di vista sismico, pochi soldi e ancor meno insegnanti.
La campanella nei container
Nel maggio del 2012 le scosse sismiche devastarono 2.800 chilometri quadrati di scuole, case e fabbriche. A quasi tre anni di distanza dalla prima scossa, quella del 20 maggio ci sono ancora quelli che la mattina vanno a scuola in un container, o modulo provvisorio, dove le aule sono scatole accostate l’una all’altra, e l’unica consolazione è che il terremoto non potrà buttarle giù. Gli studenti dell’Ita Ignazio Calvi di Finale Emilia, sono al loro terzo anno scolastico nelle baracche, e così i ragazzi delle superiori Galilei di Mirandola, e i bambini iscritti alle primarie Sorelle Luppi di Solara, a Bomporto. Che prima di rivedere una scuola vera dovranno probabilmente, e se tutto va bene, aspettare il prossimo anno. Non va meglio, comunque, agli studenti dell’Emilia non terremotata, che pur con la possibilità di usufruire di scuole non provvisorie, sono spesso iscritti in istituti che non sono adeguati dal punto di vista della normativa antisismica. “Molte scuole in Regione sono state costruite negli anni Cinquanta, alcune anche molto prima, arriviamo fino al Cinquecento, come il liceo Galvani di Bologna, e sarebbe complicato valutare come intervenire”, spiega l’assessore alla Scuola dell’Emilia Romagna, Patrizio Bianchi. Dati precisi non ne ha, Bianchi, gli ultimi li fornì dopo il terremoto il Movimento 5 Stelle, secondo cui l’80 per cento delle scuole della regione all’epoca non era antisismico. Tecnicamente, quindi, non agibile. “Fino al 2005 l’Emilia Romagna non era nemmeno interessata dalla classificazione sismica, quindi i requisiti per costruire erano diversi”. E oggi, pur con le nuove prescrizioni normative, intervenire costa. La Regione spera di vedersi stanziare dallo Stato 70 milioni di euro, che verrebbero spesi per l’adeguamento antisismico, ma anche per costruire nuove scuole e ampliare quelle già esistenti, che le aule, in molti istituti, con gli studenti che aumentano annualmente, in media, di 9.000 – 10.000 unità, non bastano. “Vedremo cosa deciderà Roma”, conclude Bianchi. Resta poi il problema insegnanti. “Non ci sono abbastanza docenti in Emilia Romagna, né insegnanti di sostegno”, spiega Raffaella Morsia, segretario della Flc Cgil regionale, “così abbiamo aule sovraffollate, e ragazzi disabili assistiti a scuola solo per un numero limitato di ore. Una situazione insostenibile”.
Vedi Napoli e stenti a crederci
I dati sfornati dal sindacato Uil sono avvilenti anche in Campania. Sui circa 2000 complessi scolastici della provincia di Napoli, almeno 1300 necessiterebbero di interventi di ristrutturazione radicale, in 400 ci sarebbero ancora tracce di amianto, uno su dieci non è adeguato alle normative antisismiche. “Numeri da edilizia post bellica”, commenta amaro il segretario generale Uil scuola in Campania Salvatore Cosentino in una videoinchiesta di Fanpage. Per riparare questo sfascio, solo per la città di Napoli occorrerebbero 25 milioni di euro annui fino al 2018. Per la Campania occorrerebbe un miliardo di euro. Sono stati stanziati “solo” 183 milioni e funzioneranno tutt’al più come tampone. Un riparto che prevede 171,3 milioni di euro (3.669 progetti) per la piccola manutenzione; 3,304 milioni (7 progetti) per la messa in sicurezza delle scuole, la rimozione dell’amianto e delle barriere architettoniche; 8,3 milioni di euro (7 progetti) per la realizzazione di nuove scuole. Il rapporto del Centro Studi Ance di Salerno fornisce notizie ancora più inquietanti: in Campania gli edifici scolastici esposti a un elevato rischio sismico sono 4.872, mentre quelli a elevato rischio idrogeologico sono 1.017. Le scuole campane a rischio sismico rappresentano il 20,2% del totale nazionale; quelle a rischio idrogeologico il 16,3%.
E non c’è bisogno di andare in periferia: basta farsi una passeggiata per il centro di Napoli per trovare istituti storici – il liceo Sannazzaro, il Gianbattista Vico, il Conservatorio – transennati e cantierati fino a costringere gli studenti a fare complicati slalom per accedere alle classi. A Salerno le cose non vanno molto meglio: a gennaio è crollato il soffitto di un’aula dell’Istituto Giovanni XXIII, per fortuna era notte e non si è fatto male nessuno. L’edificio non era incluso tra quelli da restaurare secondo il nuovo piano del governo. E pochi giorni fa è crollato il soffitto della mensa della scuola elementare Aldo Moro di Vallo della Lucania: i bambini ora mangiano i panini in classe. Situazioni difficili. E a scendere verso sud la situazione non fa che peggiorare fino a raggiungere risultati da record negativi in Sicilia e in Sardegna dove il problema, oltre alla scuola è l’alfabetizzazione e l’abbandono scolastico.
Giù al Nord non c’è da sorridere
L’operazione scuola di Renzi un anno fa è partita dall’istituto Colletti di Treviso, nel cuore del Nordest produttivo. Bastava però andare 50 km più in là, a Fiume Veneto, per trovarne uno tanto decrepito che è stato poi chiuso per pericolo di crollo. Sbaglia, dunque, chi pensa che le regioni settentrionali siano messe tanto meglio che altrove. Sopra l’Emilia si contano 13.415 scuole, un terzo sono concentrate nella sola Lombardia (5.272), seguono Piemonte (3.217) e Veneto (2.948), Liguria e Friuli ne hanno un migliaio ciascuna. E come stanno? Non benissimo, stando al riparto dei fondi per la messa a norma e la manutenzione. La Lombardia conta 1,1 milioni di alunni e con 160 milioni di euro è in cima alla classifica per investimento pubblico: 82 per i problemi di sicurezza degli stabili, 10 per la manutenzione, 67 per la costruzione di nuove scuole che mettano fine al problema delle “classi pollaio” con più di 30 alunni. La difficoltà è nei numeri: 1.182.000 alunni, 107.703 docenti, 29.406 personale non docente (Ata). “Gli alunni sono aumentati gli organici no”, spiega il segretario della Flc-Cgil, Tobia Testori.. “Assistiamo a un aumento spropositato degli studenti per classe mentre la riduzione del personale tecnico-amministrativo sta mettendo a rischio vigilanza, assistenza e pulizia”. Entrando a scuola si scopre che nella “regione dell’eccellenza”, così la chiamava il suo ex governatore, regna uno stato d’agitazione permanente. Se restringiamo il campo alla Provincia di Milano 94 scuole sono ancora prive di un dirigente scolastico, i sindacati milanesi lamentano una “grave carenza di personale Ata negli istituti con più plessi, a rischio sicurezza, igiene e vigilanza”. Tante polemiche sulle classi con troppi “immigrati”, ma è mancata a tutt’oggi l’assegnazione di gran parte dei posti di sostegno all’integrazione degli stranieri. Il personale specializzato sul sostegno nel primo ciclo dell’istruzione è sotto di 500 posti. Il governo promette di stabilizzare i precari, ma nel milanese il personale docente e Ata registra una scopertura del 40% dei posti. Servono ancora tanti soldi. La “buona scuola”, su al Nord, non è scontata.
Ultimi crolli in aula
In questo caos numerico non sono mancati gli incidenti. Il distacco dell’intonaco nella scuola di Pescara pochi giorni fa fa ha causato ferimento di tre studenti, e non è che l’ennesimo incidente provocato dalle condizioni delle strutture. Il mese scorso, l’8 gennaio, era crollato l'intonaco di un soffitto in un asilo in Lombardia ferendo sette bambini. Un incidente avvenuto a distanza esattamente di un anno dalla disgrazia accaduta in un liceo di Lecce, l’8 gennaio del 2014, quando uno studente morì a scuola per la caduta in un pozzo di luce causata dal cedimento di una grata. E' stato questo uno degli episodi più gravi degli ultimi anni, tra gli incidenti a scuola, come quello del liceo Darwin di Torino dove nel 2008, a seguito del crollo di un controsoffitto, rimase ucciso uno studente di 17 anni e altri 17 furono feriti. Proprio qualche giorno fa la Cassazione aveva confermato le sei condanne, tre a carico di funzionari della Provincia di Torino e tre per gli insegnanti per il crollo del soffitto al liceo Darwin di Rivoli. Ma sono innumerevoli gli incidenti, anche di lieve entità, che nel corso degli anni hanno creato disagio e portato alla chiusura delle scuole che poi non sono mai state riaperte. Molte promesse. Come quella del giovane presidente del consiglio: una scuola alla settimana.
Corriere 2.3.15
Benedizione agli studenti nell’istituto del nipote di Prodi
I genitori ricorrono al Tar
di Francesco Alberti
BOLOGNA Il problema non è il diavolo, ma l’acqua santa, nella laica Bologna. Infiamma gli animi almeno da un mese, riproponendo contrapposizioni antiche e dispute davanti al Tar, la richiesta di tre sacerdoti del centro di poter impartire la benedizione pasquale in due scuole elementari e una media. Istanza avanzata con garbo («Il rito potrebbe svolgersi — hanno proposto i parroci — al termine delle lezioni, radunando gli studenti interessati in un luogo adeguato»), ma che si è schiantata contro il muro di tutti quei genitori e docenti secondo i quali «la scuola è un luogo dove si studiano tutte le religioni, ma non si celebrano riti».
Posizione per nulla condivisa dal presidente del consiglio d’istituto, Giovanni Prodi, nipote dell’ex premier Romano, convinto che «la benedizione, nelle modalità richieste, sia legittima anche rispetto alla Costituzione, e non discriminatoria». Dello stesso avviso il consiglio d’istituto che, a grande maggioranza, ha dato il via libera al rito, a patto che si svolga fuori dalle lezioni e alla presenza dei genitori.
Per tutta risposta, il blocco laico (Cgil, Comitato Scuola e Costituzione, Unione Atei) ha impugnato l’atto di fronte al Tar, forte di un precedente del ’92 che dichiarò illegittima una circolare ministeriale che ammetteva cerimonie religiose in attività extrascolastica. Ad aggiungere pepe al braccio di ferro si è inserita ieri la Curia, che, pur riconoscendo «la legittimità del ricorso al Tar», invita di fatto i laici a rinunciarvi «per rispettare l’autonomia di una scuola che si è espressa in maniera schiacciante». In caso contrario, scrive il direttore dell’ufficio diocesano don Raffaele Buono, si dà la sensazione che «si voglia rovesciare il banco perché le proprie illuminate considerazioni non fanno breccia nel cuore dei più». Anche perché, è la conclusione venata di polemica, «l’effetto della benedizione, per chi non crede, sarà certo meno preoccupante dello sventolare di una bandiera nera».
il Fatto 2.3.15
Italia regno delle slot: 113mila punti
SLOT VINCE Esistono almeno 113 mila esercizi in Italia dove è possibile accedere alle macchine mangiasoldi (traduzione letterale di slot machine). La maggior parte di questi si concentra nelle zone turistiche costiere e nelle grandi aree urbane: per queste realtà è stato coniato il termine “mini-casinò”. Nel 2013 Genova e Trento guidavano la classifica delle città con maggiore concentrazione di esercizi dedicati, legati a maggiore frequenza di gioco e quindi di perdite, con i relativi costi sociali e sanitari della dipendenza. In entrambi i comuni sono stati varati regolamenti contro la proliferazione delle slot stabilendo distanze minime da scuole, parchi e altri luoghi a rischio. Le slot incassano più della metà dei soldi che gli italiani spendono per il gioco d’azzardo legalizzato: 48,7 miliardi di euro su 87 nel 2012, secondo l’Agenzia delle dogane e dei monopoli. Dal 2004 le giocate nel nostro Paese sono aumentate di dieci volte.
IL TAVOLO PIANGE La crisi in cui versano i casinò italiani non conosce pause. Il settore conta perdite del 10% l’anno e i pullman pieni di giocatori cinesi che ogni giorno approdano nelle case da gioco sono solo una boccata d’ossigeno in quello che sembra ormai un inesorabile declino. E le città che li ospitano, San Remo, Campione, Venezia e Saint Vincent (Valle d’Aosta), rischiano di seguire lo stesso destino. Solo tre anni fa i campionesi erano secondi per reddito pro-capite in Italia. Oggi nascono con 14.500 euro di debito in culla. Il Casinò più grande d'Europa, si è inceppato (e non solo per la crisi) e il Comune che lo controllava come un bancomat ora è nei guai fino al collo: per far fronte a 90 milioni di perdite ha avviato vendite straordinarie e tagli al personale. Le ragioni della crisi sembrano molte, e vanno dalla situazione generale del Paese alla diffusione delle sale slot e del gioco online che invece registra un aumento continuo del volume d’affari. Altro problema che secondo gli addetti ai lavori ha peggiorato la situazione è stato l’ulteriore restringimento della normativa antiriciclaggio che prevede un massimo di 7.500 euro per le giocate in contante e di 1.000 euro per cambiare le fiches. Così, molti preferiscono la concorrenza dei paesi d’Oltralpe. In Austria, Svizzera, Slovenia e Francia questi limiti non esistono.
Repubblica 2.3.15
L’ira del cardinale: “C’è una campagna per l’eutanasia”
di Simona Poli
FIRENZE Nella giornata dedicata al malato il cardinale di Firenze Giuseppe Betori attacca quella che definisce «l’ossessiva campagna a favore dell’eutanasia scatenatasi proprio in questa città in questi giorni». Il riferimento rimanda, sembra, alla testimonianza apparsa su Repubblica di un infermiere caposala dell’ospedale fiorentino di Careggi che raccontava per esperienza diretta (ma senza rivelare la sua identità) come in alcuni casi disperati di malati terminali, o comunque non più recuperabili a parere dei medici, i parenti stessi avrebbero fatto capire di desiderare l’interruzione delle terapie. Una sorta di patto silenzioso stretto tra familiari e operatori sanitari in assenza di una legge che regoli la linea da seguire nel momento della fine della vita.
«La trasfigurazione di Gesù», dice Betori celebrando la messa ieri nella basilica di San Lorenzo, «svelando la dimensione sacra del corpo, della persona, esclude ogni sua commercializzazione (come purtroppo avviene in certe pratiche di fecondazione artificiale), non ne ammette l’umiliazione (come accade quando il malato viene ridotto a un caso clinico o, peggio, diventa strumento di sperimentazione), non ne accetta l’abbandono applicando anche in questo campo», prosegue il cardinale, «la cultura dello scarto così diffusa nella nostra società», e si oppone «alla negazione del suo valore, come quando non si rispetta l’indisponibilità della vita umana».
Che poi, attacca il cardinale, è proprio «quanto si cerca di imporre alla nostra società: basta leggere l’ossessiva campagna a favore dell’eutanasia, scatenatasi proprio in questa città in questi giorni, a partire da dichiarazioni il cui volto anonimo dovrebbe già squalificare chi le avrebbe rilasciate, ma ancor più chi vorrebbe imporcele come una verità e pretenderebbe che noi credessimo ad esse in ogni caso, senza che ne venga data la possibilità di verificarne l’autenticità».
Betori sostiene che si debbano trarre «importanti indicazioni per il modo con cui dobbiamo collocarci di fronte al corpo malato». Perché, spiega, «anche quando ci appare nella debolezza della malattia, esso è un corpo destinato alla trasfigurazione della vita risorta». Di questo dovrebbero tener conto, secondo il cardinale, «medici, infermieri, inservienti e parenti». E, aggiunge, «gli stessi malati».
Corriere 2.3.15
Danni erariali. Paga solo l’1,4%
Negli ultimi 6 anni la Corte dei conti ha condannato evasori e corrotti a pagare 5 miliardi: e lo Stato ha incassato 68 milioni. Un allarme che la magistratura contabile lancia da anni, inascoltata.
di Sergio Rizzo
Danni allo Stato, condanne per 5 miliardi Ma in sei anni recuperati solo 68 milioni
L’allarme della Corte dei conti: la somma restituita ammonta all’1,4% dei risarcimenti
È una presa in giro. Questo ti viene da pensare dopo aver scoperto che negli ultimi sei anni lo Stato, le amministrazioni locali e le società pubbliche hanno recuperato appena l’1,4 per cento della somma derivante dalle condanne della Corte dei conti per danno erariale. E fa ancora più rabbia se si pensa alle dimensioni di quella cifra, non lontane da quelle di una manovra economica. Fra il 2009 e il 2014 la magistratura ora presieduta da Raffaele Squitieri ha appioppato condanne per 4 miliardi 898 milioni 4.014 euro e 59 centesimi: ma del frutto dei procedimenti conclusi in quei sei anni, nelle casse pubbliche non sono entrati che 68 milioni 726.010 euro e 44. Questo significa che per ogni 100 euro di risarcimenti ben 98,60 non sono stati fisicamente pagati.
Non hanno pagato i ladruncoli della cosa pubblica. Non hanno pagato gli amministratori incapaci, o peggio infedeli. Ma nemmeno gli evasori pizzicati a frodare il Fisco. Né i corrotti. Né i politici abituati a trattare il denaro di tutti come il denaro di nessuno. E se è inaccettabile che in un Paese con il record europeo dell’inefficienza amministrativa e della corruzione i disonesti la facciano franca perfino quando devono restituire ai contribuenti il maltolto, è inevitabile chiedersi di chi sia la colpa.
Da anni la Corte dei conti lancia l’allarme su una situazione che non soltanto priva l’Erario di incassi giganteschi, ma fatto ancor più grava alimenta il senso di impunità e dunque il diffondersi di comportamenti illegali nella pubblica amministrazione. Allarme, va detto con estrema chiarezza, rimasto sempre inascoltato.
Il fatto è che dopo aver emesso la sentenza di condanna la magistratura contabile non ha più alcun potere sulla sua esecuzione materiale. Quella tocca al soggetto pubblico danneggiato, che però non è sempre così solerte nell’aggredire il condannato. Per giunta anche la competenza a valle sull’esito materiale delle sentenze non è del giudice contabile, ma di quello ordinario. Capita spesso, e non per semplice sciatteria, che la pratica vada in prescrizione dopo che sono trascorsi i previsti dieci anni di tempo senza che sia stata messa in atto alcuna azione di recupero. Ci si mette poi la farraginosità delle procedure esecutive sulle proprietà immobiliari. Per non parlare dei furbi che quando arriva l’ufficiale giudiziario risultano nullatenenti perché hanno ceduto tutto al consorte o a un prestanome.
Che ci voglia del tempo per prendere i soldi è comprensibile. Lo dimostrano gli stessi dati elaborati dalla Corte dei conti, secondo cui negli ultimi sei anni sono stati recuperati in tutto 148,8 milioni, di cui 68,7 relativi alle condanne emanate nel periodo e ben 80,1 per le cause precedenti al 2009. Il problema è se esista sempre la determinazione necessaria, anche da parte di chi deve scrivere le regole. E qui qualche dubbio non può che venire.
Per esempio, poteva nell’Italia dei condoni non esserne previsto uno per il danno erariale? L’hanno fatto nel 2005, e se quel condono ha consentito di recuperare forse somme maggiori rispetto a quelle soggette con le procedure ordinarie, non c’è dubbio che per chi ha rubato 300 mila euro cavarsela pagandone sull’unghia 60 mila è stato un bel vantaggio. Ancora. Per quanto sia difficile da credere, i crediti che le amministrazioni e le società pubbliche vantano nei confronti di un soggetto privato condannato per danno erariale non sono privilegiati: vengono pagati alla fine, anche dopo i debiti con le banche. Il risultato è che quando il privato in questione fallisce è matematico che lo Stato non vedrà mai i soldi.
Da anni, dicevamo, la Corte dei conti si lamenta inascoltata di questa situazione. Eppure metterci rimedio non sarebbe così complicato. Basterebbe prendere seriamente in esame alcune proposte che vengono dalla medesima magistratura. Per prima cosa affermare il principio che il credito dello Stato per danno erariale è assolutamente privilegiato: chi mai potrebbe contestare una cosa del genere? Quindi abolire il termine di prescrizione decennale per le esecuzioni a carico dei condannati a risarcire i contribuenti. Ma anche affermare la competenza ad agire per il recupero al pubblico ministero contabile, il quale dovrebbe girare le somme incassate coattivamente al ministero dell’Economia, che a sua volta le riverserebbe alle amministrazioni. Inoltre, alla Corte dei conti si giudica opportuno introdurre alcuni accorgimenti per facilitare la riscossione delle somme. Si pensa a una procedura simile al patteggiamento nel giudizio penale, da cui sarebbero esclusi comunque i processi per appropriazione di denaro pubblico. Una ipotesi che secondo i magistrati contabili potrebbe anche contribuire a ridurre il numero dei procedimenti. Gli daranno mai retta a Squitieri e ai suoi?
Che bello comprarsi gli oppositori...!
Repubblica 2.3.15
Il lavoro.
Dopo il contratto a tutele crescenti, l’esecutivo prepara i nuovi decreti attuativi della riforma. Cambia il collocamento
Il governo “ingaggia” i sindacati nel Jobs Act se piazzano i disoccupati il servizio è retribuito
di Federico Fubini, Roberto Mania
ROMA Una nuova vocazione per i sindacati nel ruolo di agenzie, remunerate dallo Stato e impegnate a reinserire i disoccupati in nuovi posti di lavoro. Se necessario, operando anche in regime di concorrenza aperta e trasparente con le multinazionali del settore come Manpower o Adecco.
Manca solo la firma del presidente della Repubblica Sergio Mattarella (potrebbe arrivare oggi) perché nei prossimi giorni entri in vigore la prima fase della riforma del lavoro, quella sul contratto flessibile a tutele crescenti. Nel frattempo nel governo si stanno preparando gli altri decreti per attuare la legge-delega di dicembre scorso, quella che fissa le linee di fondo del Jobs Act. Fra i cantieri aperti, uno in particolare è certamente destinato a riaprire il confronto fra Palazzo Chigi e i sindacati e, se tutto andrà come previsto, a trasformare il ruolo delle parti sociali in Italia. Entro l’inizio di maggio il governo deve approvare il nuovo assetto delle “politiche attive”, le strutture destinate a prendere in carico i disoccupati e aiutarli a trovare un nuovo impiego. È su questo fronte che a Palazzo Chigi si sta preparando un’offerta ai sindacati: anch’essi, anzi soprattutto loro, potrebbero operare come vere e proprie agenzie per l’impiego e incassare il premio previsto per ciascun ricollocamento riuscito di un disoccupato. La sola condizione è che l’impiego sia assicurato in base al nuovo contratto a tutele crescenti.
Che funzioni o meno sul tessuto dell’economia italiana, un’idea del genere ha implicazioni politiche evidenti: coinvolgere e cointeressare le rappresentanze dei lavoratori, favorevoli o contrarie al Jobs Act, alla messa in opera della riforma. L’effetto immediato in realtà può anche spiazzare le confederazioni e metterle di fronte a dilemmi laceranti. La Cgil, da sempre avversa all’impianto del Jobs Act ma anche al modello del “sindacato di servizi”, difficilmente potrebbe accettare l’offerta del governo di agire a sostegno del collocamento per i disoccupati. Ma pure per il sindacato di Susanna Camusso chiudersi in una torre d’avorio rischia di diventare sempre più complicato, soprattutto se le altre confederazioni aderiranno al progetto e ne deriveranno tutti i benefici finanziari e nell’aumento, indiretto, degli iscritti.
L’impianto di fondo resta quello proposto più di un anno fa al governo di Enrico Letta da Pietro Ichino, il senatore eletto con Scelta Civica e ora passato al Pd. Ichino guarda al modello olandese: ogni disoccupato riceve un sussidio e viene preso in carico da un centro pubblico per l’impiego, che poi lo affida a un’agenzia per il lavoro. Quest’ultima può anche essere privata e no-profit, e verrà remunerata dal centro per l’impiego con un voucher quasi tutto pagabile solo in caso di successo. Se il disoccupato rifiuta uno o più posti, l’agenzia lo segnala al centro per l’impiego che potrà ritirargli l’assistenza. Quando invece l’agenzia riesce a rimettere il disoccupato al lavoro, potrà incassare un voucher che varia in base alla difficoltà del caso. Ricollocare i lavoratori più specializzati può fruttare in media circa 950 euro, il voucher sui meno qualificati potrebbe valerne circa 2.500, mentre sui casi più difficili in assoluto non è impossibile arrivare a premi da 6.000 euro all’agenzia per il lavoro. La competenza su queste scelte sarà solo statale con la riforma del federalismo in Costituzione attesa per il 2016, ma condivisa con le Regioni nel frattempo.
Il punto di svolta è nei criteri di selezione per accreditare le agenzie per l’impiego. Palazzo Chigi è orientato a richiedere un profilo che corrisponde da vicino a quello dei grandi sindacati: una struttura a rete su tutto il territorio nazionale, stretti rapporti con le realtà produttive di ogni regione, una buona capacità di bilancio. Possono essere operatori for profit come Manpower, ma anche privati no profit come le parti sociali. Per i sindacati può diventare un’occasione irripetibile di radicare la propria presenza e rafforzare il bilancio. Oggi le confederazioni vivono una pressione finanziaria notevole, a maggior ragione dopo i tagli nell’ultima Legge di stabilità: il fondo per i patronati sindacali, che sbrigano pratiche per pensionati o cassaintegrati, è sceso di 35 milioni di euro.
Certo il sistema può essere aperto anche ad associazioni come Confagricoltura o quelle degli artigiani. E in realtà già oggi la Uil, per esempio, è attiva in alcune aree del Sud nel collocamento delle badanti. Ma non ci sono premi in denaro in caso di successo, un’opzione lontana dalla cultura anche dei sindacati più aperti sul Jobs Act. «È un bene che partano le politiche attive e siamo disposti a favorirle in organismi bilaterali con le imprese – dice Luigi Petteni della Cisl – ma non accetterei mai di guadagnare ricollocando un lavoratore». Perplesso anche Guglielmo Loy della Uil. Serena Sorrentino, responsabile delle politiche del lavoro della Cgil, preferisce invece non entrare nel merito: «È già tutto nella legge delega sul Jobs Act», si limita a dire.
Repubblica 2.3.15
Soci Rcs divisi sulla cessione dei libri a Mondadori
di Giovanni Pons
MILANO . Inizia un mese determinante per il futuro di Rcs Mediagroup. Per oggi è prevista la riunione del consiglio che deve analizzare la proposta di acquisto della Rcs Libri arrivata dalla Mondadori. È una offerta non vincolante e per un prezzo compreso tra 120 e 150 milioni, che in molti collocano intorno a 135 milioni, e che richiede comunque un periodo di due diligence che può durare da uno a due mesi. Diversi azionisti non trovano opportuno che un cda in scadenza prenda una decisione così importante riguardo una partecipazione la cui dismissione non era prevista dal piano industriale di Pietro Scott Jovane. Ma evidentemente la situazione finanziaria si è complicata nell’ultimo scorcio del 2014 e il gruppo ha una forte necessità di fare cassa per cercare di rispettare i vincoli decisi con le banche nel luglio 2014. Questi accordi prevedono che a settembre 2015 Rcs dovrà avere un rapporto tra posizione finanziaria netta e Ebitda (Mol) non superiore a 4,5. Se il rapporto non venisse rispettato dovrà essere sanato con la vendita di asset non strategici non inferiori a 250 milioni. E se tutto ciò non avvenisse entro la fine del 2015 il cda dovrà esercitare la delega sul secondo aumento di capitale già deliberato e pari a 190 milioni.
Poiché risulta difficile vendere le radio e alcuni asset spagnoli, il management nelle ultime settimane ha preso in considerazione la vendita di Rcs Libri che in bilancio è valutata 180 milioni. Ipotizzando che i 135 milioni incassati andassero tutti a ripianamento del debito la situazione debitoria scenderebbe da 480 a 345 milioni e per rispettare i parametri con le banche occorrerebbe un Ebitda di 76 milioni a settembre, contro i circa 40 previsti a fine 2014. Dunque la vendita non sarebbe sufficiente a rispettare in pieno i parametri ma consentirebbe un passo in avanti. Il problema è che gli azionisti sono divisi sia sul tema dismissioni, sia su come formare le liste per il nuovo cda che devono essere depositate entro fine marzo. La Fiat è ancora il primo azionista con il 16,7% ma non riesce a coagulare intorno a sé un consenso sufficiente e potrebbe anche decidere di sfilarsi. Mediobanca con il 6,2% può ancora risultare l’ago della bilancia anche se l’ad Alberto Nagel ha previsto la totale dismissione della quota mentre il suo azionista Unicredit, nelle vesti del vicepresidente Fabrizio Palenzona, vorrebbe mantenerla in portafoglio. Nelle ultime settimane si è poi registrato un ritorno di interesse per la questione Rcs da parte di Marco Tronchetti Provera, che con la Pirelli ha ancora il 4,4% del capitale, e di Intesa Sanpaolo, con il 4,2%, entrambi contrari a una vendita frettolosa della Libri. Appena più in basso, con il 3%, Urbano Cairo ha messo in guardia contro decisioni strategiche avventate e fatte solo per far cassa mentre Paolo Rotelli, con il 2,7%, lamenta la mancanza di un piano industriale forte che consenta ad Rcs di uscire dalle secche. Last but not least Diego Della Valle, secondo socio con il 7,3%, da tempo contesta il modo di operare di questo management considerato troppo in linea con le indicazioni che arrivano da Torino.
In una situazione così fluida è possibile che il cda oggi decida di andare avanti nelle trattative con Mondadori ma facendo in modo che la chiusura dell’operazione venga effettuata quando il nuovo cda sarà in carica, verso fine aprile, una volta conclusa la due diligence. E se il consiglio dovesse essere totalmente rinnovato, il nuovo management dovrebbe avere la possibilità di elaborare un altro piano che non preveda la vendita di Rcs Libri. Nel frattempo, entro fine mese, i colloqui tra gli azionisti dovrebbero sortire un qualche accordo su liste, management e nuovo direttore del Corriere della Sera. Ma la strada non sembra in discesa.
6
Repubblica 2.3.15
“RaiWay strategica, c’è il diritto di veto”
Nella sua lettera alla Consob, la tv di Stato ricorda che il premier può bloccare la cessione delle torri televisive grazie al “golden power” sui settori di rilievo nazionale. Confalonieri spiega al governo la mossa di Mediaset
di Aldo Fontanarosa
ROMA Per difendere le sue torri tv dall’assalto aggressivo di Mediaset, la Rai gioca la carta del “golden power”. Rivelano fonti vicine al ministero dell’Economia che - nella sua lettera alla Consob - la televisione di Stato chiama in causa la legge 56 del 2012. E cioè le norme che mettono sotto speciale protezione i settori di «rilevanza strategica » del Paese come l’energia, i trasporti e appunto le comunicazioni.
Matteo Renzi – ricorda la Rai – il 26 febbraio ha confermato che la televisione di Stato non deve scendere sotto il 51% nella sua società delle antenne (RaiWay), da conservare dunque al pieno controllo pubblico. Queste parole hanno un forte valore politico, simbolico. Ma assumono anche rilievo istituzionale perché la legge 56 del 2012 assegna al presidente del Consiglio un potere di veto su operazioni (come «fusioni, cessioni di diritti reali, assunzioni di vincoli») che investano imprese di Stato dal rilievo strategico, come è appunto RaiWay. In linea teorica, la casa madre Rai potrebbe anche vendere la sua società dei ripetitori; ma la delibera andrebbe notificata alla Presidenza del Consiglio che avrebbe il potere di imporre delle condizioni alla cessione oppure di bocciarla. E le parole di Renzi lasciano intendere che il veto verrebbe esercitato senza se e senza ma.
Nella sua missiva alla Consob, la Rai precisa subito che una cessione dei ripetitori a Mediaset – pronta a comprarli al 100 per cento – sarebbe un esercizio solo teorico e virtuale, appunto. Perché un ostacolo alla vendita è già scritto nero su bianco nel decreto del 2 settembre 2014 che condiziona la quotazione di RaiWay al mantenimento del 51 per cento in capo a Viale Mazzini. Ora questo decreto del Presidente del Consiglio (un “dpcm”) non ha la forza di una norma primaria, essendo atto amministrativo con valore di norma secondaria. Ma il suo vigore giuridico – osserva la televisione di Stato – deriva anche dalla legge 89 del 2014 (questa sì, primaria) che le sta sopra. E che ha autorizzato, in via generale, la cessione di quote delle aziende controllate dalla Rai, per fare cassa.
Infine la televisione pubblica ricorda il Contratto di Servizio che fissa i suoi doveri verso gli italiani e lo Stato. All’articolo 6 il Contratto impone alla Rai di governare la sua rete di ripetitori nel solo interesse della collettività nazionale, secondo standard che sono in contrasto con una gestione privatistica.
La legge sul “golden power”. Poi le leggi e i dpcm del 2014. Quindi il Contratto di Servizio in vigore. Per questo insieme di ragioni, Viale Mazzini ritiene che l’offerta Mediaset per le sue antenne (Opas) «non possa essere valutata», ed è dunque irricevibile.
Ma il gruppo Berlusconi non si arrende e, in attesa di leggere la risposta di Rai alla Consob, affida al presidente Confalonieri il compito di spiegare ai più influenti esponenti del governo il senso della mossa di Mediaset.
Sullo sfondo della partita delle torri tv, i partiti trattano sulla possibile riforma della Rai. Intervistato da Lucia Annunziata a In mezz’ora, Roberto Fico spiega come i grillini immaginano l’assetto della televisione di Stato, che dovrebbe avere intanto 5 soli consiglieri di amministrazione (contro i 9 di oggi, nove). I consiglieri andrebbero scelti dal Garante per le Comunicazioni sulla base del loro curriculum professionale, mentre verrebbe semplicemente abolita la commissione di deputati e senatori che oggi vigila su Viale Mazzini.
E il Pd continua ad aprire alle idee grilline. Il deputato Michele Anzaldi esprime dubbi solo su un punto: «Non sono convinto sulla cabina di regìa al Garante, perché lì siedono ex parlamentari di Berlusconi», spiega via Twitter.
Corriere 2.3.15
La Russia di Putin e le relazioni imbarazzanti
di Angelo Panebianco
qui
«Gli ambasciatori del Regno Unito, della Francia e della Germania marciano insieme, sotto il cielo grigio, verso il luogo dove è stato assassinato l’avversario di Putin. Ognuno porta un mazzo di fiori. L’ambasciatore d’Italia non c’è»
Corriere 2.3.15
Giusto deporre un fiore italiano Più importante spiegare perché
di Beppe Severgnini
M atteo Renzi mercoledì sarà a Mosca, dove incontrerà Vladimir Putin. Ieri, dopo che gli è stata ricordata pubblicamente l’opportunità del gesto, ha fatto sapere: deporrà un fiore sul luogo dell’omicidio di Boris Nemtsov. Meglio tardi che mai, vien da dire.
C’è una bella immagine che arriva dalla Russia. Gli ambasciatori del Regno Unito, della Francia e della Germania marciano insieme, sotto il cielo grigio, verso il luogo dove è stato assassinato l’avversario di Putin. Ognuno porta un mazzo di fiori. L’ambasciatore d’Italia non c’è. Abbiamo mandato — la conferma ieri dalla Farnesina — «un funzionario di medio livello all’interno di una delegazione Ue».
Federica Mogherini? La guida (teorica) della politica estera europea s’è limitata a una dichiarazione di due paragrafi, dove esprime «indignazione» e «profonda tristezza» e si augura che «le autorità russe conducano una piena, rapida e trasparente indagine, portando i colpevoli di fronte alla giustizia». Rapida e trasparente indagine, nella città di Anna Politkovskaja? Giustizia, nel paese di Boris Berezovskij? Come Alto Rappresentante, bisogna dire, Mogherini tiene un profilo ben basso.
Ogni governo d’Europa vorrebbe una Russia pacifica, seria, affidabile. Tutti sanno quanto sarebbe importante averla accanto nella lotta ai fanatici dell’Isis. La grande maggioranza di noi sperava che dalle macerie del comunismo uscisse di meglio di questa rapace autocrazia. A Vladimir Putin non possiamo perdonare tutto in nome del quieto vivere. Come spiega oggi Angelo Panebianco, come dimostrano Crimea e Ucraina, non si vive quietamente accanto a personaggi così.
Matteo Renzi è giovane, ma non è ingenuo. Sa che nella vita, degli uomini e delle nazioni, bisogna scegliere. Anche Londra, Berlino e Parigi hanno importanti legami economici con la Russia; ma davanti all’aggressività e alla falsità non hanno esitato a dire al Cremlino ciò che merita. Non esiste una via di mezzo tra le democrazie dell’Unione Europea e le ambizioni di un uomo, la cui parabola sembra segnata. Putin governa un’economia al collasso e una moneta in caduta libera. Fino a quando l’eccitazione nazionalista farà dimenticare la pancia vuota? Per quanto tempo ancora la cleptocrazia che lo circonda, bloccata dalle sanzioni, rinuncerà a frequentare le proprie lussuose residenze in Europa, acquistate chissà come?
Boris Nemtsov è morto. È una buona cosa deporre quel fiore italiano. Ma è più importante spiegare perché.
il Fatto 2.3.15
La manifestazione
Folla per Nemtsov: “Non ci fate paura”
di Giuseppe Agliastro
In Russia l’opposizione non è morta. Lo dimostrano le decine di migliaia di persone che ieri hanno sfilato nel centro di Mosca per ricordare Boris Nemtsov: l’avversario politico del Cremlino fatto fuori a colpi di pistola venerdì notte a pochi passi dalla piazza Rossa. Ma per chi è sceso in strada il corteo è stato anche un’occasione per protestare contro lo strapotere dello ‘zar’ Vladimir Putin, contro la corruzione, contro la guerra nel Donbass. E anche contro la crisi economica che tanti dissidenti legano al braccio di ferro delle sanzioni tra Mosca e Occidente per l’Ucraina. È insomma come se la marcia anticrisi di primavera organizzata dall’opposizione non fosse mai stata annullata a causa dell’uccisione di Nemtsov, ma semplicemente spostata dal quartiere periferico di Marino (dove l’avevano relegata le autorità) al centro. Il corteo è partito alle 15 dal Kitaigoroskij proezd tra bandiere russe listate a lutto e foto dell’ex vice premier. “Russia senza Putin! ” urlavano i manifestanti, molti con in mano mazzi di rose o di garofani da lasciare sul ponte Bolshoj Moskvoretskij, nel posto in cui Nemtsov è stato ammazzato. E ancora: “No alla guerra! ”. Tra i tanti tricolori c’era persino qualche bandiera gialla e blu dell’Ucraina. Serghiei, 20 anni, ha in mano un cartello con su scritto “La propaganda uccide”. Secondo lui l’omicidio di Nemtsov “è il risultato della propaganda” del Cremlino, un gesto di qualcuno che “ha creduto ai media di regime che dipingevano” l’oppositore “come un traditore che voleva vendere la Russia agli Stati Uniti solo perché era contrario alla guerra”. Ma non esclude neanche che a voler Nemtsov morto sia stato Putin in persona. Tra i dimostranti sono in tanti a pensarla così. “Chi è il prossimo? – recita uno striscione – In prigione o direttamente nella bara? ”. Maia, un’insegnante di 47 anni, agita invece un altro cartello: “Non ho paura”. “Non mi è mai piaciuto Nemtsov – spiega – ma quello che è successo è terribile: un politico ucciso vicino alla piazza Rossa, in una zona piena di telecamere e poliziotti. Non so se a ordinare questo terribile omicidio sia stato Putin, ma è inquietante”. Vitalij, un corpulento avvocato di 52 anni, partecipa alla dimostrazione assieme al figlio ventenne Andrej, e di Nemtsov era un convinto sostenitore: “Ha sempre lottato per rendere la Russia un Paese libero – racconta -, e per la divisione dei poteri: un principio base della democrazia, mentre adesso il potere è tutto nelle mani di una sola persona”. La stragrande maggioranza di chi protesta contro il governo si dice anche certa della presenza di soldati russi nel sud-est ucraino. E, al contrario di molti connazionali, condanna l’annessione della Crimea.
Intanto proseguono le indagini sull’uccisione di Nemtsov, di cui è stata testimone la giovane Anna Duritskaja, la modella ucraina compagna dell’oppositore. E – proprio mentre spunta un video a bassa definizione del momento del delitto - gli investigatori promettono 48.000 dollari a chi aiuti a risalire ai killer. Le ipotesi sono le più varie: si va dal tentativo di "destabilizzare" lo Stato, all'estremismo islamico (Nemtsov era ebreo e aveva condannato il massacro di Charlie Hebdo), dal conflitto in Ucraina alla vita sentimentale della vittima. Ovviamente tra le piste seguite non c'è quella dell'omicidio ordinato dal Cremlino. Ieri uno dei leader dell’opposizione, Ilya Yashin, ha confermato che Nemtsov stava lavorando a un dossier sulla presenza di truppe russe nel Donbass. Secondo il presidente ucraino Petro Poroshenko, è stato ucciso per questo.
Repubblica 2.3.15
Avviso all’Occidente
di Vittorio Zucconi
VENTIQUATTRO anni dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre del 1991 e la promessa di una nuova era di governo di leggi e non di oligarchie, mafie o gang di imbalsamati boiardi, è ancora mezzanotte a Mosca, buia come la sera d’inverno che ha inghiottito Boris Nemtsov. Il suo assassinio, eseguito con lo stile del «contract killing», dell’esecuzione politica o mafiosa deliberatamente sotto le mura del Cremlino e all’ombra delle cupole di San Basilio, riporta la Russia di Putin nel suo mistero storico.
Nel cuore di questo enigma c’è oggi Vladimir Putin. Nessuno dei leader internazionali che hanno condannato questo omicidio, da Obama a Mattarella, ha osato, né avrebbe potuto, attribuire al piccolo Zar la responsabilità dell’omicidio. Ma spetta a lui, che tutto può e dunque di tutto deve rispondere, sciogliere quel gomitolo sempre più tossico di incertezza, di dubbi, di oscurità, di avventurismo che avvolge l’ex colonnello del Kgb ormai di fatto o di nome padrone di tutte le Russie dal 1999, sotto diversi cappelli.
La folla di decine di migliaia di moscoviti che ieri hanno deposto fiori e icone sul luogo dove Nemtsov è stato abbattuto, che hanno sfilato nel centro della città proclamando «Io non ho paura» e «Je suis Boris», non aveva dubbi su chi fosse il mandante del «contratto » e sul perché fosse stato eseguito, per coprire le rivelazioni sull’intervento mascherato da irredentismo in Ucraina che il caduto aveva preannunciato.
Ma le certezze delle folle indignate, e insieme coraggiosissime in una nazione dove giornalisti, concorrenti economici, avversari politici hanno il difetto di finire in carcere o di essere uccisi, non sono certezza giudiziarie. Sono soltanto il portato di quel clima velenoso di odio nazionalistico e di rancore panrusso che lo stesso Putin sta fomentando da mesi, per coprire con il collaudato trucco del patriottismo attorno alla «Rodina», alla patria minacciata e offesa, la difficoltà crescente della sua amministrazione, fra crisi finanziarie e cattivo governo.
Lo stesso Putin ha capito immediatamente, promettendo alla madre della vittima di scoprire gli autori e tentando, molto cinicamente, di spiegare che Boris Nemtsov ormai era un signor nessuno quasi a volere dire che neppure valeva la pena di farlo fuori, che c’è un’elementare verità in quella morte: che l’assassinio di un uomo politico è sempre un fatto politico e dunque va politicamente, non solo giudiziariamente, affrontato. Una verità che anche le nazioni occidentali che vantano sistemi democratici meno rudimentali di quello russo post sovietico hanno sperimentato, quando il sangue di loro grandi esponenti e dirigenti politici, da Kennedy ad Aldo Moro, è stato sparso sulle strade.
Putin deve quindi una risposta politica alle nazioni dell’Europa Occidentale, dell’Asia, dove pure la Cina gli ha offerto qualche sponda, delle Americhe, ma soprattutto della sempre più inquieta Europa Orientale e Balcanica che tendono a tornare, istintivamente, al «default», alla condizione del timore storico di fronte all’espansionismo russo verso Ovest. Il sempre infido e ingannevole esercizio del «cui prodest » indurrebbe a pensare che non sia stato il Presidente russo a ordinare la soppressione di un oppositore non particolarmente pericoloso e di farne quindi un martire più grande in morte di quanto fosse in vita, ma questo cambia ben poco.
È il fatto che un politico di opposizione, un avversario, possa essere freddato su un ponte all’ombra del simbolo massimo del suo potere, quello che richiede una spiegazione. È la persistenza di un clima di intimidazione, di censura violenta, quella che fa definire «inesistente» la libertà di stampa in Russia dai “Reporters sans frontières”, a imporre chiarezza, non bullismo o ricatti o prepotenze.
È ovvio che nessun rapporto potrebbe essere possibile con un capo di Stato che organizzasse l’omicidio a pagamento di un nemico politico, secondo lo stile dei Nazisti o della Ghepeù staliniana. Il rischio del “putinismo” dopo Nemtsov sarebbe il ricorso a una stretta ancora più rigida della illibertà interna, secondo lo schema mussoliniano del dopo delitto Matteotti. Ma per il resto del mondo, e per l’Europa in prima fila, il pericolo è forse ancora più acuto di quanto fosse decenni or sono nel tempo dello stalinismo o del breznevismo ed è la imprevedibilità delle azioni o reazioni. Nel gioco terribile della Guerra Fredda sul limitare dell’apocalisse nucleare, la sola garanzia era la prevedibiltà delle mosse e contromosse sulla scacchiera del mondo, scossa soltanto dall’avveturismo di Nikita Kruscev a Cuba, infatti prontamente defenestrato dai suoi stessi compagni.
Putin, così come coloro che in Occidente fossero tentati di stuzzicare l’Orso, di ignorare l’impossibilità di umiliare una Russia che non permetterà mai di essere umiliata o di approfittare della sua momentanea debolezza, devono pretendere dal Cremlino quello che offrono, la massima chiarezza delle intenzioni. In Ucraina come ovunque vi siano punti di contatto o di frizione.
L’omicidio di Nemtsov non dimostra che Putin sia un despota sanguinario, in attesa di verità giudiziarie che forse non arriveranno mai. Dimostra qualche cosa di ancora peggiore: che nella Mosca della continua mezzanotte la vita di un uomo può essere buttata come una chip sul tavolo di vendette, ambizioni, fazioni, provocatori interni o esterni, servizi segreti, mafie, in balia di chiunque abbia una Makarov calibro 9 — l’arma classica dello «shpion» russo — e i soldi per affittare un sicario.
Corriere 2.3.15
«L’intesa nucleare? Sarà solo l’inizio»
L’Iran giovane sogna il cambiamento
Dalle ragazze velate ai «baazari», tutti stanchi dell’isolamento e delle sanzioni
di Paolo Valentini
TEHERAN Erano ancora tanti, due settimane fa, all’anniversario della Rivoluzione khomeinista, a scandire lo slogan «Morte all’America». Ma 36 anni dopo l’atto di fondazione della Repubblica Islamica, la rituale demonizzazione dell’Occidente non basta più da sola a definire lo Zeitgeist, lo spirito del tempo di una società in piena evoluzione, che sembra stregata dalla prospettiva di mettersi alle spalle oltre tre decenni d’isolamento dal resto del mondo.
L’Iran, che due anni fa ha scelto di credere alle promesse riformiste di Hassan Rouhani, guarda con un misto di speranza e scetticismo al guado più difficile della sua storia recente. L’esito del negoziato nucleare, che da domani entra nella sua fase decisiva a Montreaux, in Svizzera, è infatti ormai parte dell’immaginario collettivo come momento esistenziale, in grado di condizionare ogni sviluppo futuro. Secondo un sondaggio Gallup condotto a novembre, il 70% degli iraniani spera che le trattative con i Paesi del gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia più Germania) portino a un accordo accettabile per tutti. Erano il 58% l’anno precedente. È uno stato d’animo sul quale pesano elementi diversi.
Quali che siano i dettagli dell’eventuale intesa del Lemano, il baratto è chiaro: limiti al programma atomico persiano, in cambio della fine dell’embargo che ha morso nel vivo l’Iran, privandolo fra l’altro di quasi 150 miliardi di dollari, tutti congelati all’estero. È quindi il rilancio a breve termine dell’economia, che oltre alle sanzioni paga le politiche populiste di Ahmadinejad rivolte a sovvenzionare i ceti popolari, la prima preoccupazione di Rouhani. Il presidente lo ha ripetuto ieri nel colloquio con Paolo Gentiloni, ultimo appuntamento del viaggio iraniano del nostro ministro degli Esteri: senza fine delle sanzioni non ci potrà essere accordo.
Per Rouhani e i suoi riformatori è questione di sopravvivenza. Glielo chiedono gli imprenditori: «Ho un piano di sviluppo edilizio molto importante, ma mi servono investitori occidentali. Aspetto solo l’intesa nucleare», spiega Majid, businessman con interessi in vari campi. E glielo chiede il bazaar, termometro infallibile dello scontento della classe media, che ha pagato più di tutti la crisi, stringendo la cinghia e facendo crollare i guadagni dei bazaari, i commercianti. «Attenzione però — dice Firouz, architetto che ha studiato in Europa — un accordo con gli occidentali sul nucleare è nell’interesse di tutti: della nostra economia non più che delle vostre». Un esempio per noi doloroso: in 12 anni di sanzioni, l’interscambio con l’Italia si è ridotto da 7 a poco più di 1 miliardo di dollari l’anno.
L’economia racconta solo una parte della storia. Tra autoritarismo religioso e democrazia, l’Iran è oggi un Paese dalle molteplici identità. E dalla coltre dell’ufficialità islamica, della sharia e della censura affiora dirompente una realtà viva, moderna, insofferente e a volte sfacciata. Cinema d’essai, come la catena Arte e Sperimentazione, che proiettano film scomodi; parchi come Gheitarieh dove la notte centinaia di giovani si ritrovano a suonare e cantare musica occidentale; graffitari che raccontano l’insofferenza; centinaia di gallerie d’arte indifferenti alla censura; feste private senza velo per le donne e alcol per tutti.
Non poteva essere diversamente in un Paese giovanissimo, nel quale 2 persone su 3 sono nate dopo il 1979, l’anno della Rivoluzione islamica, con una scolarizzazione molto alta. Dove le donne, pagata la tassa del velo, sono la parte più attiva della popolazione, presenti a ogni livello della società, hanno possibilità di scelta identiche agli uomini e rappresentano il 60% degli universitari.
In un caffè incontro Sarah, studentessa di architettura: «Certo che vogliamo un accordo sul nucleare, ma sarà solo l’inizio. Poi Rouhani non avrà più alibi. Non potrà più invocare le sanzioni come causa di tutti i mali e dovrà occuparsi anche di altre cose, aprire di più la società. Sa bene che senza il voto dei giovani non potrà mai essere rieletto». Prima di salutarmi, si toglie disinvolta il velo colorato che indossa e lo sostituisce con uno nero tirato fuori dalla borsa. «Devo andare all’università, ho una lezione», mi spiega sorridendo.
Repubblica 2.3.15
La crisi in Medio Oriente
Yitzhak Herzog
“L’era di Netanyahu è arrivata alla fine. Cercherò il dialogo con i palestinesi”
Parla il candidato premier del centrosinistra al voto del 17 marzo:
“Sono io l’unica alternativa. Riattiveremo il processo di pace, è necessaria la fiducia
Ma basta con gli atti unilaterali: inaccettabile il ricorso all’Aja”
intervista di Fabio Scuto
L’Iran non può avere la possibilità di realizzare la bomba, un accordo deve essere “corazzato”
Lanceremo un appello per ricostruire la Striscia ma la nostra priorità è la sicurezza
Quella del primo ministro è una giostra mediatica Va ristabilito il rapporto con gli Usa
GERUSALEMME «LA GIOSTRA mediatica di Netanyahu sul suo discorso a Washington deve finire. Tutti sanno perfettamente che nessun leader israeliano, senza distinzione di coalizione, non può accettare la minaccia nucleare iraniana. Ma c’è modo e modo di fare le cose. Io credo in una discussione franca ed aperta con l’Amministrazione americana e penso che il discorso di Netanyahu a Washington sia un errore». Marca subito il territorio Yitzhak Herzog, leader dei laburisti e alleato con Tzipi Livni nell’Unione sionista, la coalizione che tenterà di riportare il centrosinistra al governo dopo 30 anni. Herzog — un cinquantenne di “sangue blu”, suo padre Haim è stato capo dello Stato dal 1983 al 1993 e suo zio Abba Eban è stato ministro degli Esteri negli anni cruciali fra il 1966 e il 1974 e lui stesso è stato ministro più volte — è convinto della vittoria. Quando si presenta, allunga la mano e dice: «Piacere, sono il prossimo premier d’Israele».
Perché avete scelto di chiamare la vostra lista unificata l’Unione Sionista?
«L’idea di sionismo con cui siamo cresciuti è quella propugnata dai padri fondatori della nazione. Come disse David Ben Gurion, il leader storico del mio partito, il Sionismo è il movimento che accomuna tutto il popolo di questo paese, che consente a tutti di vivere adeguatamente e cercare la felicità, che fa appello alla convivenza con i nostri vicini ed alla giustizia sociale. Ci sono elementi nella nostra società che pensano di avere l’esclusiva del Sionismo, mentre lo stanno portando molto lontano dal posto dove dovrebbe essere. Adesso gli elettori hanno un’alternativa».
Con quale piano pensa di convincere gli elettori?
«Da premier mi concentrerò su tre temi. Un piano socio-economico che cambierà totalmente la situazione attuale con grandi “correzioni” sul piano sociale. Tenterò di riprendere il processo di pace con i nostri vicini palestinesi, basandomi sulla piattaforma originale dei negoziati, e ricomporremo i rapporti con gli Usa».
Lei parla di trattare ancora con i palestinesi, ma il “ministro della difesa” designato del suo partito sostiene che il meglio che si possa fare è di «gestire il conflitto, non risolverlo». Quando lei dice di essere l’unica alternativa a Netanyahu, parla anche di pace?
«Assolutamente sì. Parlo di riattivare il processo bilaterale, sulla base della piattaforma internazionale di cui fanno parte anche i nostri vicini, Egitto e Giordania. Dobbiamo essere lucidi: non so di che umore sarà la leadership palestinese dopo il 17 marzo. Può darsi che troverò una leadership così infatuata dei propri atti unilaterali, compreso il ricorso al Tribunale dell’Aja, che ritengo totalmente inaccettabile, che non offrirà di tornare al negoziato. Ora le nostre relazioni con i palestinesi non sono le migliori, ma se vogliamo procedere dobbiamo ricostruire la fiducia. Abbiamo bisogno di parlare faccia a faccia ed è ciò che intendo fare. Non posso promettere il 100% dei risultati, posso promettere solo il 100% degli sforzi».
Questo comprende anche lo stop all’espansione delle colonie nei Territori occupati?
«Per ricostruire i rapporti di fiducia ho intenzione di bloccare le costruzioni nelle colonie al di là dei “blocchi di insediamenti”, che consideriamo vitali alla sicurezza di Israele. Ripeto, non so di che attitudine avranno i palestinesi, ed in ogni caso il ripristino dei rapporti di fiducia richiede bilateralismo. Il nostro obiettivo è di fare cessare gli attacchi ad Israele».
Per ricostruire la fiducia, sarebbe disposto anche a liberare parte dei detenuti palestinesi? A sdoganare Hamas?
«Abbiamo criticato Netanyahu per questo. Ma il nostro approccio gode l’appoggio della maggioranza dell’establishment di sicurezza del paese. Abbiamo intenzione di lanciare un appello internazionale per la ricostruzione di Gaza, ma il nostro obiettivo principale è la sicurezza di Israele. Non tratteremo con Hamas e non libereremo i suoi prigionieri».
Lei è disposto a formare una coalizione di governo con la Lista Araba Unificata?
«Non so che coalizione sarò in grado di formare, perché questo dipende dai risultati delle elezioni. Farò del mio meglio per superare la soglia dei 30 seggi, e chiunque accetti le linee guida del mio programma potrà entrare nella coalizione. I partiti arabi hanno detto più di una volta che non intendono fare parte di nessuna coalizione. Non posso fare altro che accettarlo».
Lei ha detto che nessun leader israeliano è disposto ad accettare un Iran nucleare.
Che ne pensa dell’accordo che si prospetta fra Usa e Iran?
«Mi aspetto che americani ed europei prendano una posizione netta nei confronti di Teheran, il che significa che preferisco un accordo internazionale, condizionato al fatto che sia un accordo “corazzato”, senza scappatoie. Ritengo che debba comprendere un paragrafo che impedisca all’Iran di sviluppare la bomba. Che è una minaccia per Israele, per tutti i Paesi moderati nel Medio Oriente e quindi per la pace nel mondo».
Corriere 2.3.15
Tutti i significati di «Roma»
L’apocalisse secondo l’Isis
I jihadisti mirano davvero alla città italiana? La «profezia» ha diverse interpretazioni
di Viviana Mazza
qui
La Stampa 2.3.15
Così il Mediterraneo torna al centro della Storia
Guerre, terrorismo islamico e continue ondate di profughi
Il mare che unisce Europa, Asia e Africa è il nuovo protagonista
di Domenico Quirico
Dopo lunghe ma fragili peregrinazioni la Storia torna, con dramma e dolore, laddove è nata, al Mediterraneo: la grande cerniera di cui l’avventura umana ha fatto il suo ambito prediletto, Nord contro Sud, Est contro Ovest, Oriente contro Occidente, l’Islam all’assalto della cristianità.
Se tutte le battaglie del passato e del presente si riunissero, insieme e contemporaneamente, un’immensa trincea si dipanerebbe da Corfù ad Azio, da Djerba a Lepanto, da Malta ad Antiochia. Qui i popoli sono passati, di continuo, tra gli stessi regimi come l’uomo attraverso le stesse passioni.
Si torna, nell’inizio incandescente del terzo millennio, alla epica geografia di Braudel, alle sue civiltà e ai suoi imperi. Tutte le sinuosità si ordinano, formano correnti di cui la più vasta si delinea, il Mediterraneo e le sue terre. Una sorta di segno fatale: l’attualità non ha molto senso in questo mare dove tutto ha carattere di eternità. Dove tornare alle Crociate, vecchio nome per lo scontro di civiltà che si evoca e si respinge, costituisce in fondo un’antichità assai modesta. Dalle Crociate a oggi, in quel nostro Oriente di nuovo così immediato e brutalmente vicino, vi è la conquista turca e un breve colonialismo cosiddetto insaziabile; ovvero il tempo di un istante per terre che hanno visto mille conquistatori. Il tempo lento e lungo dell’Islam, appunto.
La nascita del Califfato
Non conosco niente di più commovente della Siria anzi di Sham, dove per una mistica musulmana tornerà, un giorno, il Madhi, l’annunciatore del Giudizio. Lì ho visto rinascere il Califfato: la Storia parla come alle piramidi. Antiche fortezze bizantine ridotte a mura nere di fuliggine, gli angoli consunti dal vento e colonne romane spezzate stanno accanto a minareti bianchi. E la piana di Ninive, in quello che fu e non sarà mai più l’Iraq inventato dagli inglesi: sono ora i bordi del Califfato dove i piedi di San Tommaso si coprirono di polvere e da cui i cristiani fuggono per il Mondo. Il Tigri verso la grande diga che i curdi hanno riconquistato ha, incredibilmente, solo uno sciabordio di fiumiciattolo tra una immobilità verdastra e un ristagno azzurro come se non accadesse mai niente. Qui correva la frontiera tra Siria e Iraq, voluta, disegnata dall’Occidente. Era, prima, terra unica per lingua, cultura, politica. Mercanti, ulema, pellegrini, sciiti e sunniti, settari fanatici e nomadi, tutti potevano andare e venire nel vasto spazio arabo della Mezzaluna fertile.
Il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, il fantasma, non nega affatto la storia del vicino oriente, vi si avviluppa, anzi, e vi ritorna in permanenza. Il 29 giugno alzando lo stendardo nero su un posto di transito lungo la vecchia linea degli accordi tra Francia e Inghilterra del 1916 appena frantumato da un bulldozer, un comandante daesh ha gridato: «Non è la prima frontiera che distruggiamo e non sarà l’ultima, se Dio vuole». Lo spazio degli Abbassidi dominatori del Mediterraneo, di un grande Mediterraneo che andava da Toledo a Samarcanda, si riunifica come in un sogno. O in un incubo.
La sfida tra l’Occidente guidato da élites sonnambule e il nuovo Stato totalitario che ha le bandiere del Califfato di Mosul, si ricolloca nel mare interno che una storia e una politica miope voleva marginale rispetto al grande spazio degli oceani. Il sogno arabo che semina la morte, l’aspirazione a una potenza smisurata dopo le umiliazioni subite, per cui atti criminali diventano espiazioni: nel momento in cui si grida il nome di dio, e si uccide purtroppo per dio, c’era un solo scenario possibile, lo spazio fisico geografico storico dove le fedi hanno contaminato l’anima dell’uomo. Il declino dell’America come onnipotenza non a caso si consuma lontano dalle rive degli oceani che aveva eletto a proscenio della Storia.
Il califfato brutalmente la ricapitola, la Storia: di fronte al nostro ordine occidentale con la aureola impallidita di tutte le sue certezze, trovare le risposte ultime, redimere con un infinito progresso, percepire, prima o poi, tutti, il dividendo della ricchezza, si è levata quasi per inevitabile reazione, la negazione islamista. Con la generazione più intimamente negativa di tutti i principi che abbiamo mai veduto, immersa in uno stato di insurrezione, di denegazione capitale. Una parola la riassume tutta: si tratta di dire no, in nome di un dio, a tutto.
L’impero Ottomano
Il Califfato ricostruito da Daesh è la rivincita delle popolazioni arabe sunnite sconfitte da cinque secoli. Non a caso questa sanguinosa rivincita che ha per loro il valore di un dono divino, copia l’età degli Abbassidi. A partire dal tredicesimo secolo altri comandarono l’Islam: selgiuchidi e mongoli ilkani, mamelucchi e turchi. Gli Ottomani: califfi per vanteria e vantaggio dinastico, così oppressivi verso gli arabi e opportunisti nella fede. In questo spazio la terra è la stessa. Oggi come allora. Il clima di Cadice è come quello di Beirut, la Provenza assomiglia alla Calcidia, la vegetazione di Gerusalemme è quella della Sicilia. Certo diversi sono i gesti degli uomini: il passato, accanito fabbricante di particolarismi, ha accentuato tutto questo seminando i suoi straordinari colori.
Terre di migranti
Tra queste coste si migra: di nuovo. Dalla Sicilia ai litorali dell’Africa corre la catena delle isole che collegano deboli profondità marine: Djerba, Pantelleria, Lampedusa, Gozo, Zembra. L’acqua è così chiara che sembra di poter vedere il fondo. Ho attraversato quel mare su una piccola barca con i migranti musulmani: la rotta è antica come il mondo. Popoli interi hanno ripreso, braccati dalla disperazione e dalla speranza, ad attraversare il Mare. Un mondo si svuota, l’altro di fronte si riempie: il ritmo di sempre.
Il Mediterraneo è molto più grande delle sue coste. Attira tutto ciò che sta intorno, lo aggrega a questo gigantesco continente unitario che lega Europa, Asia e Africa. Un pianeta di per sé, dove tutto ha circolato precocemente e in questa saldatura gli uomini trovano lo scenario della loro storia unitaria anche guerreggiando. Qui si sono compiuti e si compiranno gli scambi decisivi. Ora si è chiuso, le due sponde non comunicano come ai tempi di Maometto e Carlomagno. Non è la prima volta, succederà ancora.
La grande cassa di risonanza mediterranea. Flussi e riflussi sotto il segno del movimento: il Mediterraneo e le sue rive inquiete danno e ricevono e i doni possono essere, di volta in volta, calamità o benefici. Perché il Mare non finisce dove scompare l’ulivo. La Crimea non è forse, anche oggi, spazio del Mediterraneo? E il deserto che invade fisicamente il mare interno? I venti che arrivano dal Sahara, salendo verso Nord, creano il cielo e le notti che non hanno eguali per limpidezza; lo scirocco, il qamsin degli arabi, carico di sabbia, pesante come il piombo, porta piogge di sangue che spaventano i semplici.
A Sabratha in Libia, un’ondata brutalmente sovversiva, schiumante di sangue e di fiele, di guerrieri del Jihad usa le rovine romane come trincee. A Sirte altri frenetici ed esaltati decapitano cristiani come ai tempi dei Barbareschi. L’eco di questa terribile storia mediterranea si prolunga, così, fin nel cuore dell’Africa, nelle selve della Nigeria e nelle savane somale; ne rimbombano Timbuctu, effimera meraviglia delle sabbie, e il paese di Punt, scrigno, un tempo, di innumerevoli ricchezze. Lunghe carovane, che seguivano effimere strade di sabbia tra le dune, portavano sale e oro, guerrieri e santi marabutti, diseredati e sognatori. Tutti con il sogno o il ricordo di quel mare. Oggi sono mercanti di uomini e fuggiaschi, trafficanti di droga e barattieri di preghiere senza misericordia, falsi emiri e veri assassini, armi e santità: il Mediterraneo, laggiù, li attende e li assorbe.
Corriere 2.3.15
Boko Haram usa bambine con cinture esplosive per gli attacchi suicidi
La gente è impaurita ed esasperata, a Bauchi, nel nord est della Nigeria, una ragazza è stata linciata perché sospettata di essere in procinto di compiere un atto terroristico
di Guido Olimpio
qui
Corriere 2.3.15
Terrorismo
Il fattore (della paura) che occorre ribaltare
di Rosario Sorrentino
Neurologo
Le recenti, agghiaccianti azioni degli estremisti dell’Isis sembrerebbero porci di fronte alla contrapposizione tra questa o quella religione, questo o quel monoteismo. Ma così non è. C’è, purtroppo, qualcosa di più inquietante: lo sgretolamento della faticosa e travagliata conquista, a lungo sorvegliata speciale, che chiamiamo civiltà.
Quello a cui stiamo assistendo, con tutto il suo macabro repertorio di crudeltà è l’azione, il prodotto di un cervello, un «genio del male», un intellettuale del crimine, ormai in totale abbandono, come il peggiore dei predatori, del suo istinto di uccidere. Perché, quando lo fa, prova un piacere irresistibile, soprattutto quando poi esibisce le sue vittime, come trofei, dilaniate dalla sua furia omicida. Il suo è un cervello senza empatia, senza pietà, che tratta gli esseri umani come oggetti, come povere cose, su cui avventarsi guidato da un atavico impulso.
Ma c’è dell’altro, ed è il diverso modo di interpretare e intendere l’esistenza stessa; da una parte, c’è la cultura della vita, dall’altra quella della morte e al centro (e questo costituisce il grande vantaggio degli estremisti), l’aver sublimato la madre di tutte le paure, quella di morire. Non amo le censure, né mi considero proibizionista: ma ritengo che sia necessaria e urgente una sorta di no fly zone della comunicazione. Un consapevole e responsabile autocontrollo, da parte nostra, nel diffondere a ripetizione, certe immagini raccapriccianti. Perché quelle immagini certificano ed esaltano la loro forza e purtroppo confermano la nostra debolezza.
Prendiamone atto: il nostro mondo sta velocemente cambiando e la globalizzazione dell’informazione ci conferisce una percezione a volte un po’ deformata della realtà. Rischiamo di prestarci al gioco dei terroristi anche perché non siamo certo preparati a vivere a pochi chilometri da un pericolo incombente, che ogni giorno ci viene documentato e descritto come reale. È forse giunto il momento di rilanciare e di ribaltare il nostro rapporto con la paura, quel «fattore P», sempre più presente nella vita di ognuno di noi. Questo ci aiuterebbe ad utilizzare consapevolmente la paura evitando così di negarla. Questa emozione rappresenta infatti una straordinaria risorsa, grazie alla quale abbiamo vinto le nostre più importanti battaglie evolutive. Solo così possiamo avere libero accesso a quel repertorio naturale di risorse genetiche, neurobiologiche e comportamentali che vanno sotto il nome di resilienza, la cui finalità è quella di aiutarci a ripartire dopo aver subìto eventi sconvolgenti trasformando uno svantaggio in un vantaggio per noi.
Corriere 2.3.15
Il Regno Unito in mille pezzi
Chi (non) vincerà le elezioni
di Antonio Armellini
La campagna per le elezioni politiche di maggio in Gran Bretagna è già avviata e il quadro è incerto come non avveniva da decenni. L’economia tira, ma il disagio in una società sempre più diseguale si fa sentire. Alla voce dei conservatori di David Cameron e dei laburisti di Ed Miliband — con la coda liberaldemocratica di Nick Clegg — si aggiungono quelle dei portatori di istanze nuove: gli antieuropeisti dell’Ukip (Uk Independence Party), i Verdi, gli indipendentisti scozzesi dello Snp (Scottish National Party), potrebbero condizionare l’esito del voto ma sono fortemente penalizzati dal sistema elettorale, che impedisce una rappresentanza efficace dei partiti minori.
La dinamica dei collegi uninominali distorce il rapporto fra il numero dei voti e dei seggi e privilegia le formazioni con un forte radicamento locale rispetto a quelle presenti in maniera diffusa sul territorio nazionale. Un partito radicato come il liberal-democratico di Nick Clegg potrà mantenere buona parte dei suoi parlamentari nonostante un probabile calo di voti. All’opposto, partiti dal consenso diffuso come l’Ukip di Nigel Farage e i Verdi, potranno vedere il loro successo elettorale tradursi in un numero irrisorio di seggi. Conservatori e laburisti sono testa a testa e nessuno, neanche fra i più schierati, si azzarda ad andare oltre. La vittoria dipenderà dalla complessa alchimia nella distribuzione territoriale dei seggi, che potrebbe non coincidere con l’esito del voto: il partito che ne avesse ottenuti di più potrebbe trovarsi in minoranza ai Comuni.
Peter Kellner, sondaggista principe di YouGov, mette in guardia da facili pronostici: sono troppe le variabili intorno ai temi chiave dell’andamento dell’economia, dell’immigrazione e dell’Europa. Senza contare che da qui a maggio nuove priorità — ad esempio sulla sicurezza e il terrorismo — potrebbero influire sull’esito. David Cameron è incalzato da destra da una fronda antieuropeista che vorrebbe schiacciare il partito su posizioni oltranziste. Ha un bel dire che il tema su cui si gioca la partita non è l’Europa ma l’economia, per la quale può giustamente vantare successi, e cercare di mantenere al dibattito sull’immigrazione un minimo di razionalità. L’Europa è diventata la metafora di una insoddisfazione generale: a parole tutti, dall’ arci-euroscettico Bill Cash agli alfieri dell’europeismo come Damian Green, dichiarano il loro appoggio, ma non è difficile veder balenare dietro le manifestazioni di fedeltà la lama di più di un pugnale. Una sconfitta di Cameron non farebbe scorrere troppe lacrime: personaggi come il popolare sindaco di Londra, Boris Johnson, sono pronti a commemorarne le spoglie e a contendere all’Ukip la bandiera del rifiuto dell’Europa. Ed Miliband ha pochi ammiratori fra i suoi stessi elettori, molti dei quali gli rimproverano il «tradimento» nei confronti del fratello David, superato sul filo di lana nella corsa alla guida del partito. Il tentativo di recuperare uno spazio politico a sinistra si scontra con la reazione della destra blairiana, decisa ad impedire qualsiasi cedimento verso posizioni massimaliste.
È una disputa che riporta alla storia antica del partito, ma non è per questo meno pericolosa per il suo leader. Peter Mandelson affetta distacco dall’alto della Camera dei Lord per le vicende elettorali, ma non dimentica il ruolo di machiavellico tessitore di trame di potere; è il riferimento discreto di quanti condiscono l’appoggio di rito alla campagna del leader con un malcelato fastidio per una linea giudicata suicida.
A meno di un miracolo che non pare alle viste, la sommatoria di queste due debolezze non produrrà una maggioranza assoluta nel prossimo Parlamento. La formula dei governi di coalizione o minoritari, vista a lungo come una anomalia transitoria in un sistema bipolare, sembra destinata a ripetersi. Nel prossimo Parlamento un governo di coalizione potrebbe tuttavia trovarsi confrontato con un quadro politico molto più frammentato e rissoso: il ritorno anticipato alle urne entro un paio d’anni potrebbe divenire così inevitabile, aprendo una inedita fase di instabilità politica.
La moltiplicazione dei partiti rispecchia l’evoluzione in atto di una società che si è fatta più complessa (verrebbe da dire, più «europea») e stenta a riconoscersi nella rigidità di meccanismi concepiti per un assetto maggioritario. Collegi nominali piccoli, omogenei e dal voto concentrato, sono stati visti come una garanzia di stabilità, e così è stato finché il sistema è stato bipolare, ma oggi sono di ostacolo al cambiamento. La concentrazione geografica del voto rende sempre più difficile l’alternanza, con il risultato che i partiti politici stanno perdendo la funzione essenziale di strumenti di rappresentanza politica per l’insieme del Regno Unito. Conservatori e laburisti eleggono i loro parlamentari quasi solo in Inghilterra, i primi nel Sud e nel Sud-Est e i secondi nelle fasce industriali del Centro e del Nord. Liberaldemocratici, Verdi e Ukip sono anch’essi partiti solo «inglesi». Nel resto del paese, lo Snp è egemone in Scozia e in Galles e in Irlanda del Nord raccolgono consensi i partiti locali. Solo a Londra — sempre più «città-Stato» nello Stato — il dibattito fra i partiti segue le linee tradizionali e li vede tutti presenti. La regionalizzazione della rappresentanza segue le altre trasformazioni intervenute nella natura identitaria dei partiti che, fondata storicamente sull’appartenenza di classe ha visto — complice anche la rivoluzione thatcheriana — prima succedervi una logica di appartenenza fondata sul denaro, e ora aggiungersi quella basata sul territorio.
La tendenza alla frammentazione del quadro politico — e la scomposizione in senso regionale della Gran Bretagna — prefigurano scenari potenzialmente dirompenti. Tenere un quinto e forse più dell’elettorato stabilmente privo di rappresentanza sarà sempre più difficile: la stessa opinione pubblica che un paio d’anni fa ha respinto il tentativo di introdurre elementi di maggior proporzionalità nel sistema elettorale, non potrà non porsi il problema di un diverso rapporto fra rappresentanza ed efficacia. Il referendum scozzese ha innescato un processo il cui esito è destinato in ogni caso ad incidere sugli equilibri costituzionali del Paese. Un altro referendum nel 2017 potrebbe sancire l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. In una eventualità del genere, la disarticolazione territoriale dei partiti potrebbe amplificare l’effetto dei referendum, contribuendo alla dissoluzione di fatto del Regno Unito in una o più componenti sostanzialmente, anche se non formalmente indipendenti.
La politica inglese ha tempi lunghi, come annota lo storico Donald Sassoon. È presto per dire se il sistema elettorale resterà lo stesso, evolverà in senso proporzionale, verso una edizione in salsa britannica del «Mattarellum», riesumando idee gladstoniane di collegi a rappresentanza multipla, o altro. Così come è presto per dire se, e come, il Paese riuscirà a fare i conti con ipotesi federali sostanzialmente estranee alla sua tradizione. L’impianto politico ed istituzionale potrebbe essere alla vigilia di mutamenti radicali ma gli inglesi — che non amano le rivoluzioni — rifuggono da schemi astratti: tendono ad adattare quando serva le istituzioni alla realtà, anziché costruire modelli per uniformare la realtà alle istituzioni.
La Stampa 2.3.15
“Edoardo VIII era un fantoccio di Hitler”
Una nuova biografia riapre le polemiche sulle presunte simpatie naziste del sovrano
qui
Corriere 2.3.15
Contro i neonazisti una nuova edizione del «Mein Kampf»
La Germania è pronta per ripubblicare il Mein Kampf , sostiene Guy Walters sul Sunday Telegrap. Ma questa volta lo deve leggere. Se i tedeschi lo avessero letto per tempo non avrebbero mai permesso al suo autore di conquistare il potere. E oggi, davanti alla preoccupante avanzata di gruppi neonazisti, torna più che mai utile per fermarla.
I tedeschi di oggi devono poter conoscere cosa scrisse Hitler in quelle 700 pagine per rendersi conto di quanto fosse pazzo.
Con le riserve di qualche associazione ebraica, una nuova edizione del testo sarà curata dal rispettabile Institut für Zeitgeschichte di Monaco, con un ricco apparato di note critiche a piè pagina.
il Fatto 2.3.15
“I carnefici italiani”, raccontare la (vera) storia
di Furio Colombo
Il libro di Simon Levis Sullam I carnefici italiani (Feltrinelli) è un libro di storia, con una motivazione ideale, e con la forza di una documentazione precisa e rigorosa. La parola forza conta in questo libro perchè segna un fatto nuovo, quella che chiamerò la terza stagione nelle cronache dell’antifascismo italiano. La prima è stata una rappresentazione ansiosa di normalizzare ciò che non può e non deve essere normalizzato. Il passaggio nazista e fascista sull’Europa ha anticipato i crimini e il tormento che adesso sta travolgendo molte aree e Paesi in Africa, Nord Africa, Medio Oriente, compresi gli orrori del Califfato. Per quanto riguarda la storia italiana, l’ansia era di normalizzare il rapporto tra Resistenza ed esercito italiano, scomponendo e ricomponendo gli eventi in modo che un’unica lotta contro il male diventasse l’immagine di tutti quegli anni, marginalizzando l’azione e penetrazione della cultura fascista. Il risultato è stato di far apparire l’Italia un Paese vittima fra le vittime europee e un alleato degli alleati. Il secondo periodo è stato più aperto, sincero e brutale. Non solo perchè si è dovuti passare davanti al protagonista del processo Eichmann, ma perchè la narrazione di Primo Levi ha fatto smottare gran parte delle difese degli italiani intesi solo come “brava gente”. Nella terza fase ci sono materiali storici molto più completi e maturi, narrazioni in prima persona di sopravvissuti che avevano a lungo taciuto. Ma anche l’irrompere del negazionismo in ambito internazionale e della denigrazione della Resistenza come nuovo genere memorialistico e letterario, che ha funzionato come “liberazione” dalla liberazione e come modo rovesciato di rivalutare il fascismo attraverso la criminalizzazione della Resistenza. Vi sono stati molti scatti di respingimento e negazione della negazione, e ad alcuni ho potuto prendere parte sia come testimone del tempo che come scrittore contemporaneo. Ma i Carnefici Italiani affronta con coraggio, e sfuggendo del tutto alla “pacificazione”, il tema del fascismo e della Shoah come delitto italiano. Reagisco con entusiasmo a questo libro: è il senso e l’ossessione solitaria (nel senso di poco condivisa) con cui mi sono battuto, in Parlamento per l’istituzione del giorno della Memoria, rifiutando di associare il genocidio degli ebrei ad altri mali del mondo (foibe, gulag, khmer rossi) con l’argomento che è, fin dal titolo, il vero senso di questo libro e di quella legge (e la frase iniziale del suo testo: la Shoah è un delitto italiano). In I carnefici italiani, l’autore cerca e trova le storie, parla a nome delle vittime, individua e spinge in scena i carnefici, sia i più onesti e coraggiosi, che almeno avevano la faccia e la divisa del delitto che stavano compiendo, sia individuano la “zona grigia” indicata da Primo Levi, sia, ancora andando alla ricerca di una folla di delatori e del vasto silenzio di tante persone per bene che hanno preteso di non sapere ma allo stesso tempo si sono impossessati di case e cattedre. Ecco il libro che mancava e che gli insegnanti dovrebbero portare in classe.
Repubblica 2.3.15
Non c’è scampo per le madri
di Chiara Saraceno
NON c’è scampo per le madri. O sono troppo accudenti, al punto da soffocare la capacità di autonomia dei figli (soprattutto maschi) — le madri coccodrillo lacaniane. Oppure, se hanno anche una vita e interessi fuori e accanto alla maternità — vita e interessi che per altro costituiscono un argine ad ogni tentazione divorante — rischiano di essere madri senza cuore, incapaci di accudimento. Le madri narcisiste, esito delle battaglie emancipazioniste di donne che non vogliono essere solo madri, sono la contemporanea iattura che può toccare ai figli, secondo l’analisi di Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, su Repubblica del 28 febbraio.
Donne che cancellano (in sé) la madre perché non sono capaci “di trasmettere ai figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero”. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita non è, come si potrebbe ingenuamente pensare, perché tuttora l’organizzazione sociale poco sostiene le mamme lavoratrici, in carriera o meno. Neppure perché una definizione della paternità invece tutta incentrata sul desiderio e la necessità di essere altrove, senza essere vincolati dalle necessità della cura, rende difficile per le madri conciliare più dimensioni, più passioni. O perché alcuni psicanalisti condividono il senso comune ancora diffuso in Italia per cui “un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora”, legittimando ogni forma di colpevolizzazione delle madri lavoratrici, specie se, come si dice “non ne avrebbero necessità” e ancor più se vogliono anche una carriera. È perché “si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna”.
Facendo riferimento a casi estremi tratti dalla pratica clinica, o alla letteratura e filmografia, Recalcati rischia di ridurre al vecchio aut aut (o la maternità o la carriera) il ben più complesso dilemma Wollstonescraft al centro di moltissime riflessioni femministe: come far riconoscere il valore e il diritto a dare e ricevere cura senza perdere il diritto ad essere anche altro (cittadine, diceva Wollstonecraft). In particolare, sembra pensare che, sia sacrificio o desiderio, l’amore materno, a differenza di quello paterno, deve essere al riparo da altre passioni, desideri, attività. E che la generatività delle madri si esaurisca nel, certo importantissimo, amore (e accudimento) per i figli, non anche nella capacità di essere individue distinte dai propri figli, con un pensiero e progetti su di sé che non si esauriscono nella maternità, anche se la comprendono.
Questa seconda generatività sembra esclusivamente appannaggio dei padri, loro sì capaci di separarsi e separare. Suggerisco di leggere il dialogo tra Mariella Gramaglia e sua figlia Maddalena Vianello ( Tra me e te, edizioni et al.): dialogo difficile, anche conflittuale, dove madre e figlia si confrontano sì sulla cura data e ricevuta, ma anche sulla visione del mondo e l’azione nel mondo che la madre ha lasciato alla figlia e con cui questa deve fare i conti. Spero nessuno consideri Mariella e quelle come lei, come me, terribili madri narcisiste, perché il loro “desiderio” si è diretto anche oltre, non contro, la maternità.
Repubblica 2.3.15
Una collana spiega le affinità tra numeri e letteratura
L’algoritmo sembra un racconto di Tolstoj
di Piergiorgio Odifreddi
Dostoevskij sosteneva che la matematica era una strana scienza e che era sciocco occuparsene
L’autore di “Guerra e pace” la considerava necessaria per comprendere le leggi della storia
IN UNA lettera del 1839, il diciottenne Fëdor Dostoevskij scrisse al padre: «Che strana scienza la matematica, e che sciocchezza occuparsene». E quando da adulto dedicò alla geometria una pagina dei Fratelli Karamazov, non poté fare a meno che scriverne sciocchezze, appunto. Il suo alter ego Lev Tolstoj disseminò invece sensate metafore matematiche in Guerra e pace, arrivando ad affermare: «Solo ammettendo all’osservazione quelle quantità infinitamente piccole che sono le aspirazioni degli uomini, e raggiungendo l’arte di integrare queste unità infinitamente piccole in una somma, come nel calcolo infinitesimale, noi possiamo sperare di comprendere le leggi della storia».
In che cosa risiede la misteriosa natura della matematica, la cui comprensione sfugge a un ex-studente di ingegneria come Dostoevskij, e si lascia invece catturare da un ex-studente di lingue orientali come Tolstoj? Anche se ci si sarebbe potuti attendere esattamente il contrario, essendo il primo un “veggente dell’anima”, ossessionato dall’astrazione e perso con la testa nelle nuvole, e il secondo un “veggente del corpo”, immerso nella concretezza e ben saldo con i piedi per terra?
A cercare di rispondere a queste domande ci prova una nuova serie di snelli testi del Mulino, curata da Alessia Graziano e intitolata Raccontare la matematica , che fin dal suo programmatico titolo sottolinea la contiguità e la continuità tra il “contare” matematico e il “raccontare” letterario.
Non a caso la citazione di Dostoevskij compare nella prefazione del primo volume della serie: Algoritmi, di Carlo Toffalori. E non a caso egli, già autore di due saggi su matematica e letteratura ( Il matematico in giallo e L’aritmetica di Cupido , Guanda, 2008 e 2011), fa subito notare come la parola “algoritmo” sia un anagramma di “logaritmo”, quasi a voler appunto ricordare l’affinità tra i procedimenti matematici e quelli letterari.
Ma mentre “logaritmo” deriva dalle venerabili parole greche logos e arithmos , l’una e l’altra sovraccariche di significato, “algoritmo” non ha un analogo pedigree. È invece un adattamento del toponimo al-Khwarizm , e ricorda il luogo di nascita (la regione del Khorezm, nell’odierno Uzbekistan) di un celebre matematico del secolo IX, fiorito alla corte persiana. Dalla parola aljabr, “ricostruzione”, che compariva nel titolo di uno dei suoi libri,deriva invece l’odierna “algebra”.
Ed è proprio perché in quel libro di al-Khwarizm si trovano le prime esposizioni sistematiche dei procedimenti algoritmici oggi tipici dell’algebra, da un lato, e dell’informatica, dall’altro, che il suo nome è oggi diventato il loro sinonimo. Ma per secoli esso fu usato in un senso più ristretto, per indicare i calcoli aritmetici effettuati con il sistema posizionale inventato dagli Indiani e mutuato dagli Arabi, tra i quali lo stesso al-Khwarizm l’aveva divulgato in un altro suo influente libro.
In origine gli algoritmi non avevano dunque a che fare astrattamente con le equazioni o i programmi, ma concretamente con i numeri. E non è di nuovo un caso che il secondo volume della serie del Mulino sia Numeri di Umberto Bottazzini, che si propone di spiegare cosa essi siano e da dove vengano. Una storia, questa, altrettanto antica di quella degli algoritmi, e strettamente legata e complementare ad essa. Ad esempio, la parola “calcolo”, che oggi indica appunto l’esecuzione di un algoritmo, in origine indicava invece un numero (o meglio, una pietruzza che serviva a rappresentare concretamente un numero).
Bottazzini è uno dei nostri più titolati storici della matematica, e agli ininumeri di quest’anno è stato insignito dall’American Mathematical Society dell’ambìto Whiteman Prize. Gioca dunque in casa nel raccontare gli sviluppi del concetto di numero: dagli intagli effettuati su ossa e bastoni dagli uomini primitivi, alle definizioni fornite dai filosofi della matematica di fine Ottocento. Tra questi due estremi egli vola sui contributi forniti da Egizi, Babilonesi, Greci, Indiani, Maya, Arabi e Cinesi, mostrando di passaggio l’universalità dell’impresa e del pensiero matematico.
Ma l’aspetto più interessante della storia del numero è che, per poterne parlare anche brevemente, come si prefiggono di fare i testi di questa nuova collana, bisogna comunque allontanarsi dal ristretto ambito dei numeri interi, e ampliare lo sguardo ad alcune delle loro estensioni che è stato necessario introdurre nel corso della storia.
I Pitagorici si erano infatti illusi, all’alba del pensiero occidentale, che i interi fossero sufficienti per trattare razionalmente l’astronomia e la musica, e più in generale la scienza e l’umanesimo. Ma ben presto si accorsero che il loro motto “tutto è numero intero” era solo una pia illusione, perché già nella geometria esistevano grandezze (come la diagonale e il lato del quadrato) il cui confronto non si poteva ridurre a un rapporto di numeri interi: cioè, a un numero “razionale”.
I Greci non lo fecero, perché preferirono rimuovere il problema. Ma i moderni capirono in seguito che la sua soluzione stava nell’introduzione di un nuovo tipo di numeri, chiamati appunto “irrazionali”. E altri problemi portarono in seguito all’introduzione di tutta una serie di nuovi tipi di numeri, ciascuno dei quali reca nel suo nome (“negativo”, “immaginario”, “complesso”, “ipercomplesso”, “iperreale”, “surreale”, “ideale”, eccetera) le tracce del disagio psicologico da esso provocato al suo arrivo.
Quanto ai logaritmi, nel breve periodo tra la loro nascita e il loro battesimo essi vennero chiamati numeri “artificiali”. Oggi invece si chiamano “naturali”, a dimostrazione che la percezione di cosa sia artificiale o naturale in matematica, come in qualunque altro campo, cambia col tempo. E nel caso dei logaritmi cambiò proprio grazie a un algoritmo: quello che Isacco Newton e Nicolò Mercatore, l’uno all’insaputa dall’altro, trovarono tra il 1666 e il 1668 per calcolarli. Fu quell’algoritmo a permettere la compilazione delle famose tavole logaritmizi che, usate fino a qualche tempo fa da tecnici e scientifici di ogni genere per semplificare i calcoli complessi.
Ma mentre i numeri, di qualunque tipo essi siano, sono pur sempre oggetti matematici, gli algoritmi possono anche non esserlo. O, almeno, possono riguardare cose che non hanno nulla a che fare con la matematica. Toffalori mostra molti esempi al riguardo, notando come sono algoritmi la ricetta per cuocere un uovo al tegamino, l’istruzione per produrre il codice fiscale, il procedimento per determinare il giorno della Pasqua, eccetera.
Per i matematici, però, il bello dei numeri e degli algoritmi sta nel fatto che se ne possono fare delle teorie generali astratte, profonde e attraenti. Ad esempio, oltre a trovare algoritmi che risolvono certi problemi, quando ci sono, si può fare un salto di qualità e dimostrare che ci sono problemi che non si possono risolvere con algoritmi. In altre parole, nella matematica e nell’informatica esiste l’incalcolabile.
Addirittura, l’informatica è nata proprio dalla risposta data da Alan Turing, il protagonista del recente film The Imitation Game , al problema se esistono problemi senza soluzioni algoritmiche. Il che conferma, se ce ne fosse bisogno, che la matematica non è uno sterile gioco, ma una feconda impresa intellettuale, sulla quale vale sempre la pena imparare qualcosa. A partire, ovviamente, dai Numeri e dagli Algoritmi .
L’INIZIATIVA Algoritmi di Carlo Toffalori, primo volume della nuova serie del Mulino, curata dRepubblica 2.3.15
Per diventare infinito l’uomo deve andare alla scoperta del mistero
“Salvezza” è un termine presente in ogni religione che invoca la liberazione dal limite della morte
Nel suo saggio il cardinale Scola indaga il rapporto tra fede e ragione e la necessità di cogliere i segni oltre la realtà delle cose
di Angelo Scola
patriarca di Venezia
QUANDO introduciamo la parola, mistero, ci riferiamo a un dato che è proprio dell’uomo come tale, del cuore dell’uomo di ogni tempo. Ovviamente, la modalità con cui questo proprium viene percepito muta a seconda del clima culturale in cui l’uomo vive ed agisce.
Io credo che l’uomo di oggi sia chiamato a guardare fino in fondo i tratti fondamentali dell’esperienza umana. Il primo e più importante è la capacità di cogliere il senso della realtà: la realtà è intelligibile e chiede di essere ospitata dalla nostra intelligenza. Già questo implica una trascendenza, cioè un andare oltre l’immediato.
Io posso “possedere” questo tavolo – lo dicevano già i grandi classici – e cioè posso ospitarlo dentro di me conoscendolo; è chiaro, quindi, che non lo “possiedo” nel senso di poter introdurlo materialmente nel mio io, però, con la mia intelligenza, posso dire che “questo è un tavolo” e con ciò guadagno un certo livello di verità, ossia di corrispondenza tra l’intelligenza della realtà di cui sono capace e la cosa. Questo è il primo e il più elementare modo con cui noi, quotidianamente, facciamo una certa esperienza del mistero.
Il secondo modo, che pure è decisivo, in un certo senso, ancora più decisivo del primo, è la relazione, il rapporto. Che cosa dice il sorriso di un bimbo alla mamma o il sorriso della mamma al bambino? Dice che c’è qualcosa che va oltre il proprio io. La relazione buona e positiva mi induce ad uscire da me e diventa, nello stesso tempo, decisiva e costitutiva per il mio benessere. L’essere in relazione è quindi il secondo modo costitutivo attraverso il quale io esco da mee vado verso il mistero.
C’è poi almeno un terzo modo, di capitale importanza, di cui incominciamo a renderci conto più chiaramente quando entriamo nella fase della maturità. È il modo legato alla percezione della nostra finitudine. Siamo capaci di infinito e tuttavia, quando agiamo, siamo sempre prigionieri della finitudine. L’uomo, da sempre, ha dato espressione a questo paradosso che lo costituisce con una parola: “salvezza”. Un termine che, pur in diverse accezioni, è presente in tutte le religioni. Esso esprime in un certo senso l’invocazione di essere liberati da questo limite la cui barriera invalicabile è la morte.
Sono capace di infinito, ma sono costretto alla finitudine. Chi mi libererà da questa condizione? È la via verticale alla scoperta del mistero.
Dall’interno della concretezza della vita di tutti i giorni, l’uomo ha quindi mille segni per accorgersi del mistero. In una cultura in cui la relazione buona non è coltivata, in cui si dice che la verità non esiste o, per lo meno, che non è raggiungibile, questo sarà più difficile. In una cultura in cui uno pensa di potersi salvare da solo o pensa di potersi accomodare tranquillamente nella finitudine, è inevitabile – lo diceva Nietzsche già più di un secolo fa – che ci si accontenti di « una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte » . Ci togliamo di dosso le speranze elevate e ne diventiamo facilmente calunniatori. Arriviamo a tarparci le ali con le nostre stesse mani.
La grande sfida, quindi, è costruire, in questa società, relazioni buone e pratiche virtuose che lascino emergere, dall’esperienza di tutti i giorni, i mille segni che indicano questo Quid misterioso, un Quid con la “q” maiuscola che la grande tradizione di tutti i popoli chiama Dio.
IL LIBRO Capaci di infinito di Angelo Scola (Marcianum Press pagg. 52 euro 7)
La Stampa Tuttolibri 28.2.15
La folle giovinezza di Campana nella Pampa
Tra bettole e bordelli, inanellando bislacchi mestieri, un’avventura di libertà per l’autore dei Canti orfici
di Lorenzo Mondo
Laura Pariani ama intrattenersi nei suoi romanzi con figure di scrittori celebri, indagare nelle loro zone d’ombra, inventare percorsi esistenziali e intellettuali che, al di là di una possibile verosimiglianza, gettano luce sulla loro personalità. Lo ha fatto con Nietzsche e Dostoevskij, e adesso si misura con un soggetto che si presta allo scopo in modo superlativo: il poeta Dino Campana, protagonista del romanzo Questo viaggio chiamavamo amore. A stimolarla, non è l’alienazione mentale di Dino, dove si fanno varco rivoli di poesia, ma la sua fuga, rimasta a lungo controversa, da Marradi al Sudamerica. Prove inoppugnabili hanno ormai dimostrato che quel viaggio, così presente nei Canti orfici, fu compiuto davvero, non fu frutto di allucinazioni e fantasticherie. Possiamo lasciarci trascinare, fiduciosi, dall’incipit famoso di «Viaggio a Montevideo»: «Io vidi dal ponte della nave/I colli di Spagna/Svanire, nel verde/Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando/Come una melodia».
Laura Pariani ambienta la vicenda nel manicomio di Castelpulci, una ventina d’anni dopo la fuga di Campana, iniziata nel 1907, seguendolo fino alla morte, avvenuta nel 1932. E’ vittima di innumerevoli costrizioni, dall’elettroshock alle soperchierie dell’infermiere Calibàn, alle assillanti interrogazioni dello psichiatra Carlo Pariani. Con quest’ultimo Dino gioca a rimpiattino, vede in lui un nemico, assimilandolo alla genia dei Critici che lo hanno per troppo tempo trascurato (Soffici e Papini hanno perfino smarrito il primo manoscritto delle poesie ad essi confidato). Si rinserra nelle sue memorie e visioni, si svela appena nelle bizzarre «lettere mentali» inviate a Freud, al Sade manicomiale, a Edison...Certo Carlo Pariani, teso a verificare in lui le analogie tra genio e follia, non mostra la stessa avvertenza e sensibilità dell’omonima scrittrice di cui ci occupiamo. Laura racconta, nell’eco dei parchi, criptici suggerimenti di Campana, le tappe di quel viaggio dall’Uruguay all’Argentina, compiuto a piedi o con mezzi occasionali, in uno sfrenato desiderio di libertà. Si sofferma sui suoi innumerevoli mestieri: il «bicicletero» (che illustra agli acquirenti l’uso del nuovissimo velocipede), l’inserviente allo zoo, lo sterratore per i binari della ferrovia, il fuochista sui treni ruggenti. Frequenta bettole e bordelli, feste e bivacchi sotto le stelle in compagnia di gauchos ed emigrati, si incanta davanti agli spazi sconfinati della Pampa. Attraversò per la prima volta l’Argentina a cavallo quando lesse, da bambino, I figli del capitano Grant. Ma ora insegue, insieme al sogno di un amore pulito, quello dell’uomo nuovo che rifiuta come Rimbaud i «vieux parapets» dell’Europa, nel fascino di una terra primigenia e incontaminata.
Laura Pariani compone pagine smaglianti, stilisticamente elaborate, alle quali sembra predisposta dalle frequentazioni dell’Argentina, sua patria del cuore. Non mancano le sottili insinuazioni sugli antesignani del suo personaggio. Quando Campana, in un momento di resipiscenza, afferma di capire perchè Rimbaud rinunciò a scrivere: «Si voltano le spalle alla pagina perchè il mondo intorno a noi non si lascia spiegare». Cita, e prolunga, Baudelaire quando racconta di avere soccorso un albatro ferito, aiutandolo a riprendere il volo. Come volle fare lui stesso, fuggendo la gretta Marradi, la madre tirannica, le persecuzioni dei poliziotti, la boria degli accademici: «...se la natura ha dato le ali a certi esseri perchè si salvassero dagli attacchi delle specie più forti, ci sarà bene una ragione. E io nel mio animo ho sviluppato le ali del sogno per diventare leggero e sfuggire a chi mi faceva del male». Quale che sia l’aderenza al vero Campana, l’America si configura come una grandiosa metafora di una giovinezza non ancora delusa e travolta dal male di vivere e dalla follia, come incunabolo privilegiato di una salvifica poesia.
La Stampa Tuttolibri 28.2.15
Bianciardi, la vita a colpi di dinamite
Lo scrittore che capì il lato agro del boom e denunciò il consumismo prima di Pasolini
di Piersandro Pallavicini
Luciano Bianciardi (nato a Grosseto nel ’22 e morto a Milano nel ’71) è stato scrittore. saggista, critico tv, geniale traduttore. Il suo romanzo più fortunato è «La vita agra» (1962), storia di un anarchico che vuol far saltare il palazzo della Montecatini
Alla fine del 2014 il rapper americano Kanye West ha pubblicato «Only One», singolo realizzato insieme a Paul McCartney. Il brano ha venduto bene su i-tunes, ma è diventato un caso mediatico per altri motivi. Su Twitter, i fan di Kanye West, ragazzi americani poco più che adolescenti, sparavano sentenze in 140 caratteri il cui succo era: questo signor McCartney dovrà ringraziare a vita il grande Kanye West per averlo lanciato! Potete immaginare la reazione di chi ha dai 50 anni in su, e che non ha mancato di far sentire la propria voce scandalizzata sui social network. Ma è così, la memoria non si travasa automaticamente da generazione a generazione. E se c’è bisogno di spiegare chi è Sir Paul McCartney, figuriamoci Luciano Bianciardi. Quindi sì, se avete più di cinquant’anni lo scrittore della Vita Agra è probabilmente tra i vostri autori di formazione, ma per un lettore trentenne o ventenne chissà.
Dunque anziché storcere il naso («un’altra cosa su Bianciardi?!”») diamo il benvenuto a questo piccolo, delizioso libro delle Edizioni Clichy, curato da Gian Paolo Serino. Come per tutta la collana Sorbonne, Il precario esistenziale si compone di una trentina di pagine introduttive del curatore, una cronologia, fotografie di Bianciardi, estratti dalle sue opere e una bibliografia essenziale. Con il gusto per le curiosità letterarie che lo contraddistingue, Serino costruisce un ritratto dello scrittore che piacerà anche al lettore più affezionato: perché insegue le opinioni meno note di Bianciardi, le pieghe nascoste dei suoi libri, le curiosità tra le sue righe. Iniziando, per dire del tono, con una prima pagina così: «Quanti sanno […]» scrive Serino parlando della Vita Agra «che ad esempio Henry Miller è uno dei personaggi del romanzo?». Quanti sanno che «il Torracchione» - che nel romanzo il protagonista vuole abbattere a colpi di dinamite - non è, come quasi tutti sostengono, il Pirellone di Milano, ma la Torre Galfa, sede della Montedison?».
Bianciardi si spostò da Grosseto a Milano nel 1954, dopo il dramma - che visse dal vivo - dell’esplosione nella miniera di Ribolla, e giusto in tempo per partecipare all’avventura della nascente casa editrice Feltrinelli. Non amò mai Milano. L’alienazione del consumismo, la stentatezza dei rapporti umani, l’affanno del lavoro, l’incubo del telefono e dei «teletafanatori» che non danno pace li visse sulla propria pelle e fu tra i primi a raccontarli. Non poteva non trovar pace, dunque, nelle isole di pensiero «a-parte», negli sguardi sul mondo prostrati come il suo. Enzo Jannacci, per esempio, per il quale firma le note di copertina del primo LP, «La Milano di Enzo Jannacci», e di cui diventa amico, e sul quale realizza, per la RAI, una docu-fiction, come racconta Serino nel capitolo «Bianciardi a 33 giri: Jannacci e Celentano».
Già, perché del Molleggiato lo scrittore di Grosseto – scrive Serino, citando Bianciardi – intuisce la valenza ideologica del «sorriso celentanoide, espressione emblematica del neoqualunquismo neocapitalista». E prevede che avrebbe un giorno lanciato «una filosofia totale intervenendo nei dibattiti come un intellettuale accreditato». E poi ci vengono raccontate le intuizioni su Mike Bongiorno prima di Eco, quelle sul consumismo prima di Pasolini. In questo florilegio, però – non potrebbe essere altrimenti – c’è anche il Bianciardi che gli ultracinquantenni meglio ricordiamo. Come dimenticarlo, d’altronde? Come sfuggire al magnetismo del maledetto, dell’anarchico, dell’intellettuale coerente che è in noi (ma che difficilmente tiriamo fuori) e che è finito nelle grandi pagine della Vita Agra e dell’Integrazione? Il catalogo dei Beatles è stato rieditato più e più volte, ma pure quello di Bianciardi: qualche anno fa da Bompiani, di recente da Feltrinelli, e poi ci sono gli Antimeridiani curati dalla figlia Luciana e usciti per ISBN. Come per i giovani fan di Kanye West con Paul McCartney: questo piccolo intrigante libro può far scoprire ai giovani lettori che Luciano Bianciardi è esistito, e che tipo era. Poi la bibliografia è lì, meravigliosa, sterminata, tutta da leggere.
La Stampa Tuttolibri 28.2.15
La regola di Borges
di Massimo Gramellini
Borges. Mi ha salvato Borges. Nel prendere congedo dalle memorie di gennaio avevo manifestato qualche disagio per la scrittura piatta e confusa della Ladra di Libri, ma ancora di più per la mia inarrestabile pulsione a interromperne la lettura a pagina 238. Però oggi mi sono imbattuto per caso (per caso?) in una battuta di quell’uomo-biblioteca, che alla domanda su quanti libri avesse letto rispondeva di averne finiti appena (appena?) un migliaio. Gli altri, diceva, li ho soltanto assaggiati. Preso da improvvisa smania assaggiatrice, ho salutato la Ladra senza rimpianti e ho deciso di cogliere il frutto proibito. Un manuale di dietrologia. Mi hanno sempre incuriosito, ma non osavo incominciarne uno, per paura che il senso del dovere mi costringesse a terminarlo anche se mi avesse stufato. D’ora in avanti varrà la regola di Borges. Si assaggia. E nel caso, si sputa.
Sputato a pagina 14. Si intitola L’Istituto Tavistock. L’autore sostiene con stile ansiogeno e oscuro che in una contea del Sussex opera un centro di psichiatri prezzolato dal governo mondiale degli oligarchi col compito di rimbecillire i sudditi umani attraverso un lavaggio continuo del cervello. Credevo che della faccenda si occupassero già brillantemente gli autori di certi programmi televisivi.
Mi è rimasta la voglia di ficcare il naso in mondi tremendi e sconosciuti e ho subito trovato qualcuno in grado di soddisfarla con uno stile di scrittura più terso. Al pari di Domenico Quirico, anche Maurizio Molinari ha acceso un riflettore potente sulla genesi e le prospettive del califfato islamista. Ci sono pagine del suo libro che non mi usciranno facilmente dalla testa. La polizia femminile dell’Isis che arresta e tortura una ragazza «colpevole» di avere allattato un bambino in pubblico. E lo sapevate che il califfo e i suoi più stretti collaboratori si sono conosciuti e piaciuti durante un non lunghissimo soggiorno nel carcere iracheno gestito dagli Stati Uniti? Strano popolo, gli americani. Grandi organizzatori, pessimi diplomatici. Nessuno come loro sa vincere la guerra e perdere la pace. A meno che l’Isis non sia il frutto di un complotto ordito dalla Cia in collaborazione con la contea del Sussex.
Alla ricerca di un’esplosione di bellezza che mi riconciliasse con l’umanità, ho deciso di passare qualche notte insonne in compagnia del Rinascimento italiano. La verità è che mi sono imbattuto in un libro meraviglioso che avevo sempre avuto davanti agli occhi. Il quinto capitolo della storia della civiltà, raccontata (benissimo) dal saggista americano Will Durant intorno al 1960. Un’impresa immane. Non so se abbia manifestato più forza quell’uomo nel concepirla o mio padre nel raccoglierne per anni i fascicoli. Erano tempi in cui si scriveva e si leggeva pensando ai posteri. I volumi rilegati di Durant sono rimasti per mezzo secolo nella libreria di papà e poi nella mia, senza che mai mi venisse l’uzzolo di affrontarli. Adesso quel tempo è arrivato. C’è un problema, però.
Come sanno i lettori più affezionati, la lettura è solo una delle due attività individuali che avrei deciso di potenziare nel corso dell’anno. L’altra è la ginnastica, che a casa mia ha assunto la forma di uno strumento per supplizi efferati, incomprensibilmente sfuggito alle attenzioni del califfo. L’ellittica, ovvero una cyclette con due manubri giganteschi che vanno e vengono durante le pedalate, ostacolando non poco l’atleta che osi sfidare le leggi dell’impenetrabilità dei corpi tenendo tra le mani un libro dalle dimensioni di una fisarmonica. Con le sue mille e duecento pagine di testo, circondate da una copertina rigida che pesa più di un bimbo ben pasciuto, il Rinascimento di Durant si presenta come un’alternativa interessante al sollevamento pesi, ma è incompatibile con l’ellittica. Così ho preferito portare a bordo le agili bozze del nuovo romanzo di Paola Mastrocola. L’esercito delle cose inutili.
A proposito di cose inutili, perché mai uno dovrebbe leggere la storia di un asino che vive in un ospizio per asini e riceve le lettere di un ragazzino incompreso che lo ha adottato a distanza? In effetti non esiste una ragione al mondo per affrontare questo libro. Se non una. Che quando avrete cominciato a farlo, non riuscirete più a smettere. Con la sua scrittura sottotono che fa arricciare il naso agli snob, Paola Mastrocola porta il lettore in un altro mondo, dove ci si ritrova a piangere e a ridere come se si stesse parlando di qualcosa che ci riguarda. Forse perché andare in un altro mondo è l’unico modo per parlare ancora di qualcosa che ci riguarda.
Il Rinascimento ci riguarda moltissimo. I Medici, i Borgia e gli altri principi quattro/cinquecenteschi di cui Durant narra le gesta erano più spietati di quelli attuali e infinitamente più violenti. Ma appena toglievano le mani dalla spada o dalla boccetta dei veleni si tuffavano sulla cultura con la stessa passione che infondevano nel sesso, finanziando gli artisti con dedizione e competenza. Avrei giurato che di Botticelli ne nascesse uno ogni tanto. Ma il fatto che ne siano nati cinquanta in un solo secolo, e in un perimetro di appena cinquecento chilometri, mi induce a credere che un potenziale Botticelli esista sempre. Sono i Medici, oggi, che latitano.
Corriere 2.3.15
Anche per Wikipedia essere puri è un ideale irrealizzabile
Il massimo di democrazia del sapere, alimentata dal basso, si capovolge nel massimo dell’autopromozione occulta, pagata e orientata dall’alto
di Paolo Di Stefano
qui
Corriere 2.3.15
La scoperta
Ecco perché il nostro cervello funziona come Facebook
Lo studio di «Nature» sulle nostre sinapsi: creano tra i neuroni pochi legami fortissimi e una miriade di connessioni deboli. È la logica delle «amicizie» sul Social network
di Giuseppe Remuzzi
qui