Corriere 25.3.15
Landini vede i 5 Stelle (che poi lo attaccano)
Camusso apre: certo, sarò in piazza
Bersani e i renziani: contro di noi volgarità
di M. Gu.
ROMA Landini va in piazza, Bersani no. L’ex segretario del Pd conferma che sabato non sarà al fianco delle tute blu, alla manifestazione della Fiom contro «la destra» di Renzi. A Ballarò , ieri sera, Bersani ha scandito con chiarezza il suo no alla piattaforma di Landini: «Con tutto il rispetto per questa iniziativa, che mi pare più una discussione sul modo di intendere il sindacato, non sarò in piazza». Pensa che Landini abbia in mente un partito? «Non mi pare che stia nascendo un soggetto politico».
Niente piazza e niente scissione. A tre giorni dall’assemblea di sabato all’Aquario romano, che aveva infiammato gli animi dei «dem», Bersani smussa gli spigoli. Ma nel merito i suoi ragionamenti restano duri nei confronti del premier. La democrazia di Renzi è una «democratura», come sostiene Scalfari? Su questi «geniali neologismi» Bersani non si esercita e però sottolinea come la democrazia del segretario dem sia «fatta di decisioni, velocità e anche di lentezze». E spiega: «L’idea che si decide più alla svelta se non si parla con nessuno è sbagliata, perché a volte si decidono cose e poi tocca tornarci. Il decisionismo, il tagliar corto, spesso può essere una postura. Decidere è una cosa seria». Gli echi dell’attacco di D’Alema al premier continuano a dividere, Bersani conferma il suo primo commento e avverte Renzi: «Le parole di D’Alema sono sacrosante a proposito del disagio. Mentre il Pd governa e ha il massimo di espansione c’è il rischio che perda il rapporto con un pezzo delle sue radici». E qui l’intervistatore, Massimo Giannini, gli gira l’accusa dei renziani: «Se cerchiamo poltrone? Queste sono volgarità, punto e basta».
Il vero banco di prova delle tensioni di questi giorni tra maggioranza e minoranze del Pd sarà l’Italicum. E per quanto i suoi accenti suonino più concilianti, sui principi Bersani non si smuove: «Diranno che è un penultimatum, ma così quella legge elettorale, nel combinato con cui viene fuori il Senato, non è votabile per una questione democratica». Un passaggio parlamentare delicato per il governo, sul quale lo stato d’animo di Bersani coincide con quello di Landini. Il leader della Fiom guiderà le tute blu contro il Jobs act, contro la riforma Fornero e contro la «politica di destra» di Renzi, che «favorisce le imprese e applica la politica di Confindustria». Il nome scelto dal segretario dei metalmeccanici per la manifestazione, «Union», rimanda all’idea della coalizione sociale che tante polemiche ha provocato.
Landini rilancia la «proposta» e giura, una volta ancora, che il traguardo non è fondare un partito, ma «costruire l’unità del mondo del lavoro e del mondo sociale». Lunedì ha incontrato una delegazione del M5S e, nonostante l’ok preliminare di Casaleggio, il confronto divide i 5 Stelle. E ieri Di Maio ha attaccato Landini: «È roba vecchia». Quanto alla Cgil, assicura che non c’è mai stato alcun dissenso con Susanna Camusso sui contenuti della manifestazione: «Non c’era nulla da chiarire». Conferma ne sia, sottolinea Landini, il fatto che sabato il segretario della Cgil parteciperà alla protesta, di ritorno da Reggio Calabria. «Io ci sarò — assicura lei —. Non c’è dubbio». E nel 2016 rinnoverà la tessera? « Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
Repubblica 25.3.15
Landini: “L’Italia ormai è in svendita sabato in piazza per difendere il lavoro e con noi ci sarà anche la Camusso”
Con la leader Cgil non c’è mai stato dissenso sulla manifestazione ma sulla proposta di coalizione sociale
di Silvia Garroni e Paolo Griseri
ROMA Con Susanna Camusso «non c’è mai stato dissenso sulle ragioni della manifestazione di sabato prossimo», piuttosto «sulla proposta di coalizione sociale ». Dunque il segretario della Fiom, Maurizio Landini, non è sorpreso dell’annuncio del leader della Cgil che parteciperà al corteo di sabato dopo le polemiche sul carattere più o meno politico dell’iniziativa. A Repubblica tvLandini parla anche della vicenda Pirelli: «E’ una svendita, l’Italia sta cedendo industrie strategiche a produttori stranieri».
Landini, sorpreso della scelta di Camusso di partecipare alla manifestazione?
«Assolutamente no. Non c’è mai stato dissenso di merito. Con la Cgil e, successivamente, anche con la Uil stiamo conducendo una battaglia contro il jobs act fin da quest’autunno».
A dire il vero la Cgil aveva giudicato con freddezza l’iniziativa di sabato. C’erano state delle polemiche...
«C’era stato un problema legato a una delle nostre proposte, quella della coalizione sociale, un progetto per combattere la frantumazione del mercato del lavoro determinata anche dalle scelte del governo Renzi».
Il jobs act è ormai legge. Come lo combatterete?
«Ci sono molte strade per cambiare le leggi. Questo è il primo governo che modifica le leggi sul lavoro riducendo i diritti senza nemmeno ascoltare le proposte dei sindacati e del Palrlamento. Il jobs act è stato scritto ricalcando le ricette di Confindustria e della Bce. Invito tutti ad andarsi a rileggere la lettera che la Bce scrisse all’Italia il 5 agostro 2011. Si chiedeva di aumentare l’età pensionabile, di introdurre la libertà di licenziamento, di superare i contratti nazionali. Tutti obiettivi che i governi Monti, Letta e Renzi hanno perseguito con costanza e continuità. Noi vogliamo manifestare sabato contro quella politica che rende più ricattabile e privo di diritti sia chi lavora sia chi un lavoro non ce l’ha».
Eppure il governo considera positivi i risultati delle nuove leggi. Sia sul piano dell’occupazione, sia su quello degli investimenti stranieri. Anche la vendita di Pirelli è un fatto negativo?
«La vendita, o meglio, la svendita di Pirelli è la migliore dimostrazione dell’assenza di una politica industriale in Italia. Abbiamo scelto di lasciare che il patrimonio tecnologico del Paese si trasformi in un supermarket dove i produttori e i fondi di investimento stranieri arrivano e fanno affari. La cosa più grave è che così si vendono conoscenze che vengono utilizzate da altri. Nel momento in cui i grandi produttori compiono scelte strategiche è evidente che finiranno per favorire i loro paesi. Per questo i governi di Spagna, Francia, Germania, Usa intervengono ad evitare che settori stretagici finiscano in mani straniere. Noi invece consideriamo un successo aver ceduto Finmeccanica ai giapponesi e Pirelli ai cinesi».
Il ragionamento vale anche per l’Ilva?
«Dopo tre anni di tentennamenti finalmente il governo ha deciso di entrare nella proprietà dell’Ilva per difendere non solo i posti di lavoro ma anche la presenza di un settore strategico come quello dell’acciaio. A maggior ragione non si capisce perché l’Ilva sì e Finmeccanica e Pirelli no».
Perché in Spagna e Grecia la crisi sta premiando i partiti di sinistra radicale e in Italia no?
«Io sono un sindacalista, non sono un politico e tantomeno ho voglia di farlo. Quel che stiamo provando a fare è cercare di riunire il lavoro che le politiche del governo stanno frantumando. Segnalo solo che sia In Spagna che in Grecia ci sono sindacati più deboli di quello italiano».
Con la coalizione sociale?
«La coalizione sociale è una proposta e cercheremo di capire l’11 aprile se riusciamo a costruirla. Penso a gruppi di associazioni che nei diversi territori riuniscano chi lavora e chi non riesce a farlo, chi è precario e chi è disoccupato. Un progetto tutto da costruire ma anche una strada per riformare il sindacato. Altrimenti anche la sopravvivenza delle attuali organizzazioni del movimento dei lavoratori è a rischio».
il manifesto 25.3.15
Camusso-Landini tregua unitaria
La coalizione sociale tornerà dopo Pasqua: grande assemblea a Roma per lanciare una struttura federale in ogni Comune
di Massimo Franchi
qui
Repubblica 25.3.15
Le tre sinistre
di Marc Lazar
GLI attacchi contro Matteo Renzi durante la riunione della sinistra del Partito democratico, sabato scorso a Roma, non sono il segno di un fenomeno tipicamente italiano, ma testimoniano di un processo generale, in atto in molti partiti della sinistra europea — ad esempio in Francia e in Spagna — anche se con lievi differenze da un Paese all’altro. Per lungo tempo la sinistra europea era organizzata in due grandi famiglie, la prima riformista, l’altra rivoluzionaria e radicale; mentre oggi le sue diverse sensibilità la suddividono in tre principali settori, uno dei quali manifesta una chiara perdita di velocità.
Il primo, quello della sinistra liberale e pragmatica, è incarnato in maniera quasi emblematica da Matteo Renzi. Deliberatamente post-ideologico, il primo ministro ha già proclamato più volte di ritenere superata la divisione sinistradestra: per lui contano solo le riforme economiche, amministrative e politiche necessarie al rilancio dell’Italia e dell’Europa. Ispirandosi al metodo della triangolazione, caro a Bill Clinton, che consiste nell’impossessarsi dei temi dell’avversario, Renzi si propone di attirare elettori dal centro-destra e da categorie normalmente poco inclini a votare a sinistra. Per lui il partito del XXI secolo non avrà più nulla a che vedere col classico partito di massa nato alla fine del’800, con strutture rigide e una forte dottrina, radicato nella società, con numerosi iscritti. Ma non sarà neppure il partito acchiappa- tutto della seconda metà del secolo scorso, che cercava di ammorbidire la propria dottrina per conquistare fasce sociali diversificate.
Il partito moderno è quello del leader che si rivolge agli individui, grazie al suo carisma e a tutti i moderni mezzi di comunicazione. Un leader forte, talora decisionista, al limite dell’autoritarismo, capace se occorre di giocare una carta populista per cercare di ridestare nei cittadini più diffidenti verso le istituzioni e per i loro dirigenti il gusto della politica. In breve, una sinistra che si adatti alle mutazioni di società più individualiste, e alle odierne “democrazie del pubblico” — pur continuando a richiamarsi ad alcuni suoi valori storici: l’uguaglianza — distinta però dall’egualitarismo — o la giustizia sociale, per orientare la propria azione pubblica. In questo senso Manuel Valls in Francia, pur con la sua peculiare personalità e le sue singolarità, è vicino a Matteo Renzi.
A questa sinistra se ne contrappone un’altra, in maniera sempre più dura e violenta: quella radicale, che afferma di incarnare la “vera sinistra”. Presente in Italia con Sel, e da ultimo con Maurizio Landini, e in Francia col Front de gauche di Jean-Luc Mélenchon, questa “sinistra della sinistra”, incoraggiata dal successo di Syriza in Grecia e dall’avanzata di Podemos in Spagna, ricorre a una retorica della rottura radicale col liberismo, con l’Unione Europea e coi partiti tradizionali; ma in concreto propone un programma di difesa del welfare, o magari la sua estensione, e un’ampia ridistribuzione sociale. Anche questo schieramento, che dispone di forze variabili, manifesta in ciascun Paese le sue particolarità, cercando ovunque di affermare la propria autonomia politica. E si sforza di crearsi, a seconda dei sistemi elettorali in vigore, uno spazio elettorale suo proprio — a volte col rischio di seguire una strategia suicida, come in Francia in occasione delle elezioni dipartimentali: di fatto, qui il Front de gauche ha contribuito all’indebolimento del Partito socialista, rimanendo a sua volta sconfitto. Tutto ciò ha scavato un fossato sempre più profondo, quasi incolmabile, tra queste due sinistre, a beneficio (tranne che in Italia, almeno per ora) delle formazioni populiste di estrema destra, così come di quelle che rifiutano di collocarsi su quest’asse.
Esiste infine una terza sinistra, strattonata tra le due prime e molto eterogenea: quella di mezzo. In Italia fa capo a D’Alema, Bersani, Cuperlo e Civati, e attacca Renzi sia per la sua gestione del partito, sia per alcune sue riforme (anche se non tutte) e il suo metodo di governo. Per il momento questo gruppo conduce la propria battaglia all’interno del Pd e non pensa a una scissione, anche perché il suo margine di manovra è troppo stretto. Lo stesso avviene in Spagna con Izquierda socialista in seno al Psoe, o in Francia con la “fronda” del Ps, più influente, in seno al suo partito, della sinistra Pd, che si contrappone a Valls e a Hollande, ma in fondo non ha una vera alternativa da proporre. Non è né social-liberale, né radicale di sinistra. Questi ninistes ( da ni, che in francese vuol dire né) si proclamano socialdemocratici, nel momento stesso in cui le ricette della socialdemocrazia sono in crisi, sia per la concezione del partito che per l’azione al governo. Presi come in una tenaglia tra due poli — la sinistra social-liberale e quella radicale — sono alla ricerca di un’identità perduta.
Oggi questa tripartizione squilibrata, che illustra l’importante evoluzione in atto in seno alla sinistra europea, sta disorientando elettori e simpatizzanti. Ma indubbiamente preannuncia, in un futuro più o meno prossimo, importanti ricomposizioni politiche e drammatiche rotture. (Traduzione di Elisabetta Horvat)
Repubblica 25.3.15
Bersani: “Da D’Alema parole giuste rischiamo di perdere le nostre radici”
ROMA Sul disagio nel Pd ha ragione D’Alema, le sue sono state «parole sacrosante: mentre il Pd governa e ha il massimo d’espansione c’è il rischio che perda rapporto con un pezzo delle sue radici». Pier Luigi Bersani condivide l’attacco dell’ex premier sul PdR, il Pd di Renzi. E liquida le accuse mosse dai renziani alla sinistra dem: «Se cerchiamo poltrone? Queste sono volgarità, punto e basta». In una intervista a tutto campo in tv a Ballarò, l’ex segretario torna anche sull’Italicum, la nuova legge elettorale per ribadire che senz’altro «c’è la possibilità di correggere e di discutere. Diranno che è un “penultimatum”, ma così quella legge elettorale, nel combinato con il nuovo Senato, non è votabile per una questione democratica ».
Nessuna intenzione quindi di retrocedere, però battaglie dentro il Pd. E conferma che non sarà in piazza sabato prossimo, alla manifestazione della Fiom che sarà anche il battesimo di “Coalizione sociale”: «Con tutto il rispetto per questa iniziativa spiega - mi pare più una discussione sul modo di intendere il sindacato...Non mi pare che stia nascendo un soggetto politico». A proposito della “democratura” e del decisionismo di Renzi, dice: «Qui non si discute l’esigenza di decidere, semmai sul che cosa si decide. Certamente l’idea che si decide di più se si ragiona di meno, che si decide più alla svelta se non si parla non nessuno è un’idea sbagliata». A Stefano Fassina che aveva chiesto un passo indietro sia di D’Alema che suo, Bersani risponde chiacchierando con i cronisti a Montecitorio: «L’ho solo spinta la nuova generazione, sono loro che devono fare passi avanti. Io il passo indietro mi pare di averlo fatto. O no?».
Corriere 25.3.15
Prescrizione più lunga, lo strappo di Ncd
La riforma passa alla Camera. Alfano promette battaglia. Orlando: possibili modifiche
di Dino Martirano
ROMA Anche sui tempi di prescrizione dei reati inizia l’inversione di tendenza. Dopo aver avviato al Senato il ritorno del reato di pericolo per il falso in bilancio, la maggioranza (seppur divisa, dopo la rivolta del Ncd) ha varato in prima lettura alla Camera la riforma che concede più tempo alla «pretesa punitiva dello Stato» e, in particolare, aumenta notevolmente i tempi di prescrizione della corruzione. Per questo reato, basato su un patto di omertà tra due o più soggetti, i tempi massimi per svolgere il processo si impennano a oltre 21 anni. E proprio sull’entità dell’aumento della prescrizione per la corruzione si è consumato lo strappo tra il Pd e il Ncd di Alfano che ora si chiama Area popolare. I centristi, dunque, dopo aver votato in Commissione contro il testo sulla prescrizione, in Aula si sono astenuti: il provvedimento è passato con 274 sì (Pd, Sc, Popolari per l’Italia, Centro democratico), 26 no, (Forza Italia in ordine sparso), 121 astenuti (M5S, Sel, Ap, Lega).
La mezza retromarcia di Area popolare è arrivata grazie all’apertura del Guardasigilli Andrea Orlando che si impegna ad accogliere le richieste (al ribasso sui tempi di prescrizione) che il Ncd presenterà al Senato: «Daremo battaglia», avverte Angelino Alfano. Mentre la capogruppo Nunzia De Girolamo va oltre: «Penso che Renzi debba fare i conti con i numeri e non credo che al Senato siano gli stessi che alla Camera». Il viceministro della Giustizia Enrico Costa (Ncd), che ha votato secondo le indicazioni del governo per «senso delle istituzioni» anche contro l’emendamento del suo partito, parla di «normale, fisiologica e costruttiva dialettica nella maggioranza: sulla prescrizione abbiamo superato una fase importante ma non è quella definitiva.
L’affondo del Ncd non ha comunque rovinato la festa al Guardasigilli Andrea Orlando che ha messo un’altra bandierina sul tabellone delle riforme sulla giustizia da offrire al premier Renzi e si è pure concesso di annunciare l’arrivo entro fine anno di 2.250 nuovi cancellieri nei tribunali italiani. Come dire, che i tempi di prescrizione più lunghi (sospensione automatica dei termini di due anni dopo la condanna di primo grado, e di un anno dopo l’appello) viaggiano di pari passo con gli investimenti strutturali e per il personale. Politicamente, Orlando si però rifugiato in corner: «È sbagliato dire che la maggioranza si è spaccata perché alla fine il voto di astensione del Ncd dimostra che c’è ancora disponibilità a continuare il confronto».
Molto soddisfatta la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti (Pd) che è riuscita, grazie a un emendamento di Alessia Morani (Pd), a imporre anche una battaglia di civiltà: per gli abusi sui minori la prescrizione inizierà a decorrere dal momento in cui la vittima compie i 18 anni (convenzione di Istanbul). Davide Ermini, responsabile Giustizia del Pd, ha invece polemizzato con i grillini parlando di «inutile presenza del M5S: se fossero più umili forse riuscirebbero a fare qualcosa».
Infine l’Associazione nazionale magistrati che sposa le tesi dei grillini: «Bene la riforma ma non basta. Per noi la prescrizione deve essere interrotta quanto meno con sentenza di primo grado come avviene in altri Paesi», ha detto il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Il provvedimento ora passa al Senato dove, annuncia Roberto Cociancich (Pd), «il testo deve essere calendarizzato quanto prima». Anche perché se il partito di Alfano vuole «dare battaglia» bisognerà pur affrontare quello che il relatore del testo alla Camera, Stefano Dambruoso (Sc), ha segnalato come il cuore dle problema: «Ha una sua ratio allungare della metà il termine di prescrizione per la corruzione perché questo reato viene scoperto con più difficoltà perché fondato su un accordo illecito quasi sempre privo di un denunciante».
Più che amara la considerazione di Michele Anzaldi (Pd): « Con questa riforma, il processo di Calciopoli avrebbe avuto 3 anni in più per non finire prescritto».
Corriere 25.3.15
La nuova prescrizione e quella corsa a inseguire gli umori dell’opinione pubblica
di Giovanni Bianconi
C’ è un «non detto» piuttosto esplicito, sebbene non detto, nelle parole con cui il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha accompagnato ieri a Montecitorio l’approvazione del disegno di legge sulla nuova prescrizione nel processo penale. Una riforma che lui avrebbe preferito inserire all’interno di quella più complessiva su tempi e modalità di indagini e dibattimenti, ma la Camera ha deciso di anticiparne il varo. Ufficialmente — ha spiegato il Guardasigilli — perché c’erano altre proposte sullo stesso argomento che bisognava comunque votare; ufficiosamente — non ha spiegato, ma ha lasciato intendere — perché s’è creato nel dibattito politico e tra i cittadini un clima di allarme, se non di vero e proprio scandalo, per i reati dichiarati estinti a causa del troppo tempo necessario ad accertarli in via definitiva (l’ultima resa, su Calciopoli, è della notte prima del voto).
Insomma, s’è dovuto accelerare sull’onda della pubblica opinione che stava diventando pubblica emozione, alla quale la politica — in questo caso il Parlamento — ha voluto affrettarsi a dare risposte. Mettendo in conto, per ammissione del governo, che nel prossimo passaggio al Senato bisognerà aggiustare qualcosa se nel frattempo lo stesso Senato avrà approvato la riforma sulla corruzione, che inciderà a sua volta sui termini di prescrizione per quel tipo di reati. Una sorta di approvazione «con riserva», quindi. Seppure implicitamente, il Guardasigilli ha ammesso una certa soggezione della politica al dibattito extra istituzionale che rischiava di lasciarla indietro, con conseguente esigenza di fare in fretta, anche se non nel migliore dei modi. Tuttavia è difficile sostenere che approvare una legge «fuori contesto» per non trovarsi in difficoltà di fronte al montare di scandali e riprovazione generale sia un buon modo di legiferare. Farne colpa all’opinione pubblica sarebbe però sbagliato; semmai è la politica a non aver saputo leggere quel che stava accadendo, trovandosi costretta a rincorrere.
il Fatto 25.3.15
Il teatrino prescrizione. Una riforma brodino
La Camera approva la legge, ma Alfano minaccia e Orlando promette correzioni: al ribasso
di Luca De Carolis
Nasce come un giro di vite ma rischia di rivelarsi un’ammuina. Era il 20 novembre 2014, Renzi prometteva: “Mai più prescrizione”, dopo la sentenza Eternit (duemila morti a Casale Monferrato) ; poi quattro mesi di teatrino. E ieri un testo perfetto per strappare titoli in giorni di scandali e manette, ma pronto a tramutarsi in un brodino. Per di più dal futuro incerto, nel Senato dove il ddl anticorruzione è parcheggiato da 740 giorni. Parte già claudicante, la legge sulla prescrizione approvata ieri in prima lettura alla Camera. Perché Ncd rumoreggia e con Alfano minaccia “battaglia”a Palazzo Madama. Mentre il ministro della Giustizia Orlando già promette correzioni in seconda lettura per tacitare l’alleato.
LA CERTEZZA è che ieri pomeriggio la Camera mezza vuota (300 votanti) ha approvato la legge che riforma la prescrizione con 274 voti favorevoli, 26 contrari e 121 astenuti. Hanno detto sìPd, Sceltacivica, Fratellid’Italia e Alternativa libera (gli ex M5S). Contrario un pugno di deputati di Forza Italia e Lega nord, astensione da Cinque stelle, Sel e soprattutto Area popolare (Ncd più Udc). Alleato (quasi) indispensabile per Matteo Renzi, avverso a una legge che comunque stringe i bulloni delle norme. Innanzitutto, perché aumenta della metà i tempi della prescrizione per la corruzione propria, impropria e in atti giudiziari. Tradotto, la prescrizione per la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio sale da otto a 12 anni. Altro punto importante, il decorrere della prescrizione viene sospeso per due anni dopo la sentenza di condanna di primo grado e di un anno dopo quella di appello (se conforme). Prescrizione sospesa anche nel caso di rogatorie all’estero (sei mesi), perizie complesse chieste dall’imputato (3 mesi) e istanze di ricusazione. Infine, per reati gravi contro i minori (dalla violenza sessuale alla prostituzione fino alla pornografia) la prescrizione inizierà a decorrere dal 18° anno dietà, enonpiùdal14°. Insintesi, è la legge votata a Montecitorio. Come previsto, la maggioranza l’ha portata a casa in un giorno d’aula, con i tempi contingentati. Ma i lavori di ieri raccontano già gli intoppi prossimi venturi. Si parte di buon mattino, con i Cinque stelle che illustrano la proposta al Pd: voto favorevole in cambio di tre modifiche al testo, tra cui la sospensione della prescrizione senza limiti dopo il primo grado. Ma come annunciato Pd e sodali fanno spallucce. La scena però se la prende Ap, che in commissione Giustizia aveva votato contro il ddl con gran rumore. In aula Alessandro Pagano presenta un emendamento per abolire l’articolo 1, quello che aumenta della metà i tempi della prescrizione. Il monito dal microfono è chiaro: se non passa voteremo contro la legge. L’emendamento viene bocciato. Ma pochi minuti dopo Orlando prende la parola. E in politichese tende la mano: “La possibilità di coordinare le norme sulla prescrizione con interventi che incidano sulla ragionevole durata del processo e sulle modifiche delle pene per alcuni reati sarà riservata alla seconda lettura”. Insomma, si tratterà: al ribasso. E il capogruppo di Ap Sergio Pizzolante è soddisfatto: “Accogliamo con favore la disponibilità del ministro, quindi ci asterremo”.
ANCHE il M5S annuncia l’astensione, ritenendo impossibile dire no a un ddl che comunque aumenta i tempi. Ma Andrea Colletti precisa: “La legge è troppo timida, un’occasione persa”. Il dem David Ermini punge: “I Cinque stelle sono inutili”. Proteste. Si vota, e la legge passa agevolmente. Flebili applausi. Orlando assicura: “Non si può tornare indietro sull’impostazione”. Nunzia De Girolamo (Ap) risponde così: “Renzi deve fare i conti con i numeri, e al Senato non sono gli stessi che ha alla Camera”. In serata, Alfano: “A Palazzo Madama faremo una battaglia sulla legge: e dopo il caso Lupi vogliamo le intercettazione in pole position”. La trattativa è aperta. Pagano sostiene: “Questa legge fa salire i tempi della prescrizione a un massimo di 22 anni, tra aumento base e sospensioni varie: intollerabile. L’accordo con il governo era un altro, si arrivava a un massimo di 16 anni, poi il colpo di mano”. Come si rimedia? “Stralciando l’articolo 1 (quello che aumenta della metà i tempi della prescrizione, ndr). Poi i nostri senatori sapranno cosa fare”. Ap vuole scendere dalla metà a un quarto, il Pd potrebbe concedere a un terzo. Anche se ieri diversi renziani ripetevano: “Non si cambia nulla, è la linea di Matteo”. Ma c’è il fattore tempo. Il ddl potrebbe essere calendarizzato dopo le Regionali e poi giacere chissà quanto in commissione Giustizia. È già accaduto per il ddl Grasso, che oggi sbarca in aula dopo due anni. Il precedente c’è. I sospetti pure.
La Stampa 25.3.15
Resa dei conti rinviata all’Italicum
di Marcello Sorgi
Più che uno scontro vero tra Pd e Ncd, dopo il caso che ha portato alle dimissioni da ministro Maurizio Lupi, la seduta della Camera che, alla fine di un tormentato dibattito, ha approvato l’allungamento dei termini della prescrizione per la corruzione, ha segnato una resa dei conti tra le diverse anime del Nuovo centrodestra: Alfano e Quagliariello intenti a negoziare la nuova collocazione del partito al governo e la Di Girolamo che preme per una verifica più approfondita, al termine della quale, sostiene, non si dovrebbe escludere di passare all’appoggio esterno, mettendo Renzi al Senato in condizioni più precarie.
La soluzione trovata - l’astensione, e non il voto contrario di Ncd, a fronte di un impegno del ministro di Giustizia Orlando a riaprire la trattativa in seconda lettura a Palazzo Madama - segnala che il fronte dei governativi è ancora prevalente su quello degli aspiranti oppositori. Ma fino a che non sarà definita la nuova composizione dell’esecutivo le acque non sono destinate a calmarsi.
Il timore dell’Ncd è che Renzi approfitti del suo interim alle Infrastrutture per dare una bella ramazzata al ministero, presentandosi davanti all’opinione pubblica come l’unico capace di prendere di petto i problemi. In questo senso le affermazioni del premier di lunedì nell’incontro alla Luiss non sono state affatto tranquillizzanti per gli alfaniani, che temono di dover pagare molto salato il conto dello scandalo delle Grandi Opere. Renzi infatti è partito alla carica dei superburocrati inamovibili, lasciando intendere che sono spesso loro i responsabili dei guai che poi tocca ai politici affrontare. Se queste sono le intenzioni con cui si accinge a prendere servizio come ministro ad interim, le preoccupazioni dell’Ncd sono fondate.
Vi è poi un’insoddisfazione di fondo tra i parlamentari centristi per il ruolo di complemento che il partito sta avendo rispetto al governo. Alfano dice che in molti casi, ad esempio il Jobs Act, Renzi alla fine ha fatto quel che gli era stato suggerito dall’alleato di centrodestra. Ma i suoi oppositori interni lo accusano di essere arrendevole e aver troppo spesso trasformato i suoi «no» in «sì» o in «ni», com’è accaduto per il voto prima negato e poi concesso a Mattarella, e come appunto è finita ieri sulla prescrizione.
Naturalmente Renzi ha perfettamente chiaro che la partita del Ncd non riguarda per davvero la presenza al governo, ma rimane soprattutto interna: è per questa ragione che, tra interim e pausa pasquale, lascerà cuocere nel proprio brodo l’alleato che mugugna. La partita vera nella maggioranza si aprirà dopo le regionali, quando alla Camera arriverà la legge elettorale.
il Fatto 25.3.15
Metro C, indagato l’assessore di Marino
di Carlo Tecce
GUIDO IMPROTA CERTIFICÒ L’ESIGENZA DI EROGARE ALTRI 90 MILIONI AI COSTRUTTORI DOPO UN INCONTRO CON INCALZA
Ai signori del cemento e dei sovrapprezzi non poteva sfuggire la Metro C di Roma. Non una grande opera, ma la grande opera per eccellenza che ha subìto una crescita esponenziale degli investimenti. La terza linea della Capitale doveva costare 2,7 miliardi di euro - chiavi in mano, cioè pronta con i treni in partenza - e per ora s’aggira intorno ai 3,7 miliardi. Adesso s’è saputo (la notizia l’ha anticipata il Tempo) che il boiardo Ercole Incalza, già arresto per l’inchiesta di Firenze, è indagato dalla Procura di Roma assieme a Guido Improta, ex sottosegretario alle Infrastrutture nel governo di Mario Monti e attuale assessore alla mobilità al Comune di Roma, un fedelissimo del sindaco Ignazio Marino. Il sospetto: affidamenti illeciti di appalti e, in particolare, un indennizzo pubblico di 90 milioni di euro per la Metro C.
UN SERVIZIO di Francesca Fagnani di Ballarò racconta il ruolo di Improta per un atto attuativo, datato 9 settembre 2013, che stanziava un contribuito di 90 milioni di euro al consorzio di imprese, che va da Caltagirone ad Astaldi fino alle cooperative, e poi scaricato sul Campidoglio. Lo stesso Improta spiega a Ballarò che la decisione fu presa, secondo prassi, il 4 settembre 2013 al ministero di Porta Pia: presenti Incalza, allora responsabile della struttura di missione; l’assessore regionale Michele Civita, i vertici di Roma Metropolitana e rappresentanti di Metro C. Ma l’ex presidente di Roma Metropolitane, Massimo Palombi, dichiara a Fagnani che a un certo punto Incalza proseguì la riunione soltanto con Improta e Civita. Dopo gli incontri, il 9 settembre, Incalza spedì una lettera, il già citato atto attuativo, per certificare l’esigenza di ulteriori 90 milioni di euro, che il primo agosto 2014 sono stati sbloccati dal comitato interministeriale (Cipe). Con una postilla: paga il Campidoglio, ai costruttori viene richiesta la copertura di un misero 3,75 per cento dei 90 milioni di euro. O Improta ha rimosso l’episodio oppure ha mentito. Nel frattempo, l’assessore esclude un suo coinvolgimento: “Non ci sono stati abusi d’ufficio e anche l’atto attuativo della Metro C è passato attraverso Roma Metropolitane. Io non ho responsabilità dirette”.
SUGLI SPRECHI per la Metro C, oltre ai fascicoli aperti in Procura, ci sono i magistrati contabili che vogliono capire perché i cantieri della metropolitana sono proceduti a rilento mentre il preventivo aumentava e perché le amministrazioni hanno concesso 45 varianti di progetto. Come dimostrano le intercettazioni pubblicate dal Tempo, Improta aveva una certa familiarità con i personaggi che ruotavano intorno al sistema di Incalza. Il 10 gennaio 2014, annotano i militari del Ros, Improta chiama l’imprenditore Giulio Burchi, ex presidente di Italferr, indagato a Firenze e gli offre la guida di Roma Metropolitane (poi colpita da un’inchiesta) :
“Io vorrei la settimana prossima convocare un’assemblea straordinaria, azzerare tutto e mettere un amministratore unico. Quindi seleifaqualchepensata... iol’accoglierei. (…). Ovviamente situazione prestigiosa perché è la più grande opera pubblica che si sta realizzando (…) quindi ci vuole qualcuno che abbia competenza giuridica, tecnica e sensibilità politica. Ha fatto tanti soldi e quindi... ”. Non si sbagliava, Improta.
il Fatto 25.3.15
Mafia Capitale, si dimette l’uomo di Zingaretti
di Valeria Pacelli
ACCUSATO DI TURBATIVA D’ASTA PER UNA GARA AGGIUDICATA A UNA COOP VICINA A BUZZI: LASCIA IL CAPO SEGRETERIA DEL PRESIDENTE DEL LAZIO
Il numero due del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, si dimette. Maurizio Venafro, capo di gabinetto della Regione, è indagato per turbativa d’asta nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale della Procura di Roma. Così prima che la vicenda diventi un boomerang per la giunta Zingaretti, Venafro ha deciso di fare un passo indietro e ieri ha inviato una lettera di dimissioni dove ha spiegato che le indagini degli inquirenti sono “(purtroppo) incompatibili con i tempi della politica, dell’informazione e, infine ma non per ultimo, con quelli della mia personale dignità”.
A TIRARE in ballo Maurizio Venafro nell’inchiesta che ha scoperchiato una presunta mafia a Roma, sono stati anche alcuni testimoni che sentiti come persone informate sui fatti avrebbero ricostruito le fasi precedenti all’assegnazione di uno degli appalti più ricchi della regione Lazio: quello del Recup, il centro di prenotazione di prestazioni sanitarie della Regione, che in totale valeva 60 milioni di euro. L’appalto era stato diviso in quattro lotti, di cui uno, per circa 14 milioni, era stato assegnato in una prima fase ad una cooperativa vicina al sodalizio .
Alla fine però questo appalto, oggetto anche di alcune interrogazioni in Regione come quella di Francesco Storace de La Destra, non ha avuto vita lunga. Dopo gli arresti del 2 dicembre che hanno sconvolto la Capitale quindi il presidente Zingaretti ha annullato quel bando e la gara quindi non è stata assegnata definitivamente.
Il coinvolgimento di Venafro però – secondo alcune indiscrezioni sul caso nonostante il massimo riserbo della procura – ci sarebbe in un momento precedente. Ossia quando il capo di gabinetto della Regione nomina Claudio Scozzafava nella commissione che doveva assegnare l’appalto. Anche Scozzafava, già dirigente del Campidoglio e dell’ospedale Sant’Andrea, è stato iscritto nel registro degli indagati della procura di Roma con l’accusa di associazione a delinquere e corruzione. I guai giudiziari per questa nomina secondo Maurizio Venafro si concluderanno con un’archiviazione: “Non ritengo finchè la mia posizione non sarà chiarita e chiusa con l’inevitabile archiviazione – scrive nella lettera di dimissioni – conseguente alla mia estraneità ad ogni ipotesi d’accusa, parlare pubblicamente dell’indagine, dei fatti e delle ragioni che depongono per l’assoluta correttezza e trasparenza del mio operato”.
Che Buzzi volesse mettere le mani su uno degli appalti più ghiotti della Regione i magistrati romani lo avevano capito già nella prima fase delle intercettazioni. In una riunione negli uffici di Buzzi del 5 maggio 2014, Carlo Guarany ritenuto dai pm collaboratore del ras delle coop, fa riferimento ad una gara da 60 milioni. Fabrizio Testa ribatte: “Bhe in Regione Lazio... (inc)... Luca” e Carminati rassicura: “In Regione c’avemo... c’è Luca”.
Carlo Guarany sembra non convinto: “Si ma io voglio di’... questi qui la gara de 60 milioni di euro l’avranno vista, no? ”. Poco dopo interviene di nuovo Massimo Carminati: “No, ma Luca sicuramente è stato interessato... però capito se dobbiamo arrivacce alla cosa ce arrivamo in un’altra maniera”. Il Luca a cui si fa riferimento come chiariscono i pm nell’ordinanza è Luca Grama-zio, indagato anche lui nell’inchiesta sul ‘mondo di mezzo’ per brogli elettorali e figlio dell’ex senatore Domenico. “In merito ad una non meglio precisata gara da 60 milioni, – scrivono i pm – Massimo Carminati ricordava ai presenti che in Regione Lazio potevano contare anche sull’appoggio di Luca Gramazio”. Poi con il proseguire delle indagini, gli inquirenti hanno scoperto che la gara da 60 milioni di cui parlava il gruppo poteva essere quella Recup. In aiuto ai pm anche una seconda intercettazione, captata il 2 settembre 2014, tra la segretaria di Buzzi, Nadia Cerrito e Claudio Caldarelli, punto di collegamento tra l’organizzazione e la politica. La Cerrito dice: “A Clà, ma l’avemo vinto quel discorso de ‘Formula Sociale’ per dei Cup, de Recup, che era? ”. Caldarelli risponde: “Stiamo.. ce va a pranzo oggi! ”. La segretaria si informa ancora. “Ma è buono come appalto? ”. E Caldarelli: “14 milioni”.
DA QUESTE intercettazioni sono stati avviati una serie di accertamenti non solo acquisendo documenti ma anche ascoltando in questi mesi diverse persone in Regione.
I dettagli della vicenda non sono ancora nitidi. Perchè Carminati faccia riferimento a Luca Gramazio in questo appalto specifico è ancora da chiarire, come pure mancano i dettagli del coinvolgimento del numero due in Regione. Che intanto ha rassegnato le dimissioni.
il Fatto 25.3.15
L’attore Gassmann e la lite su Twitter
“Il Paese muore di corruzione, Barracciu lasci”
di Emiliano Liuzzi
Ero d’accordo con quello che Matteo Renzi diceva da sindaco di Firenze, non condivido niente di quello che fa da presidente del Consiglio”. Alessandro Gassmann, professione attore, si toglie qualche sassolino dalle scarpe. Ma non perché sia diretto interessato: “Non faccio politica, la leggo e l’ascolto”. L’occasione è una lite via Twitter con la sottosegretaria Francesca Barracciu, indagata per peculato.
Lei è andato giù senza mezze misure con la sottosegretaria Barracciu. Le ha chiesto di dimettersi su Twitter. Voleva dirle che è una ladra?
No, non mi permetterei mai in assenza di una condanna definitiva. Che però aspettasse l’esito dell’indagine e nel frattempo si autosospendesse dalla carica che ricopre. Sarebbe stato grave rimanere in silenzio. Barracciu chiarisca la sua posizione poi rientri nella squadra di governo.
Difficile: Barracciu è diventata sottosegretaria perché l'indagine era ingombrante, altrimenti sarebbe stata governatore in Sardegna, comunque candidata. Non lo sapeva?
Sì, lo sapevo. Per quello le ho scritto. Ma ho ottenuto il risultato.
Nel senso?
Che la sottosegretaria con delega ai Beni culturali, e sottolineo la carica che ricopre, nella risposta ha dimostrato tutta la sua arroganza. Ma è quello che volevo. Ha risposto che avrei dovuto imparare a fare l’attore prima di chiedere il biglietto agli spettatori.
Ce l’aveva solo con Barracciu o con l’intero mondo renziano?
No, in realtà chi mi legge ha capito benissimo: io ce l’ho con tutti, senza distinzione. Questo Paese sta morendo di corruzione, ce ne rendiamo conto? Penso di sì. E allora è arrivato il momento di far sentire la nostra voce. Io lo faccio attraverso il blog che ho sul fattoquotidiano.it e in tutte le occasioni che mi si presentano. Anche su Twitter. Le ho dato un consiglio intelligente, lei ha risposto da arrogante. È indagata per peculato, 80 mila euro che avrebbe speso in benzina per i suoi giri in Sardegna. Forse là girava su uno yacht, non in auto, perché 80 mila euro sono soldi.
Renzi gira in elicottero.
Lì volevo arrivare. Non è moralmente corretto. Il Paese si spegne e il presidente del Consiglio si sposta in elicottero. La cultura, quello che doveva essere il fiore all’occhiello di questo governo, nelle promesse, ha preso il volo.
Ha visto che la Barracciu si è scusata? Ha detto di aver risposto in maniera affrettata. Ha dato la colpa alla frenesia di Twitter.
Mi fa piacere, perché ne usciva davvero male. Al tempo stesso però non cambio idea: tutte le persone che ricoprono un ruolo di responsabilità e sono indagate devono farsi da parte. Quando avranno chiarito le loro posizioni torneranno ai loro ruoli. Adesso no.
il Fatto 25.3.15
Cultura a chi?
La sottosegretaria Barracciu e lo strafalcione in 140 caratteri
di Andrea Scanzi
Una nuova stella brilla all’orizzonte: si chiama Francesca Barracciu. In realtà non è proprio nuovissima. Se ne parla da tempo (ovviamente) non per meriti particolari, ma poiché indagata per peculato nell’ambito della maxi-inchiesta della Procura di Cagliari sui fondi ai gruppi regionali. L’avviso di garanzia le è costato la candidatura alle Regionali, ma le è anche valso un posto da sottosegretario ai Beni Culturali: rottamazione vera. Degna espressione del renzismo, pensiero debole e saccenza sbarazzina, la simpatica Barracciu ha tuonato ieri – su Twitter, il parco-giochi preferito dai renziani – contro Alessandro Gassmann. L’attore aveva osato chiederne le dimissioni, come milioni di italiani. Lei però non ha gradito e ha risposto piccata. Così piccata che nessuno ha capito granché del suo strano idioma. Testuale: “chiarirò tutto a fondo. lei intanto che impara a fare l’attore, può evitare far pagare biglietto cinema per i suoi “film”? grazie”. Forse un grammelot, forse il solito post-paninarismo. O magari un complotto del T9.
Tanti, in Rete, hanno infierito sulla Barracciu. Tra questi Luca Bizzarri: “Ma è sottosegretaria ai beni culturali di che Paese? Dalla prosa non si capisce”. La Barracciu è adusa a tali performance: lo scorso dicembre, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della morte del poeta Sebastiano Satta, lo confuse ripetutamente con Salvatore. E sì che erano entrambi sardi, proprio come la 49enne Barracciu. La quale, al tempo, incolpò l’entourage: “Una leggerezza del mio staff”. Lo stesso elegantissimo – e credibilissimo – scaricabile adottato da Mary Star Gelmini dopo il tunnel dei neutrini e dal totemico Francesco Boccia dopo aver sostenuto che gli F35 sono “elicotteri” che “spengono incendi, trasportano malati, salvano vite umane”. È però probabile che, stavolta, la Barracciu non accamperà scuse ma si intesterà il tweet: poiché privo di senso compiuto e al contempo saturo di arroganza, Renzi le farà quasi sicuramente i complimenti.
Repubblica 25.3.15
L’amaca
di Michele Serra
Politologi di tutto il mondo eventualmente diretti ad Agrigento per studiare il fantastico caso dell’imprenditore vicino a Forza Italia che si candida alle primarie del Pd e le sbanca, seguano il mio modesto consiglio. Lascino perdere la pista politica. È un garbuglio inestricabile, fatto di liste civiche (non si ha idea di quante liste civiche possano esserci ad Agrigento, in pratica una ogni due abitanti), vecchi partiti afasici e nuovi partiti incomprensibili, benedizioni fatte da nemici e maledizioni fatte da amici, destra e sinistra frullate assieme, cronache bizantine con dichiarazioni il cui significato sfugge anche a chi le ha fatte, insomma niente che sia decifrabile se non (forse) dagli allegri protagonisti, che devono essersi divertiti un sacco. No, davvero non sembra rintracciabile in mezzo ai cocci della politica, la chiave che può aiutare a risolvere quel rebus. La chiave, date retta, è un’altra. Il signore che ha legalmente preso possesso del Pd, impacchettandolo e portandoselo a casa (lo esporrà in una bacheca?) è il presidente della locale squadra di calcio, l’Akragas. Sono pronto a scommettere che almeno la metà dei suoi duemila voti arrivano dallo stadio. E che gli stessi che lo hanno candidato come sindaco “di sinistra”, domattina lo seguirebbero, con un corteo imbandierato, alla conquista della destra. Un presidente, c’è solo un presidente.
il Fatto 25.3.15
I transumanti delle Camere: già 235 cambi di casacca
di Paola Zanca
Per definirli ha rievocato l’antico parallelo con la pastorizia: i “transumanti”. Li chiama così Pino Pisicchio, presidente del gruppo Misto alla Camera, ovvero in quotidiano contatto con il sismografo del pascolo della politica. Per capire di che parliamo, vale la pena cominciare da una storia già nota agli appassionati del genere. È quella di Dorina Bianchi, 49 anni, medico radiologo all’ospedale di Cosenza, negli ultimi tre lustri prestato alla politica. In questi 15 anni, Dorina Bianchi è riuscita nell’impresa di cambiare sei gruppi parlamentari: dalla destra alla sinistra dell’emiciclo, andata e ritorno.
RIPERCORRIAMOLA velocemente: nel 2001 viene eletta per la Casa delle libertà, nel 2005 passa alla Margherita, alle elezioni del 2006 torna in Parlamento con Rutelli e viene ricandidata nelle file del Pd nel 2008. L’anno dopo, però, confessa la sua “delusione”: tra i democratici “lo spazio per una presenza identitaria dei moderati cattolici si è ridotto al lumicino”. Così, dopo aver creato il panico su testamento biologico, pillola del giorno dopo e altre eticità, torna nell’Udc, che la candida sindaco di Crotone alle amministrative del 2011. Sul palco della città calabrese, però, Berlusconi, accorso per sostenere la sua campagna elettorale, va giù pesante contro Casini. Lei non dice nulla in difesa del segretario del suo partito, salvo poi comunicare alle agenzie una straordinaria notizia: “Ho preso la decisione di aderire al Gruppo del Pdl”. Le elezioni arriveranno da lì a due anni. A Palazzo Grazioli non si sono dimenticati di lei, lei ricambia di lì a poco: sale sul carro dell’Ncd, dove ancora siede, almeno fino a ieri sera quando questo giornale andava in stampa.
COME LEI, di transumanti in Parlamento, in questa diciassettesima legislatura, ce ne sono a centinaia. Per la precisione 185 che, come la Bianchi, in alcuni casi hanno collezionato più di un cambio, per un totale di 235 spostamenti da un gruppo all’altro. Li ha contati l’associazione Openpolis, mettendo a paragone questi dati con quelli della legislatura precedente. Allora si toccò quota 261, ma nel corso di cinque anni.
NELL’ULTIMO biennio, quello che va dalle elezioni del 2013 a oggi, praticamente quel numero lo abbiamo eguagliato e superato nella metà del tempo: dal 2008 al 2013 la media era di 4,5 cambi al mese. Poi è schizzata a 10,2. Molto è dovuto ai 58 parlamentari che hanno abbandonato Berlusconi per seguire Alfano nel governi Letta e Renzi. Poi c’è una discreta pattuglia di Sel che ha lasciato il partito di Vendola per entrare nel Pd: 11 in tutto, il più noto dei quali è Gennaro Migliore. E ancora la fuga (o la cacciata) dai Cinque Stelle: 35 addii, equamente distribuiti tra Camera e Senato. Tra tutti, il caso più sorprendente è quello di Fabiola Anitori che è riuscita a passare con disinvoltura da Beppe Grillo ad Angelino Alfano. Infine la diaspora di Scelta Civica, spappolata in vari gruppi (molti se ne andarono nei Popolari per l’Italia con Mario Mauro) che ormai contano pochi sopravvissuti (lo stesso Mauro oggi è in Gal). Ci sono anche casi bizzarri come quello di Luigi Compagna, inspiegabilmente transumato tra Gal e Ncd per cinque volte in due settimane: il 14 novembre 2013 lascia Gal per il partito di Alfano, se ne va il 19 e il giorno dopo rientra in Gal. Lo riabbandona il 1° dicembre per approdare definitivamente il 2 ancora nel Ncd.
Dicevamo che dal sismografo del gruppo Misto, l’onorevole Pisicchio si è fatto una cultura. E lui – sei legislature alle spalle (due nella Dc, due con Rutelli e due con Di Pietro) – nel suo libro, appena uscito, I dilettanti si è dato anche uno spiegazione: “Il fenomeno della transumanza è scoppiato con la fine dei partiti e l’eliminazione del voto di preferenza, combinato disposto di circostanze che hanno dato il via alla lunga stagione, ancora in atto, dei partiti ‘personali’ e dell’attenuazione, fino all’annullamento totale, delle garanzie di democrazia interna. In parole povere: se il leader, che è anche quello che decide la selezione delle candidature (quindi, con le liste bloccate, anche la nomina dei parlamentari), fa strame della democrazia di partito, che strumenti ha l’opposizione interna per contrastarlo e far valere le sue ragioni? ”.
FINO al ’94 il numero dei componenti del gruppo Misto era arrivato al massimo a quota 24. Nel 2001 erano diventati 94. Oggi, alla Camera, siamo a 37. “Ma – conclude Pisicchio – la legislatura non è ancora finita. Si può fare di meglio. ”
il Fatto 25.3.15
Dietro le vacanze di Poletti, syudenti gratis in azienda
Altro che “troppe ferie”. Ecco cosa c’è sotto l’ultima uscita del ministro
di Salvatore Cannavò
Un apprendistato gratis oppure pagato al 10 per cento del dovuto. Per capire che quella del ministro Giuliano Poletti sulle vacanze scolastiche – “sono troppi tre mesi” – non è una boutade tra le tante, basta andarsi a leggere i testi dei provvedimenti legislativi in via di approvazione. Due, in particolare: il terzo decreto attuativo della legge delega chiamata Jobs Act, quello sulle “Tipologie contrattuali” e il disegno di legge che riforma la scuola.
Se letti all’unisono i due documenti offrono un’idea molto precisa del rapporto tra scuola e lavoro immaginato dal governo Renzi e dell’obiettivo di far lavorare di più i giovani in età di studio, di pagarli meno, molto meno o, addirittura, di non pagarli per niente.
NON SIAMO PROPRIO al ritorno a Oliver Twist ma, anche nei riferimenti immaginifici – “i miei figli scaricavano le cassette al mercato”, dice il ministro Po-letti – si conferma che il progetto sociale dell’attuale governo è il ritorno alla stagione antecedente al 1970, alla conquista dello Statuto dei lavoratori ma anche alla stagione dei diritti sociali.
Quando il ministro dice che “non si distruggerebbe” un ragazzino se invece “di stare a spasso per le strade della città va a fare quattro ore di lavoro”, dice qualcosa che ha già impostato sia nel Jobs Act che nel disegno di legge sulla Scuola.
Il terzo decreto attuativo del Jobs Act, quello che deve ancora passare in Parlamento – e che è ancora nei cassetti del governo come se la fretta iniziale fosse esaurita – è finito sotto i riflettori soprattutto per la parte che riguarda la soppressione delle tipologie lavorative “precarie” (in realtà, solo i Co.co.pro., l’associazione in partecipazione e il job sharing). In quel testo, però, c’è un articolo, il 41, che introduce “l’apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione professionale”.
IL FINE È QUELLO di “coniugare la formazione sul lavoro effettuata in azienda con l’istruzione e formazione professionale svolta dalle istituzioni formative”, cioè gli enti di formazione. Questo apprendistato riguarda i giovani “che hanno compiuto i 15 anni di età” e la durata del contratto “è determinata in considerazione della qualifica o del diploma da conseguire” e non può essere superiore ai tre anni oppure a quattro nel caso del diploma professionale.
Per attivare la tipologia lavorativa, i datori di lavoro sottoscrivono un “protocollo” con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto in base a uno schema definito da un decreto ministeriale che definisce anche il contenuto e “l’orario massimo del percorso scolastico che può essere svolta in apprendistato”. I profili sono poi regolati dalle regione. Ognuna delle quali ha stabilito livelli di formazione annua differente: sono 1.000 ore in Emilia Romagna, 990 in Piemonte, Toscana e Liguria ma scendono a 400 in Lombardia e Campania. Secondo il Jobs Act, la formazione esterna all’azienda “non può essere superiore al 60% dell’orario per il secondo anno e del 50 per cento per il terzo e quarto anno”. Quanto alla retribuzione, “per le ore di formazione svolte nella istituzione formativa” il datore di lavoro “è esonerato da ogni obbligo retributivo”. Per quanto riguarda invece, le ore di formazione a carico del datore di lavoro, “è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10% di quella che gli sarebbe dovuta”. Trattandosi di un apprendista, si tratterebbe comunque di una retribuzione inferiore di almeno due livelli di categoria di quelli di un dipendente regolare.
Nella legislazione vigente, per la qualifica e per il diploma professionale, si riconosce una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione “almeno nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo”. Il peggioramento è evidente.
LO COMPLETA quanto previsto dal disegno di legge su “La buona scuola” dove, all’articolo 4, si parla di “Scuola, lavoro e territorio”. In questa sede si prevedono 400 ore di alternanza scuola-lavoro (200 per i licei) negli istituti tecnici; L’alternanza è prevista nei periodi di sospensione dell’attività didattica (Natale, Pasqua, estate) e viene inserita la possibilità dei contratti di apprendistato per la qualifica.
Finora le sperimentazioni avviate non hanno funzionato. Anche per questo, nella Buona scuola, sono previsti 100 milioni per finanziare gli incentivi alle imprese. Studiare meno, lavorare tutti.
il manifesto 25.3.15
La Cgil contro il Jobs School di Poletti
La segretaria Cgil Camusso: «Meno vacanze estive, più lavoro ai mercati generali? Espressione infelice, mi auguro che l'idea non sia quella di far fare qualche lavoretto per far capire com'è dura la vita»»
qui
il Fatto 25.3.15
Restano gli annunci
Buona scuola al palo. I precari tremano
di Wanda Marra
L’Italia dei prossimi 50-100 anni sarà fatta non dalla riforma del lavoro, che difendo, o dalla riforma della Pa, su cui contiamo molto, come sulle riforme istituzionali, ma sul modello educativo. Su questo ci giochiamo una delle chance di essere superpotenza mondiale”. Così parlava Matteo Renzi lunedì pomeriggio alla Luiss. D’altra parte, La Buona scuola è da sempre al top delle sue priorità. Almeno di quelle dichiarate. Eppure il disegno di legge tanto sbandierato, non è ancora arrivato neanche in Commissione. Per adesso, si sa che approderà alla Camera, presumibilmente subito dopo Pasqua. Quindi tra altre due settimane. Alla faccia dell’urgenza.
D’altra parte, che si trattava di un provvedimento travagliato, si era capito. Era stato annunciato fin dallo scorso agosto e poi via via rimandato. E con un percorso complicato anche nelle ultime tappe: doveva essere nel Cdm del 3 marzo. Niente, solo linee guida. Alla fine, il disegno di legge è stato licenziato in quello successivo, il 12 marzo. Con tanto di pressione di accompagnamento da parte del premier: “Vedremo se il Parlamento sarà responsabile. Altrimenti faremo un decreto”.
PECCATO che per essere responsabili, le Camere devono almeno avere un testo su cui lavorare. Ma nello stile ormai consolidato del governo Renzi, il testo licenziato dal Cdm è stato riscritto anche successivamente. Versione più o meno definitiva solo il 16 marzo. Poi, passaggio per la bollinatura alla Ragioneria. E per la calendarizzazione a Montecitorio c’è ancora da aspettare. Il tempo, in questo caso, è fondamentale. Soprattutto su uno degli aspetti della legge: in gioco c’è l’assunzione di 100.701 precari (e già altri 50mila in lista d’attesa sono stati cancellati). Se il ddl non diventerà legge entro maggio l’assunzione a partire dal prossimo settembre salta: ci sono dei tempi burocratici ineludibili, che diventa impossibile rispettare. Tra Camera e Senato per completare l’iter di una legge in genere servono almeno due mesi. Se non ci sono intoppi. I deputati Pd in Commissione Cultura, Scienza e Istruzione sono agguerriti e si dicono compatti. Ma che il percorso vada del tutto liscio in un Parlamento come questo e con i numeri di Palazzo Madama è poco credibile. Basta sentire Alfredo D’Attorre (minoranza dem): “Sul grande potere decisionale dei presidi e sui precari ho delle perplessità. Voglio leggere il testo prima di esprimere un parere”.
RENZI e i suoi vanno ripetendo che se il tempo non basta, il governo farà un decreto. La domanda sorge spontanea: allora, perché non l’ha fatto in prima battuta? A dare voce ai sospetti sono i parlamentari Cinque Stelle della Commissione Cultura: “Il timore è che il tanto sbandierato annuncio delle assunzioni in realtà sia l’ennesimo bluff di Renzi sulla pelle di insegnanti precari e studenti. Mentre il governo temporeggia i giorni passano e le assunzioni dei nuovi insegnanti sono sempre più a rischio. La verità è che il governo, con la complicità di Forza Italia, al di là degli annunci, sta facendo di tutto per far saltare queste assunzioni e scaricare poi la colpa sull'intero Parlamento”.
Corriere 25.3.15
Gli errori sul lavoro dei giovani
di Maurizio Ferrera
Parlando a un gruppo di studenti universitari, il presidente del Consiglio ha riconosciuto che la Garanzia Giovani non è «quella botta di vita che alcuni si aspettavano». Il programma di inserimento lavorativo cofinanziato dall’Unione Europea ha preso avvio quasi un anno fa. A nutrire aspettative erano soprattutto i due milioni e più di ragazze e ragazzi sotto i 29 anni che hanno smesso di studiare e non hanno (né cercano) occupazione. Circa 450 mila hanno seguito scrupolosamente le istruzioni e si sono iscritti sui portali Internet. Dovevano essere intervistati e «presi in carico» dai servizi per l’impiego entro quattro mesi e, soprattutto, ricevere un’offerta di lavoro, di stage, di formazione. Tutto il processo è invece in grave ritardo: sinora la presa in carico ha riguardato meno della metà dei registrati. Le ultime rilevazioni segnalano qualche progresso nei tempi e nei metodi: forse non tutto è perduto. Resta il fatto che solo 10 mila giovani hanno trovato effettivamente un posto di lavoro, di cui appena 1.500 nel Sud.
Questi problemi non sorprendono. Se un anno fa Matteo Renzi avesse consultato gli addetti ai lavori, ben pochi avrebbero mostrato ottimismo. Le difficoltà oggettive in cui versano molte aree e settori del nostro mercato del lavoro e la storica inefficienza dei servizi pubblici per l’impiego erano note a tutti. Soprattutto, era facile prevedere che le Regioni sarebbero andate ciascuna
per conto proprio, nel bene (poche) e nel male (molte). Secondo la vigente Costituzione, le politiche attive del lavoro sono di competenza regionale.
U na soluzione non infondata sulla carta ma che, col senno di poi, ha dato prova di non funzionare.
I posti di lavoro si creano nei «territori», è vero. Ma in mercati sempre più integrati, a livello europeo o addirittura globale, le politiche pubbliche non possono essere troppo frammentate né servire interessi localistici, quando non addirittura clientelari. Garanzia Giovani è caduta rapidamente in questa trappola. Soprattutto al Sud, una fetta importante ed eccessiva delle risorse disponibili è stata utilizzata per rafforzare le strutture regionali. Invece di preoccuparsi dei giovani in attesa, politici e sindacalisti hanno fatto a gara per assumere o stabilizzare piccoli eserciti di «formatori» locali: tutti preparati? Tutti necessari? È lecito dubitarne.
C’è poi un altro problema. Nel modello della flexicurity , l’accesso a indennità e sussidi è subordinato alla partecipazione lavorativa o formativa, altrimenti si disincentiva la disponibilità dei beneficiari (e s’incoraggia il lavoro nero). La Francia e la Germania hanno fatto riforme molto incisive su questo fronte. Noi abbiamo le Regioni, da un lato, e l’Inps, dall’altro, che si parlano poco e male. Il risultato è che non si riesce ad attuare nessuna politica di «condizionalità» tra ricerca di lavoro e prestazioni in denaro.
Che fare? Bisogna cambiare la divisione dei compiti fra Stato e Regioni e istituire un raccordo diretto fra Inps e servizi per l’impiego. Uno dei prossimi decreti delegati del Jobs act sarà proprio su questi temi. L’idea è quella di costituire un’Agenzia nazionale per l’Occupazione a cui attribuire le competenze gestionali ora disperse fra Regioni e Inps, secondo i modelli francese e tedesco. La riforma non potrà essere completa, tuttavia, senza riscrivere il Titolo V della Costituzione e riportare nelle mani dello Stato alcune prerogative decisionali. Matteo Renzi l’ha detto chiaramente: Garanzia Giovani e Titolo V sono fra loro collegati. L’affermazione risponde non solo a chi si lamenta delle lacune delle politiche del lavoro, ma anche a chi si stupisce dell’energia e del tempo che questo governo sta investendo nelle riforme istituzionali.
Il nesso fra regole decisionali ed esiti delle politiche è molto stretto. Se c’interessano i posti di lavoro e la crescita, dobbiamo rassegnarci a «perder tempo» con la Costituzione, le procedure decisionali, gli assetti amministrativi. Anche sotto questo profilo (e in parte proprio a causa di questo) siamo ben lontani dagli standard europei e dobbiamo recuperare terreno. Perdendo tempo oggi, sì, ma riguadagnandolo domani, insieme a una maggiore effettività del governo.
Come ha ricordato ieri il Financial Times, in Europa la disoccupazione resterà a due cifre nei prossimi anni, a dispetto del Quantitative easing. Più che una «botta di vita», alle nostre politiche del lavoro serve una scossa organizzativa che imprima un minimo di vitalità. Al servizio dei troppi giovani senza prospettive di inserimento, senza reddito autonomo, senza speranze.
La Stampa 25.3.15
I fondi per i migranti spesi in fiere di paese e contratti ai parenti
Caltagirone, inchiesta sul ”Cara” di Mineo
di Fabio Albanese
E dire che non lo volevano. E pensare che quando nel 2011 l’allora premier Berlusconi e l’allora ministro dell’Interno Maroni vennero a visitarlo e annunciarono che quella mega struttura di Mineo, ormai abbandonata dagli americani di Sigonella, sarebbe diventata il Cara (Centro accoglienza per richiedenti asilo), più grande d’Italia, poco ci volle che alzassero le barricate: «Qui non vogliamo migranti - dissero gli amministratori dei comuni della zona - potrebbero portare malattie e causare problemi di ordine pubblico». E invece, man mano che le procure di Catania e Caltagirone vanno avanti con le rispettive inchieste, dal Cara di Mineo, che ospita oltre tremila richiedenti asilo, l’unica malattia emersa è quella del malaffare: non dei migranti ma di chi li dovrebbe assistere.
Le risorse
Una delle due inchieste della procura di Caltagirone sull’«affare Cara» riguarda l’uso di risorse destinate al centro e usate invece per sagre e manifestazioni locali e per l’assunzione, sia nel Cara sia nelle strutture del Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) della zona, di decine, forse centinaia di persone, imparentate con politici e amministratori dei 9 comuni che aderiscono al Consorzio «Calatino Terra d’Accoglienza».
Il Consorzio gestisce il Cara e il ricco budget; l’ultima gara d’appalto, 97 milioni in tre anni, è stata giudicata «illegittima» dal presidente dell’autorità anticorruzione Cantone ed è da mesi sotto la lente della Dda di Catania, che ha avviato l’indagine dopo aver ricevuto dalla procura di Roma atti dell’inchiesta su “Mafia Capitale” con, al centro, il ruolo di Luca Odevaine, il quale aveva un incarico anche al Cara di Mineo. E’ in questa inchiesta che sarebbe indagato anche l’attuale sottosegretario all’agricoltura Giuseppe Castiglione (Ncd), ai tempi in cui da presidente della provincia di Catania fu soggetto attuatore della gestione del Cara (Castiglione nega di aver ricevuto un avviso di garanzia).
La procura di Caltagirone ha aperto questa seconda indagine, al momento «contro ignoti», dopo una serie di esposti anonimi e di denunce e dopo l’acquisizione di atti: il procuratore Giuseppe Verzera deve far luce sull’uso di una parte dei fondi per l’assistenza ai migranti, usati invece per contribuire all’organizzazione di manifestazioni come una sagra dell’uva a Licodia Eubea, la festa di Santa Lucia a San Cono, il Natale di Mirabella Imbaccari, il presepe vivente di Vizzini: solo nell’ultimo anno 200mila euro destinati a “progetti di integrazione” dei migranti, in minima parte utilizzati per i richiedenti asilo, «in scena» come partecipanti o spettatori.
L’occupazione
C’è poi il capitolo assunzioni. Attorno al business Cara-Sprar, controllato dal Consorzio, ruotano un migliaio di posti di lavoro. Molti occupati sono imparentati con sindaci, assessori ed ex assessori di tutti gli schieramenti. Posti di lavoro che, in comuni piccoli come questi, possono spostare i voti sufficienti a fare eleggere un candidato o un altro.
La Stampa 25.3.15
Utero in affitto, svolta in tribunale
“I genitori non commettono reato”
di Paolo Colonnello
Si può essere genitori legittimi anche con figli avuti dalla fecondazione surrogata. E’ questo il senso della sentenza con la quale la quinta sezione penale del Tribunale di Milano ha assolto una coppia dal reato di «alterazione di stato civile» per avere denunciato all’anagrafe del loro comune una coppia di gemelli avuti in Ucraina grazie a un utero in affitto: pratica legale in quel Paese, vietata da noi. Sempre ieri, ma questa volta a Brescia, la Corte d’appello ha assolto un’altra coppia che però, in primo grado, era stata condannata 5 anni di carcere.
Si tratta di una decisione che conferma la strada per una giurisprudenza più favorevole alle coppie sterili e tranquillizza le centinaia di genitori che ogni anno intraprendono «viaggi della speranza» in Ucraina, Russia, Georgia, Stati Uniti per avere un figlio che da noi sarebbe negato. Bisognerà aspettare 90 giorni per conoscere le motivazioni della decisione che comunque ribalta pronunciamenti della stessa sezione di tribunale la quale, appena due anni fa, aveva riconosciuto «colpevoli» due genitori per lo stesso reato e per un episodio analogo, pur attenuando la condanna.
Il reato in effetti può comportare una pena fino a 15 anni e finora i tribunali, per evitare un sovraffollamento delle carcere di genitori sterili, si erano uniformati a una derubricazione del reato in false dichiarazioni a pubblico ufficiale, per una condizionale sicura e senza mai sottrarre i figli. Ieri, accogliendo le richieste dell’avvocato di Pisa Ezio Menzione, uno dei massimi esperti giuridici di questioni legate alle fecondazioni, il tribunale ha virato decisamente verso la giurisprudenza europea che nel giugno scorso in due sentenze parallele della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e della Cee contro la Francia, ha affermato che comunque i figli siano nati, hanno diritto ad essere trascritti all’anagrafe di residenza come figli dei genitori che li hanno voluti. In altre parole: gli Stati possono continuare a vietare la fecondazione surrogata ma poi devono accogliere il diritto naturale dei bambini ad avere una famiglia. Anche il pm Baima Bolloni aveva chiesto l’assoluzione, ma con la trasmissione degli atti agli affari civili per un eventuale annullamento della trascrizione dell’atto di nascita.
Nel caso in esame, i gemelli nati con questo tipo di procedura, erano comunque stati inseminati dal padre e dunque presentavano un 50 per cento di Dna del genitore da parte maschile. La coppia quattro anni fa, dopo aver regolarmente registrato all’anagrafe di Kiev i due bambini, si era recata all’ambasciata italiana per ottenere la trascrizione dell’atto di nascita spiegando come erano nati, senza cioè mai mentire. D’ufficio era partita la segnalazione trasformatasi poi nel reato di «alterazione di stato civile». Ma per il pm, «il fatto che l’atto di nascita non sia trascrivibile nei registri italiani non vuol dire che l’atto sia falso o provenga da illecito, ossia si può essere genitori in Ucraina senza esserlo in Italia». Con la sentenza di ieri, visto che l’atto di nascita non è stato annullato, si può essere genitori anche in Italia, orgogliosi dei propri figli, comunque siano nati.
Repubblica 25.3.15
Veronesi: il caso Jolie creerà un’emulazione buona
con una maggiore attenzione ai test genetici
di Marco Pivato
Quali sono le controindicazioni fisiche e piscologiche di questa scelta?
«Più che controindicazioni c’è un unico grande ostacolo, che è il desiderio di maternità e che senza ovaie è irrealizzabile. Alle donne che hanno mutati i geni Brac1 o Brac2 consiglio di avere una gravidanza appena possibile per poi sottoporsi all’intervento di asportazione, sapendo che di tumore ovarico ereditario ci si ammala, con maggiore probabilità, dopo i 40 anni. La femminilità di una donna può comunque rimanere intatta con terapie ormonali».
Il tumore si combatte in modo così radicale o le nuove terapie, anche geniche, consigliano strategie alternative?
«Il tumore del seno e dell’ovaio si combattono con la chirurgia e la radioterapia, mentre i test genetici ci aiutano nella prevenzione. Va detto che radioterapia e chirurgia si sono evolute negli ultimi anni. La stessa chirurgia può anche aiutare una donna mastectomizzata a ricostruire il proprio seno con risultati estetici oggi eccellenti».
Ci sono molte donne nella condizione della Jolie?
«Non abbiamo una riposta certa. Valutiamo che una percentuale fra il 2 e il 3% della popolazione femminile abbia mutazioni geniche ereditarie. La certezza non c’è, perché l’accesso ai test genetici non è ancora capillarmente diffuso e, dunque. la vicenda della Jolie dev’essere occasione per le donne di non avere paura di sottoporsi ai test e conoscersi».
Come si scoprono i geni «cattivi» che possono causare un tumore?
«Esclusivamente con i test genetici. Non sono percorsi complicati o invasivi. Basta un prelievo di materiale biologico, come il sangue. Oltretutto, in Italia, i test genetici sono spesso accessibili attraverso il Servizio Sanitario e le donne possono farsi prescrivere i test dal proprio medico di famiglia».
La scelta della Jolie ha generato fenomeni di emulazione?
«Sì. E per fortuna c’è stata una presa di coscienza nel mondo femminile, che ha a sua volta generato un dibattito nella comunità scientifica sul come rispondere meglio alle nuove possibilità di prevenzione offerte dai test genetici. Avremmo bisogno di tanti “casi Jolie” per ottenere un’adesione maggiore ai test e creare consapevolezza nelle nuove generazioni».
La Stampa TuttoScienze 25.3.15
“È stata una scelta sacrosanta”
di Marco Pivato
«Una
scelta sacrosanta quella di asportare le ovaie, se il quadro clinico è
simile a quello di Angelina Jolie». È questo il giudizio di Umberto
Veronesi, oncologo, fondatore dell’Istituto Europeo di Oncologia di
Milano.
Professore, la nuova scelta della Jolie, dopo l’operazione al
seno, fa scalpore: quanto è condivisibile da un punto di vista medico?
«Assolutamente
sì. Gli stessi geni mutati che predispongono al tumore del seno
aumentano anche il rischio di tumori alle ovaie e per questo credo che
la decisione della Jolie sia coerente con la scelta, di due anni fa, di
farsi asportare le mammelle a scopo preventivo. La definirei una scelta
sacrosanta, perché, se il tumore dell’ovaio è meno frequente di quello
della mammella, è anche più aggressivo. La scelta della Jolie è da
raccomandare a qualsiasi donna che abbia un quadro simile dal punto di
vista genetico, dell’età e della storia personale».
La Stampa 25.3.15
Angelina jolie e l’autogestione del corpo
di Elena Loewenthal
La scelta di Angelina Jolie è un fatto di intimità profonda e incomunicabile: desta innanzitutto quel silenzio che viene dal rispetto. Ognuno di noi ha dentro una coscienza e un vissuto che sono soltanto nostri. Al tempo stesso, la scelta di Angelina Jolie chiama prepotentemente in causa tutti noi – uomini o donne che siamo – sollevando questioni con le quali non possiamo evitare il confronto, perché quel confronto è la materia di cui è fatta la vita.
Jolie ha deciso per una via di profilassi «radicale» di fronte al rischio di tumore che le si prospettava. A neanche quarant’anni, si è privata di ciò che nel corpo della donna guida il ciclo ormonale, balzando oltre la menopausa. Questa sua scelta di affrontare faccia a faccia il male oscuro è peraltro solo un passo in più in quel cammino di prevenzione che oggi come oggi seguiamo tutti, in un modo o nell’altro. Lei il cancro l’ha guardato dritto negli occhi e gli ha sputato in faccia, invece di aggirarlo. Invece di sperare di prenderlo in tempo. Invece di curarlo o anche soltanto provare a tenerlo a bada. Ha preso una decisione coraggiosa, impegnativa, deprivante ma coerente. Di più: ineccepibile.
Una decisione così personale da risultare quasi scabrosa, ora che salta agli onori della cronaca. Che ha un importante valore simbolico – se lei l’ha fatto e lo racconta pubblicamente, significa che bisogna rifletterci su, pensare a quello che tutti noi facciamo per noi stessi, contro il cancro. Ma che prima ancora ha un valore paradossalmente «meta-fisico» proprio perché riguarda il corpo. Il suo e il nostro. E solleva questioni che vanno al di là della malattia e della prevenzione, dei fantasmi che abitano nella sua vita. E anche nella nostra.
Che cosa ha da dire, il modo in cui Angelina Jolie tratta il proprio corpo? Che cosa ha da dire in un tempo in cui il corpo è come non mai manipolato, esposto, modificato e mascherato? La sua scelta di asportazione, prima dei seni e poi delle ovaie, non ha nulla a che vedere con il modo in cui si tratta il corpo nella chirurgia estetica o in photoshop. E’ qualcosa di più radicale e profondo, proprio come l’idea di prevenzione che soggiace a questa scelta. E’ una «autogestione» di ciò di cui siamo fatti molto diversa, se non opposta, alla rivendicazione di quel femminismo che – giustamente – sbandierava la padronanza del proprio utero per liberarsi dai vincoli della soggezione al maschio. Angelina si è «gestita» l’utero e le ovaie per una lotta di tutt’altra cifra, con una percezione affatto diversa del proprio corpo, con una «padronanza» dei propri organi, e in particolare di quelli che si è fatta via via asportare, che non possiamo non immaginare impastata di angoscia e di paure. E della consapevolezza di poterlo trattare, quel corpo, a misura delle proprie paure: tagliando e togliendo. Una scelta perfetta da un punto di vista medico e sul profilo della prevenzione, ma che sul piano della coscienza è una sorta di ferita aperta, e per questo ci fa riflettere. E ci dice ancora una volta che siamo un misterioso intruglio di corpo, mente, spirito indissolubilmente legati.
Il Sole 25.3.15
Cassazione. Diritto di satira, non di dileggio
Possono essere rappresentati fatti non veri, ma quelli verosimili devono essere rispettosi
Determinante il criterio della continenza di espressioni e immagini
di Giovanni Negri
Milano Satira sì, dileggio no. Altrimenti si rischia di dovere pagare i danni. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza n. 5851 della Terza sezione civile depositata ieri. Nulla di sconvolgente sul piano giuridico, qualche spunto di riflessione (almeno) in queste settimane dove molto si è discusso e si discute di confini alla libertà di espressione.
La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla difesa di una testata giornalistica contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli, con la quale una giornalista, il direttore della testata e la società editrice, erano stati condannati a risarcire 15.000 euro per i danni morali provocati a nun medico Inail che si era sentito diffamato da un articolo dal titolo «Truffe e bugie per falsi invalidi duri di orecchie». Al testo, nel quale al dottore era affibbiata la qualifica di «somaro», era abbinata la fotografia del medico e un disegno umoristico «nel quale un personaggio accostava l’orecchio ad un corno acustico simile ad una cornucopia tracimante banconote».
Contro il verdetto di secondo grado era stato presentato ricorso dalle difese, mettendo in evidenza l’esercizio del diritto di critica, nel rispetto di quei principi delineati dalla giurisprudenza nel corso del tempo. A partire dalla verità putativa, dall’interesse generale, dalla correttezza della narrazione. Tutti elementi che le difese asserivano essere stati osservati anche in rapporto a una satira violenta e denigratoria come quella esercitata nei confronti di un medico stimato nel suo ambito di lavoro.
Argomentazioni che però non sono apparse convincenti alla Corte di cassazione chericorda come il diritto di satira, di rilevanza costituzionale e internazionale, rappresenta una manifestazione del diritto di critica che, a sua volta, rappresenta un’articolazione della libertà del pensiero che esprime il libero arbitrio della persona. E certo, osserva la Corte, con una punta di ironia, potrà anche essere utile un excursus storico a partire dal pensiero greco e dalla nascita della commedia per finire alla Moira erasmiana che fece scomunicare alla memoria il suo autore, tuttavia ogni libertà si confronta con il dovere della responsabilità nel suo esercizio.
In questa prospettiva, la satira, per la sua natura di diritto soggettivo e opinabile, è certo sottratta al parametro della verità, ma «soltanto i fatti così rappresentati in modo apertamente difforme alla verifica del reale sono privi della capacità offensiva, mentre la riproduzione apparentemente attendibile di un fatto di cronaca, deve essere valutata secondo il criterio della continenza delle espressioni e delle immagini e delle vignette e delle foto utilizzate». Nessuna tutela è così possibile quando la satira diventa forma pura di dileggio, di disprezzo, di distruzione della dignità della persona.
Corriere 25.3.15
Perché all’occidente conviene l’accordo nucleare con l’iran
di Antonio Armellini
L’ Iran è un Paese in crisi, certo, ma con un forte senso identitario, una civiltà antica e una infrastruttura moderna. Il rapporto con l’Occidente è stato a lungo un misto di sudditanza e di sfruttamento, su cui sarebbe utile un esame di coscienza (dall’arroganza del cartello petrolifero delle «Sette sorelle» alla cacciata di Mossadeq che aveva inutilmente tentato di opporvisi, alle vicende dello Scià Reza Pahlevi, sono stati molti i messaggi sbagliati). La rivoluzione khomeinista è stata una reazione aberrante e irrazionale di totale rottura con il passato, in nome di una teocrazia che poteva contare su un forte consenso di massa e che ha impiegato molto tempo per mostrare le prime crepe. La stragrande maggioranza della popolazione è rimasta tuttavia filoccidentale e guarda convintamente al «modello americano»: basta qualche giorno nel Paese per rendersene conto. Dovremmo tenerlo a mente mentre il negoziato sul nucleare è alla stretta finale, in un guazzabuglio di manovre e di pressioni che rischiano di fare perdere di vista l’obiettivo di fondo.
L’Iran è uno dei firmatari del Trattato di non proliferazione (Tnp), riconosce l’obbligo di sottostare al regime di controlli previsto dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e rivendica il diritto di sviluppare la sua industria nucleare a fini pacifici. Non è un problema facile. Il regime degli Ayatollah continua ad essere il riferimento di una politica di profondo contrasto agli interessi dell’Occidente. Dispone di un insieme di conoscenze scientifiche, che permetterebbero alla sua industria nucleare di raggiungere in tempi relativamente brevi una capacità militare, e ha dato in più occasioni prova di non rispettare gli impegni. Quello della «bomba iraniana» è tutt’altro che un caso di scuola teorico.
Ricondurre Teheran al rispetto di un regime internazionale di controlli che renda, se non impossibile, quantomeno difficile e prolungata nel tempo questa eventualità, resta un esigenza imprescindibile. L’equilibrio fra concessioni e condizioni nel negoziato presuppone una valutazione di costo-beneficio che vada al di là degli aspetti tecnici: il regime Aiea, se applicato seriamente, offre già garanzie adeguate in questo senso. Tutto ciò non cancella i margini di rischio, peraltro insiti in qualsiasi tipo di accordo, ma è importante vedere quali sarebbero le implicazioni dell’ipotesi contraria. Teheran è un interlocutore fondamentale nella partita degli equilibri del mondo arabo e della lotta al terrorismo. Finora ha giocato una carta che non coincide con quelle dell’Occidente, ma l’interesse ad una stabilizzazione meno precaria potrebbe essere comune ad entrambi. Un accordo rafforzerebbe l’ala moderata che fa capo al presidente Rouhani e, pur facendo la tara dell’imprevedibilità del regime, potrebbe recuperare l’Iran a un dialogo costruttivo, senza il quale qualsiasi ipotesi di stabilizzazione della regione rischierebbe di diventare una chimera. Non si tratterebbe di far diventare l’Iran sciita una democrazia parlamentare (genere peraltro scarsamente praticato nella regione), bensì di farne un interlocutore legittimato. Senza dimenticare che, con la fine delle sanzioni, si aprirebbero nuovamente la porte di un mercato importantissimo, che è sin qui sopravvissuto in forme quasi clandestine.
Un fallimento spingerebbe nuovamente l’Iran ai margini della legittimità internazionale e ridarebbe fiato all’ala più intransigente della teocrazia, che non a caso si agita per sabotarne l’esito. Parlare di dialogo, per quanto cauto, sui temi della regione diverrebbe utopia e l’Occidente dovrebbe prepararsi ad affrontare una situazione sempre più ingestibile dal punto di vista dei suoi interessi. Non per questo la prospettiva della bomba iraniana si farebbe meno certa: le sanzioni non hanno mai impedito a nessuno di dotarsi dell’arma nucleare in barba a tutte le norme internazionali: come dimostrano la Corea del Nord, il Pakistan, l’India e lo stesso Israele.
Obama punta a un accordo che potrebbe ridare smalto alle prospettive elettorali del suo partito; per tali ragioni i repubblicani cercano di sabotarlo con qualche forzatura di troppo del diritto internazionale. Netanyahu vorrebbe cancellare del tutto la capacità nucleare iraniana, che vede come un problema di sopravvivenza del suo Paese, e vagheggia una guerra preventiva che nessuno vuole. L’Ue cerca di uscire dal balbettio sterile e recuperare un ruolo. Tutto legittimo, ma l’obiettivo dovrebbe essere non di escludere, bensì di allargare il cerchio dei protagonisti responsabili della scena mediorientale.
Corriere 25.3.15
L’offensiva d’Israele per far deragliare i negoziati con l’Iran
«Il Mossad spiava i colloqui sul nucleare»
di Davide Frattini
GERUSALEMME Prima di diventare ambasciatore a Washington, quello che gli americani chiamano «il cervello di Bibi» (o il suo «specchio») si era trasferito in un appartamento a pochi metri dalla residenza del primo ministro a Gerusalemme. Consigliere senza carica ufficiale, sua guardia del corpo ideologica (via editoriali e interventi sui giornali), Ron Dermer è un ebreo osservante di origine americana: abitare così vicino a Benjamin Netanyahu gli permetteva di essere sempre a disposizione, anche di sabato quando non può guidare l’auto e deve muoversi solo a piedi.
E’ stato Dermer, alla fine di gennaio, a lanciare una campagna di pubbliche relazioni e pressioni politiche tra i deputati e i senatori americani. Per convincerli che l’accordo con l’Iran era inaccettabile, per anticipare le obiezioni che il suo capo avrebbe proclamato da lì a un mese davanti al Congresso. Per passare a democratici e repubblicani informazioni che la Casa Bianca preferiva tenere, almeno ancora per un po’, riservate: a Teheran sarebbe stato permesso avere 6.500 centrifughe funzionanti e di un modello capace di produrre uranio arricchito da usare per una bomba atomica.
Dettagli che gli israeliani sostengono di avere ottenuto da diplomatici di altri Paesi coinvolti nelle trattative, notizie che — ha ironizzato Netanyahu nel discorso al Congresso — possono essere trovate su Google. Il premier e i suoi consiglieri stavano cercando di ridimensionare i sospetti che i funzionari statunitensi hanno deciso di rivelare al quotidiano Wall Street Journal: i servizi segreti israeliani avrebbero spiato le comunicazioni degli americani, ascoltato quello che i negoziatori raccontavano ai loro boss, intercettato le telefonate tra le sei nazioni coinvolte (oltre agli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, la Russia, la Cina e la Germania).
Gli israeliani negano e gli esperti fanno notare che l’aggressività della sua intelligence verso gli Stati Uniti è stata ridimensionata dal caso di Jonathan Pollard, l’ebreo ancora in carcere per aver passato informazioni al Mossad.
Contrastare l’intesa che dovrebbe essere definita entro la fine del mese è adesso l’obiettivo principale di Netanyahu: il primo ministro avrebbe rinunciato al progetto di un attacco militare contro i siti nucleari iraniani e sarebbe arrivato ad accettare che agli ayatollah venga garantita una qualche forma di programma atomico. La battaglia diplomatica (e delle informazioni) diventa così fondamentale: gli israeliani da almeno un anno e mezzo hanno cambiato strategia e stanno concentrando i loro sforzi sul contenuto dell’accordo. Premendo sui Paesi che li ascoltano di più (Yuval Steinitz, ministro dell’Intelligence è in questi giorni a Parigi e Londra), cercando di deragliare le mosse del presidente Barack Obama.
Perché è di lui che Netanyahu non si fida (e il sospetto è ricambiato). Quando Obama ha dato il via ai negoziati nel 2012, ha scelto di tenerli segreti anche all’alleato in Medio Oriente e i servizi segreti americani hanno monitorato le comunicazioni dello Stato ebraico per oltre un anno, volevano scoprire se gli israeliani fossero stati a conoscenza delle trattative. Il presidente lo ha comunicato al primo ministro solo nel settembre del 2013. E la reazione israeliana (non ufficiale) è stata: «Come potevano pensare che non lo sapessimo già?». Gli Stati Uniti e Israele danno per scontato di essere l’oggetto della reciproca sorveglianza. Gli americani spendono in contromisure per interferire con i controlli del Mossad più che verso qualsiasi altro Paese amico. Gli israeliani applicano le stesse tattiche.
Così il Wall Street Journal spiega che Washington non è irritata dal fatto che le informazioni siano state intercettate ma che siano state usate per interferire nei rapporti tra il presidente e il Congresso.
il Fatto 25.3.15
Israele, guerra di spie con l’amico americano
di Roberta Zunini
NETANYAHU VOLEVA FAR SALTARE I COLLOQUI RISERVATI CON L’IRAN SUL NUCLEARE PASSANDO NOTIZIE AI DEPUTATI REPUBBLICANI
Non solo Israele è contrario a un accordo sul nucleare tra l'Amministrazione statunitense e l'Iran, ma avrebbe cercato di boicottarlo spiando i colloqui riservati tra gli attori principali e girando le notizie ottenute al vertice del partito repubblicano; amico per la pelle di Benjamin Netanyahu e ferocemente avverso al dialogo con gli ayatollah. A una settimana dalla vittoria di Netanyahu alle elezioni, il più influente quotidiano americano, il Wall Street Journal, ha rivelato sul suo sito che Israele ha spiato i negoziati dell’anno scorso sul programma nucleare iraniano tra Teheran, gli Stati Uniti e altre potenze mondiali. Mentre il premier riconfermato sta lavorando per formare il suo quarto governo con i leader dei partiti ultranazionalisti di destra ai quali ha sottratto voti criticando la lista unita arabo-israeliana e promettendo che non farà mai nascere uno stato palestinese – dichiarazione poi rimangiata - scoppia dunque un nuovo scandalo con l'amministrazione americana. I rapporti tesi tra il presidente statunitense Obama e Bibi Netanyahu avevano già toccato il punto più basso un mese fa quando il primo ministro, in piena campagna elettorale, andò negli Stati Uniti, pur non essendo stato invitato dalla Casa Bianca, dove tenne un controverso discorso davanti al Congresso. Le sue affermazioni contro un eventuale accordo tra l'Iran e gli Usa sul nucleare avevano fatto infuriare la Casa Bianca (impegnata da oltre un anno assieme a Russia, Cina, Germania, Gran Bretagna e Francia nell'impresa di fermare lo sviluppo dell'atomica negoziando, anziché minacciando) ma erano state accolte da numerose standing ovation da parte dei deputati repubblicani che da novembre guidano il Congresso.
L'OBIETTIVO dell'operazione di spionaggio – secondo il Wall Street Journal – sarebbe stato quello di infiltrare i negoziati per cercare di impedire l’accordo che si sta delineando, condividendo le informazioni ottenute con i congressmen conservatori. Oltre alle intercettazioni, Israele avrebbe ottenuto informazioni attraverso briefing riservati americani, informatori e contatti diplomatici in Europa. Come prevedibile da Gerusalemme è arrivata una smentita secca: “Noi non spiamo gli Stati Uniti, né direttamente, né per vie traverse. Abbiamo le nostre fonti anche dall’altra parte”, ha spiegato il ministro degli Esteri israeliano, l'ultranazionalista Avigdor Lieberman, alludendo in apparenza all’Iran. A irritare la Casa Bianca però non sarebbe stato tanto lo spionaggio quanto il fatto che Israele ha condiviso le informazioni ottenute illegalmente con parlamentari repubblicani. “Una cosa è lo spionaggio reciproco tra gli Usa e Israele, un’altra è il furto di segreti americani da parte di Israele per poi passarli ai parlamentari Usa e minare la diplomazia”, ha detto un alto funzionario vicino a Obama. Spionaggio e controspionaggio tra “amici” sempre più distanti. Ma Bibi e i Repubblicani sono sempre più vicini. L'aspirante neo candidato repubblicano alle elezioni per la Casa Bianca, Ted Cruz, è un esponente del Tea party, famoso per la sua visione conservatrice, religiosa e contro lo stato sociale. Proprio come Bibi e i suoi ministri. Andranno d'accordo.
il manifesto 25.3.15
Le spie di Netanyahu contro Obama
Tel Aviv nega con forza
di Michele Giorgio
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/le-spie-di-netanyahu-contro-obama
il Fatto 25.3.15
Pirelli
Uno strano entusiasmo per i cinesi
di Stefano Feltri
C’È UNA STRANA ECCITAZIONE attorno al passaggio della Pirelli in mano cinese. La prima stranezza riguarda lo stupore per la perdita di italianità. Oggi la holding Camfin controlla l’azienda con il 26,2 per cento del capitale. A sua volta Camfin vede tra gli azionisti le Nuove partecipazioni spa di Marco Tronchetti Provera, con il 38,78 per cento, e i russi di Rosneft con il 50. A Tronchetti, presunto garante dell’italianità del gruppo, fa capo direttamente soltanto il 12 per cento del capitale della Nuove Partecipazioni. Morale: è un po’ arduo dire che i cinesi stanno comprando un’azienda italiana. La Rosneft di Igor Sechin è un pezzo del potere di Vladimir Putin in Russia, tanto che l’oligarca è stato bersaglio delle sanzioni decise dagli Stati Uniti nella crisi ucraina. Ora arrivano i cinesi. Dobbiamo davvero preoccuparci? Molti giornali hanno scritto che non ci sono problemi, perché per molte decisioni strategiche servirà il 90 per cento del capitale. Non è una grande garanzia: gli azionisti votano per quello che conviene loro di più, come dimostra il caso di Fiat diventata Fca con trasferimento della sede tra Olanda e Inghilterra. E attendersi da un virtuoso delle scatole cinesi come Tronchetti, bravissimo a comandare con soldi non suoi, slanci di patriottismo è un po’ eccessivo. Altro elemento di stranezza: l’operazione di ChemChina è presentata come una grande opportunità di espansione, nascerà un gruppo globale che, assicura Tronchetti, salverà tutti i posti di lavoro. Ma come ha notato il senatore del Pd Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera ieri, la società ChemChina-Camfin (una nuova scatola societaria che lancerà l’Opa) spenderà fino a 7,4 miliardi di cui 4 a debito. Una zavorra che verrà caricata sulla nuova Pirelli, riducendo la possibilità di fare investimenti e distribuire dividendi. Sia ChemChina che Rosneft sono poi di fatto aziende che rispondono a governi stranieri e che di sicuro non avranno come priorità l’interesse nazionale dell’Italia e i suoi posti di lavoro. Dovrebbe rassicurare la permanenza di Tronchetti al vertice? Dei suoi meriti e delle sue colpe si potrebbe discutere a lungo, di certo la sua gestione di Telecom Italia non è ricordata come indimenticabile (lo spazio non consente di fornire i dettagli necessari a contenere le vibranti proteste dei portavoce tronchettiani ogni volta che si sfiora l’argomento). Tronchetti è molto positivo sull’operazione – vedi intervista di ieri al Corriere – ma il fatto che lui resti alla presidenza rassicura soltanto i suoi famigliari più stretti. Gli altri si chiedono come mai la Cassa depositi e prestiti consideri strategico investire in una holding alberghiera inglese (Rocco Forte) e non in un gruppo industriale come Pirelli. Misteri.
Il Sole 25.3.15
Geopolitica. La strategia di trattati commerciali, acquisizioni e rafforzamento militare
La sfida cinese per la leadership globale
di Adriana Castagnoli
La Cina sta seguendo una precisa strategia espansiva basata su acquisizioni, nuove strutture finanziarie, trattati di commercio, graduale ma robusto rafforzamento militare. È la geostrategia di una superpotenza che sta cambiando il mondo con effetti non prevedibili sul rapporto di Pechino con l’Europa e della Ue con Washington. La crescente competizione fra Stati Uniti e Cina per stabilire chi scriverà le regole economiche del XXI secolo è emersa nella vicenda dell’Asian Infrastructure Investment Bank disegnata per proiettare il potere cinese nella regione asiatica . Il che consente a Pechino di eludere le istituzioni finanziarie esistenti come l'Asian Development Bank nella quale è preminente l'influenza di Tokyo. L’AIIB è funzionale all'ambizioso disegno di Pechino di creare una nuova generazione di istituzioni finanziarie ed economiche per affermare la propria influenza in Asia e in altre parti del mondo. Come la banca per lo sviluppo dei BRICS di cui la Cina è leader insieme alla Russia. In questo scenario geostrategico globale si capisce pertanto l'irritazione di Washington nei confronti di Londra che, a dispetto della special relationship, ha aderito rapidamente al disegno di Pechino, seguita da Germania, Francia e Italia .
Ma questo non è che uno degli effetti della nuova sfida per la leadership globale.
La Cina ha aderito alla World Trade Organization nel 2001, ma le sue grandi imprese di stato mostravano già che la sfida in settori strategici come aerospaziale, energia, acciaio, farmaceutica, automobili e minerali sarebbe stata di portata assai più ampia di quanto ritenevano certi policy makers occidentali. Sino al 2012 gli investimenti esteri cinesi sono stati diretti soprattutto verso i paesi in via di sviluppo e per accaparrarsi riserve di commodities. Fino ad allora, l’impatto sui mercati più ricchi è stato trascurabile anche perché nei settori high-tech erano le multinazionali estere a investire in Cina. Le autorità di Pechino hanno riconosciuto che la Cina ha ancora bisogno della tecnologia occidentale innanzitutto per uno per sviluppo ecosostenibile.
Tuttavia la grande recessione ha avuto pesanti effetti negativi sull’industria in Europa. Con le aziende del Vecchio Continente in affanno una più aggressiva politica estera d’investimenti cinesi era prevista sin dal 2012 con le decisioni del 18° congresso del partito comunista cinese. In questa strategia di superpotenza in competizione con gli Usa rientrano anche gli accordi con la Russia per le forniture energetiche e l’adattamento della tecnologia occidentale nella costruzione di numerosi reattori nucleari.
Con investimenti nel settore della difesa che crescono a un ritmo di oltre il 10% all’anno, la Cina è divenuto il secondo paese al mondo per entità della spesa militare nel 2008. Il budget della difesa è più di tre volte quello di altri big spender come Francia e Giappone, e quattro volte quello dell’India. Per quanto ancora lontana dall’entità delle spese militari americane, è ormai l’unico paese in grado di competere con Washington su questo piano. Tanto più se si considera che Pechino nasconde parte dei suoi investimenti per l’esercito in ricerca, sviluppo, sussidi alle industrie per la difesa, importazione di armi. Che sono stimati dagli esperti in un altro 35-50% del totale delle spese per la difesa. Oggi la Cina è divenuta il 3° esportatore mondiale di armi, anche se la sua quota è al momento minuscola rispetto a Russia e Usa che insieme controllano oltre 58% del mercato. Un esercito moderno è centrale nella campagna di riscatto nazionalistico in cui è impegnata la Cina dagli anni ’90.
Gli Stati Uniti, per parte loro, stanno cercando di forgiare l’architettura economica dell’Asia con il TTP, e Washington discute separatamente il TTIP con la UE. L’obiettivo per gli USA è stabilire regole per il commercio globale, alti livelli di protezione dei diritti di proprietà intellettuale, normative di tutela ambientale. Tutti campi nei quali Cina e Usa hanno sensibilità , interessi e approcci diversi.
Il punto è che vi è un’importante interdipendenza economica fra Washington e Pechino che delimita, almeno sulla carta, i confini della competizione fra le due superpotenze. La Cina costituisce un modello di sviluppo e di modernizzazione che, ad oggi, può indebolire gli sforzi americani per promuovere la democrazia, i diritti umani e il libero commercio innanzitutto nelle regioni in via di sviluppo come l’Africa e l’America Latina. Tuttavia un’Europa economicamente e politicamente debole, senza un suo sistema di difesa e alla ricerca di capitali e d’investimenti può essere vulnerabile in molti modi. E indebolire anche il suo alleato americano.
Il Sole 25.3.15
Partecipazioni statali e la discesa di Pechino
Chem China ha in atto una trasformazione necessaria insieme alle altre aziende pubbliche cinesi: ridurre il peso dello Stato e massimizzare il valore di attività e acquisizioni.
di Rita Fatiguso
PECHINO Non c’è soltanto l’internazionalizzazione (Go Global) a ispirare le mosse dei colossi statali cinesi come China chemical che attraverso Camfin si è lanciata nel controllo di Pirelli. Un caso davvero esemplare, quello di Chem China, è ormai da un decennio uno dei big cinesi a controllo statale, intorno al ventesimo posto nella lista dei produttori mondiali di chimica, è attiva in 140 Paesi nella produzione di materie plastiche, tecnopolimeri, poliuretani, gomme e pneumatici. Vale, in euro, 36 miliardi, e dà lavoro a 140mila persone, negli ultimi anni in mezzo mondo ha fatto shopping ovunque e in Europa dalla Francia, alla Svezia e ora in Italia, ma non ha smesso i panni della Soe, State owned enterprises, Società a controllo statale.
Perfino una realtà come quella guidata da un manager illuminato come Ren Jianxin è controllata dallo Stato al 70% e, quindi, anche China Chem ha di fronte una serie di sfide durissime. È in atto, nei prossimi anni, una trasformazione necessaria per le aziende pubbliche cinesi, con l’obiettivo di ridurre la componente della mano statale e, soprattutto, di aumentare la produttività per gli azionisti e massimizzare il valore delle attività e delle acquisizioni. A metà 2014 il ministero delle Finanze ha dettato le regole per gli assetti finanziari delle Soe, dando il la a questa rivoluzione che non risparmierà nessuno, Soe quotate e non quotate. Che siano quotate come nel caso di China Chem oppure no, il solo passaggio dal 70 al 50% del controllo potrà liberare risorse a partire da 18 trilioni di yuan e se la quota scendesse a 30 fino a 36 trilioni. Se solo lo Stato riducesse la sua parte si arriverebbe a 20-40 trilioni di yuan.
In Cina questi dinosauri aziendali sono circa 156mila (dati 2013), di cui 52mila a livello centrale, 104mila locali. Gli asset di tutte le Soe sono pari 104.1 trilioni di yuan, in crescita rispetto all’anno precedente del 16.3, mentre quelle locali sono pari a 55.5 trilioni in aumento del 20.4 nel 2013 rispetto all’anno precedente.
I profitti totali hanno raggiunto 1.7 trilioni (più 4.6 quelli totali), 886.87 miliardi di yuan a livello locale (sopra del 6.7 dall’anno precedente).
Oggi lo Stato cinese ha ancora una presenza esorbitante oltre il 70 per cento rispetto al limite di altri Paesi. Perché utilizza gli utili delle Soe per garantire un minimo di welfare e operazioni di finanziamento. Probabilmente il controllo in China national petroleum corporation, Cnpc, è anche anche superiore rispetto a quelle società che non sono listate. Il meccanismo è tale, però, che così un mare di risorse resta inutilizzato e non va a beneficio di nessuno. Spesso queste società non riescono a gestire le acquisizioni fatte all’estero in maniera efficiente.
Il volto di queste società dunque è destinato a cambiare e anche quello delle societaà acquisite in questi anni, evidentemente.
I dettagli finanziari dell’operazione Pirelli diffusi dalla stessa China Chem dicono che la newco pagherà la partecipazione in Pirelli al prezzo di 15 euro per azione, per un valore di quasi 1,9 miliardi di euro; quindi lancerà l’Opa sul 100% del gruppo, allo stesso prezzo, per un controvalore di 7,13 miliardi di euro. Se l’offerta avrà successo, Chem China potrebbe ottenere fino al 69% di Pirelli. Il riassetto delle attività prevede che Pirelli Truck, la divisione pneumatici per veicoli industriali, si fonda con Aeolus Tyre di ChemChina, dando vita al quarto produttore mondiale di coperture per veicoli pesanti. Pirelli Tyre (pneus per auto e moto) potrebbe invece essere quotata in Borsa in un prossimo futuro. Ma cosa succederà quando China Chem & co. dovranno mollare gli ormeggi abbassando il livello di partecipazione dello Stato? Lo scenario non è affatto chiaro.
il manifesto 25.3.15
A che ora è la fine della Cina
L'articolo. Il sinologo David Shambaugh ha scritto che Pechino è vicina al collasso, con il Partito stretto tra guerre interne e paranoie securitarie. Ma si tratta di «allarmi» lanciati di frequente: i punti deboli evidenziati dai «catastrofisti», per altri, sono gli aspetti vincenti
di Simone Pieranni
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il manifesto 25.3.15
Nessun crollo all’orizzonte in Cina, ma una trasformazione storica
L'analisi. Il Pcc sta cercando di unire Confucio a Deng Xiaoping e Mao Zedong
L’ideologia dominante all’interno del Pcc si rifà sempre più a dottrine prime messe al bando, come il confucianesimo
di Maurizio Scarpari
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il manifesto 25.3.15
Le 5 cause del potenziale «fallimento cinese» secondo Shambaugh
di Simone Pieranni
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il manifesto 25.3.15
L’ossimoro bio della Cina all’Expò
SanaMente. Il grande paese orientale sarà ospite a Milano nel secondo più grande spazio dopo quello della Germania
di Luciano Del Sette
qui
Corriere 25.3.15
Le due guerre civili Del mondo musulmano
risponde Sergio Romano
Chiedo un suo parere, dopo la strage in Yemen, circa la tesi, esposta nel libro Non c’è altro Dio all’infuori di Dio, dallo studioso americano di origine siriana, Reza Aslan, secondo cui «Oltre il terrorismo, oltre la paura, oltre le prime pagine dei giornali e lo “scontro di civiltà”, c’è una cosa che non viene mai abbastanza sottolineata: ciò che oggi sta avvenendo nell’Islam è un conflitto interno fra musulmani, non una guerra fra Islam e Occidente. L’Occidente è la vittima di una rivalità che infuria nell’Islam su chi scrive il prossimo capitolo della sua storia».
Silvio Benvenuto
Caro Benvenuto,
Reza Aslan è nato a Teheran nel 1972, ma ha lasciato il suo Paese con la famiglia dopo la rivoluzione degli ayatollah, nel 1979, e vive da allora negli Stati Uniti dove ha fatto una brillante carriera accademica. Ma è anche una personalità controversa a cui viene rimproverato, dopo un paio di passaggi da una fede all’altra, un certo eclettismo religioso. Ha indubbiamente ragione, tuttavia, quando sostiene che il mondo musulmano è sconvolto da un conflitto interno che a me sembra una doppia guerra civile.
La prima è quella che oppone l’Islam radicale e salafita di alcune frange religiose a quello istituzionale di alcuni Stati sunniti. Il primo sostiene una interpretazione letterale della legge coranica e concepisce l’esistenza come una continua Jihad contro nemici interni ed esterni per il trionfo della fede. Il secondo cerca di conciliare i precetti religiosi con quel tanto di laicità a cui nessuno Stato moderno (neppure l’Arabia Saudita) può interamente rinunciare.
La seconda guerra civile è quella che oppone sunniti e sciiti. All’origine del conflitto vi è una interminabile disputa politico-teologica sulla discendenza del profeta, una sorta di «guerra delle due rose» fra le casate di York e Lancaster. Il fenomeno è antico, ma è divenuto molto più grave da quando gli sciiti, negli anni Settanta, hanno registrato alcuni successi. In Siria, nel 1970, un generale dell’aeronautica, Hafez Al Assad, s’impadronì del potere e creò un regime dinastico sostenuto dagli alauiti, una minoranza che appartiene alla famiglia sciita. Cinque anni dopo, quando scoppiò la guerra civile libanese, constatammo che fra sunniti e cristiani maroniti vi era ormai un terzo incomodo, la minoranza sciita, cresciuta demograficamente e decisa a rivendicare un ruolo maggiore nella vita politica del Paese. La fondazione di Hezbollah, nel 1982, darà agli sciiti libanesi un braccio militare.
Un altro avvenimento, nel frattempo, aveva reso la Shia ancora più potente. In Iran, un Paese prevalentemente sciita, la rivoluzione del 1979 contro il regime laico di Reza Pahlavi aveva partorito una repubblica islamica governata dalle élite religiose e presieduta da un Grande Ayatollah. Da quel momento tutti gli sciiti del Medio Oriente seppero che esisteva ormai un grande Stato di cui avrebbero potuto invocare la protezione.
La scena si spostò in Iraq dove la maggioranza sciita era soggetta al potere tirannico di un leader sunnita, Saddam Hussein. Quando gli dichiararono guerra, nella primavera del 2003, gli Stati Uniti non capirono che la loro vittoria sarebbe stata una vittoria sciita e che di questa nuova situazione avrebbe tratto vantaggio soprattutto l’Iran. Un caso particolarmente interessante è quello del Bahrein, un piccolo regno del Golfo Persico dove vivono un milione e 300.000 persone di cui il 70% è sunnita. Qui la rivolta araba del 2011 è divenuta rapidamente una insurrezione sciita contro il sovrano sunnita e le sue tribù. Dopo parecchie manifestazioni popolari, la rivolta è stata schiacciata dall’intervento di una forza militare dell’Arabia Saudita e di altri Stati sunniti della regione: un altro episodio nella storia di una guerra civile a cui le democrazie occidentali hanno prestato una scarsa attenzione.
Repubblica 25.3.15
L’insegnamento di Platone, il politico sia senza famiglia
di Nadia Urbinati
IL PIÙ radicale degli utopisti, Platone, decise che la repubblica doveva impedire che la classe politica avesse famiglia e proprietà, le due condizioni che compromettevano la selezione dei guardiani in base al merito richiesto per il governo della città (coraggio e conoscenza) perché inevitabile ragione di parzialità: prima vengono i figli e la famiglia (allargata ai clientes che valgono a renderla più rispettabile) e prima viene la cura dei propri averi (che si somma a quella per la famiglia). L’utopia platonica della società armonica governata da un’avanguardia di virtuosi ha ispirato fanatici della giustizia e tribunali speciali. Ma la sua diagnosi delle ragioni dell’ingiustizia è diventata un monito per chi fa le leggi: i padri tendono a riprodursi nei figli, i possidenti negli eredi. Gaetano Mosca cercò di fare di questa generalizzazione una regola: in ogni società, gli individui lottano per la preminenza e la conservazione dello status che li posiziona in alto, e quindi per il controllo dei mezzi che li agevolano in questo compito. Nelle società politiche basate sulla selezione elettorale, questi mezzi sono quelli che consentono la creazione della reputazione e della fama: circa la reputazione è la costruzione di un cerchio di amici o accoliti che più conta; circa la fama presso gli elettori che dovranno convalidare la selezione è il controllo dei
mezzi di propaganda e informazione.
Ma il primo stadio della scalata della classe politica è la conquista di un gradino di preminenza per la famiglia, perché da qui si può con più facilità procedere alla conservazione dello status. In una ricerca sul nepotismo nella società americana, Seth Stephens-Davidowitz ha calcolato la probabilità statistica con la quale i figli dei politici entreranno in politica stimando che un “figlio di” (il caso esemplare è quello dei Bush, poiché Jeb potrebbe essere il futuro presidente) ha 1.4 milioni di possibilità in più di fare carriera politica di un ordinario cittadino. La distribuzione ineguale dell’opportunità di emergere è più alta quando il criterio di selezione è l’opinione — quindi politici e uomini e donne dello spettacolo sono particolarmente agevolati. A queste categorie se ne aggiunge un’altra che è la più arbitraria: quella dei ricchi, dei super-ricchi, dei miliardari, i quali si riproducono con regolarità e faciltà, potendo fare affidamento solo sulla loro libera scelta. Se ai politici viene richiesto comunque un poco di appealing presso il pubblico, nel caso dei ricchi lo status è semplicemente ereditato senza sforzo alcuno.
Ma è la riproduzione di potere politico quel che più interessa, se non altro perché viviamo, nominalmente almeno, in una democrazia. In un sistema oligarchico non avrebbe senso spendere parola. Né ha senso nel nostro sistema perché il nepotismo, il familismo, il favore che riproduce reputazione e fama, sono insopportabili a tutti. E il sistema di giustizia, per principio fondato sull’imparzialità e il governo della legge, è lì a dimostrare che non ci deve essere giustificazione né tanto meno tolleranza per l’uso del potere anche solo per dare una mano ai propri famigliari. Per questo Platone pensava che fosse stato desiderabile che la funzione politica venisse ricoperta da chi non aveva famiglia e proprietà. La Chiesa, che ha seguito alla lettera Platone, non ha per questo brillato di giustizia e rigore, è vero. Tuttavia, la società moderna, che riconosce la famiglia e la proprietà come fondamentali e che nello stesso tempo si impegna ad applicare la “legge uguale” per tutti, è naturalmente più esposta dei chierici al procacciamento del privilegio privato via mezzi politici.
Proprio per questa propensione allo status vantaggioso per sé e la propria famiglia, non ci si deve stancare di denunciare, condannare e rimuovere le forme anche blande o “innocenti” (?) di aiuto ai figli, mariti, nipoti, e amici loro. La ragione di questa severità non è moralistica, ma di prudenza politica: poiché il sostegno dell’opinione è qualcosa di cui i sistemi rappresentativi non possono fare a meno, e poiché il centro dell’opinione è il sentimento di fiducia, ne deriva che l’uso preferenziale del potere, non importa quanto ampio o grave, farà crescere nei cittadini il tarlo del dubbio e della diffidenza vero tutti, con gravissimo danno al sistema. Attendere che la giustizia faccia il suo corso non è per questo prudente nel campo politico, dove è il dubbio, o l’opinione prima delle prove, ad alimentare la sfiducia.
Corriere 25.3.15
Il ballo della Milano liberata
L’idea per festeggiare il 25 Aprile
di Paolo Rastelli
«Il sole indugiava ancora all’orizzonte e le rondini garrivano nel cielo del Castello che già le avanguardie del pubblico affluivano verso i viali del Parco ad assicurarvisi posizioni di favore....». Comincia così l’articolo del Corriere d’Informazione del 15 luglio 1945, un minuscolo colonnino (ma tutto il quotidiano, per scarsità di carta, usciva con due sole pagine in quell’anno di pace appena ritrovata dopo cinque anni di guerra), dedicato al grande ballo collettivo organizzato il giorno prima al Castello Sforzesco di Milano per festeggiare la fine delle ostilità.
L’iniziativa ebbe un successo strepitoso, tanto da restare incisa nella memoria della città. Ed è per questo che, per celebrare il 70° anniversario della Liberazione, Radio Popolare ha avuto l’idea di replicare la festa di allora allargandola però a tutta l’Italia (case, piazze, strade, teatri, ovunque ci sia la voglia di ballare e cantare). «Abbiamo chiesto la collaborazione di Arci, Anpi (l’associazione partigiani) e Insmli (gli istituti di storia della resistenza) — spiega Danilo De Biasio a nome dell’emittente milanese — per lanciare l’idea: tra un mese esatto, nella notte tra il 24 e il 25 aprile, dalle 10 in poi, cercheremo di far ballare più gente possibile in tutte le città e i paesi, fino a intonare, tutti insieme, allo scoccare della mezzanotte, un canto collettivo. L’iniziativa, che si chiama “Liberi anche di cantare e ballare”, ci è sembrata un modo non scontato per celebrare tutti coloro che hanno lottato per la nostra libertà. Non abbiamo ancora scelto la canzone, ma probabilmente sarà Bella ciao che in tutto il mondo è identificata con la resistenza italiana al nazifascismo».
Settant’anni fa l’idea di far ballare la città dopo i lutti e gli odi della dittatura e della guerra civile fu di Antonio Greppi, il primo sindaco socialista della Milano liberata. Noi oggi festeggiamo la liberazione il 25 aprile, ma, per chi la visse, quella giornata di 70 anni fa tutt’altro che una festa: per le strade si sparava ancora, era in corso la caccia a nazisti e fascisti, ci furono allora e nei giorni successivi giustizia e vendetta che culminarono in piazzale Loreto con i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi appesi a testa in giù alla longarina di un distributore di benzina. Greppi decise quindi che in qualche modo era ora di chiudere la stagione dell’odio e di festeggiare, nel vero senso della parola, il ritorno alla libertà. Come luogo delle danze fu scelto il Parco Sempione e come giorno il 14 luglio, la festa nazionale francese per la presa della Bastiglia, in segno di solidarietà e amicizia con i maquisards , i partigiani francesi che avevano combattuto contro tedeschi e collaborazionisti del governo di Vichy.
L’organizzazione della «Festa della fraternità e del popolo» (questo il nome completo, un po’ magniloquente ma l’epoca lo esigeva) fu affidata da Greppi a Paolo Grassi (in quel momento critico teatrale del quotidiano socialista l’Avanti ) e Giorgio Strehler, che poi con il Piccolo Teatro sarebbero diventati due giganti della cultura italiana. Le poche foto dell’epoca mostrano l’Arco della Pace imbandierato con i vessilli delle Nazioni alleate (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica) e con il tricolore italiano. La celebrazione partì con gli inni nazionali, poi la Canzone del Piave, quindi l’Inno dei lavoratori (vietato da anni e le cui parole erano di Filippo Turati). Poi iniziò la festa «vera», cui parteciparono migliaia di persone. Così la descriveva un articolo dell’ Europeo : «Al Parco sette piste da ballo, nove orchestre, tre palloni frenati e fuochi d’artificio. Ma lo spettacolo più vivo fu in periferia, con decine di orchestre e di bande che percorrevano la città in autocarro. Fisarmoniche, violini, chitarre, grammofoni suonavano nelle piazze. E la gente ballava. Ballavano ricchi e poveri, vecchi e bambini. Tutta Milano ballò nelle strade, fino oltre l’alba, sotto i lampioncini e le bandiere...».
Chissà se tra un mese succederà lo stesso. A Radio Popolare ci sperano. In sedici città (per ora), da Milano a Lecce e da Reggio Emilia a Barletta, i circoli Arci si stanno muovendo per organizzare le danze. «Abbiamo aderito — spiega Francesca Chiavacci, presidente dell’Arci — perché ci sembra una bella iniziativa che riporta tra noi in modo un po’ più fresco l’ora della Liberazione». E anche la macchina organizzativa dell’Anpi è in azione. «È un’iniziativa simbolicamente forte — dice Carlo Smuraglia, numero uno dell’Associazione — che si aggiunge a quelle tradizionali e che dà il senso di una comunità viva e vivace che vuole andare avanti con fiducia e coraggio».
Corriere 25.3.15
Veronesi: trasgredire allunga la vita
intervista di Mario Pappagallo
Anticonformismo e affetti, responsabilità e digiuno. Ecco la ricetta ideale per la longevità
Caro professor Veronesi, da bambino e poi da adolescente è sempre stato vegetariano?
«Sì, ma non è stata certo una scelta legata alla salute. Da bambino ho vissuto una dimensione che oggi, nell’era virtuale, è sconosciuta ai più piccoli: vivevo in una cascina lombarda e i miei primi amici sono stati gli animali, che mi hanno fatto sperimentare il calore e l’affetto di cui sono capaci. E non parlo solo di cani e gatti, ma anche di vitellini, maiali e agnelli. Appena ho avuto un barlume di coscienza, mi sono categoricamente rifiutato di mangiare esseri che amavo».
Ha mai fumato?
«Sì, come tutti quelli della mia età. Nell’Italia degli anni Quaranta, povera e tormentata dalla guerra, la sigaretta era uno status symbol , un segno di modesto benessere. Per la sensualità del gesto di portare alla bocca qualcosa che si trasformava in nuvole di fumo, aveva anche la valenza di un richiamo sessuale, in un mondo in cui il sesso era ancora un tabù... Ho fumato fino ai 35-40 anni... Ma appena mi sono reso conto dei danni alla salute, ho smesso da un giorno all’altro, con un atto di volontà».
Ha provato, anche solo una volta, qualche droga?
«No mai, non ci ho mai neppure pensato. La droga non circolava negli ambienti della mia giovinezza, e da adulto mi sono sempre preoccupato di tenere i miei figli lontani da eroina e Lsd, le droghe degli anni Settanta».
Ritiene che lo stile di vita giovanile possa avere influenza sulla qualità della longevità?
«Io penso che la mente abbia un’età indipendente da quella del corpo, ed è quella che più conta per la qualità della longevità. Se noi iniziamo da adolescenti, come ho fatto io, a porci delle domande, a mettere in dubbio tutto, a non dare niente per scontato e a impegnarci per costruire un nostro sistema autonomo di pensiero; se continuiamo per tutta la vita adulta a cercare, studiare, interrogarci; se non ci sentiamo mai “arrivati”; tanto più continueremo a essere mentalmente attivi anche da anziani. Io sono stato un adolescente “vivace”, sono stato bocciato due volte al liceo classico perché trovavo la scuola di allora nozionistica e noiosa... Ho uno spirito “ribelle”, “anticonformista”: sono portato a trasgredire, cioè a non adeguarmi alle regole che non capisco e non condivido».
Essere «anticonformisti» allunga la vita?
«Certo. Il mio modo di essere e di pensare mi ha fatto spostare le età della vita. Ho creato l’Istituto europeo di oncologia a 65 anni, quando i miei coetanei andavano in pensione, poi la mia Fondazione per il progresso delle Scienze a 78 anni, e oggi a 89 ho ancora nuovi progetti da realizzare».
Quale attitudine mentale è importante per vivere a lungo?
« La curiosità è importante. Ma è essenziale la propensione al dubbio, che è l’altra faccia della trasgressione».
Quale ruolo ha la sfera emotiva?
«Amare e sentirsi amati è il miglior antidoto contro la tristezza della senilità, perché ci fa superare il ripiegamento su noi stessi e i nostri mali».
E lo stress?
«Alcuni studiosi sostengono che lo stress, inteso come l’essere molto coinvolti e pieni di obiettivi da raggiungere, sia un fattore pro longevità... Io resto convinto che ritirarsi dalla vita attiva e dedicarsi ad attività che non comportano motivazione, impegno e soprattutto responsabilità verso se stessi e gli altri, sia un fattore aggravante dell’invecchiamento. Io vivo in overbooking permanente».
Quanta attività fisica ha fatto da giovane? La fa anche adesso?
«Da giovane ero molto sportivo. Sono stato campione di canottaggio e poi amavo lo sci, lo sci d’acqua, l’alpinismo e le scalate. Ora non faccio attività fisica perché metterei a rischio la mia salute...».
E il cervello lo allena?
«Certamente. Non ci sono limiti imposti dall’età. Faccio esercizi di logica come il sudoku, e poi leggo, approfondisco e coltivo le mie passioni, come lo studio delle religioni e la loro storia, o il cinema. Inoltre scrivo molto: poesie — che ho sempre composto e poi buttato via — testi scientifici, saggi e libri divulgativi. Mi piace dibattere con amici, figli, collaboratori».
Che cosa e quanto mangia nell’arco della sua giornata?
«Mangio una volta al giorno, complessivamente poco e rigorosamente vegetariano. Sono attaccato dai nutrizionisti, che sostengono che il pasto unico non è una buona abitudine alimentare. Io però non ho mai affermato che questa mia abitudine fosse una scelta dettata dalla salute».
Cibi preferiti?
«Mi piacciono i cibi semplici della dieta mediterranea: gli spaghetti al pomodoro e la pizza...».
Pratica il digiuno?
«Sì, una volta alla settimana. È una pausa per il fisico e una forma di controllo del pensiero sul corpo, una base per concentrarsi mentalmente e meditare».
Nel suo lavoro si instaurano rapporti empatici con i pazienti, quanti stimoli positivi riceve?
«Lo scambio emotivo con un paziente è uno stimolo emotivo che ti tiene saldamente attaccato alla vita. Una persona malata che si affida a te, ti fa sentire importante, a volte insostituibile, e questa percezione ti allontana infinitamente dal rifiuto della vita».
Da 1 a 10 quanto incide il lavoro sulla longevità?
«Direi 8, se è un lavoro che motiva, come il mio. È un lavoro particolare infatti, perché c’è la componente di ricerca e studio, che tiene in allenamento la sfera razionale della mente, e c’è la componente sentimentale».
Può essere negativo svolgere un lavoro che non piace?
«In questo caso il “voto” scende, perché la mente non è stimolata. Tuttavia, nell’atto stesso di svolgere un lavoro rimane una componente essenziale per la giovinezza mentale: la responsabilità».
Rifarebbe tutto quello che ha fatto finora? A posteriori cambierebbe qualcosa?
«Rifarei tutto, senza cambiare nulla».
Repubblica 25.3.15
La dialettica giovani-anziani varia nelle diverse epoche
Ma la storia antica dell’Isola di Pasqua svela che spesso sono i padri a divorare i figli
Rubare il futuro la dura legge che incatena le generazioni
di Gustavo Zagrebelsky
LE società vecchie sono quelle soffocate dal peso del passato. Le giovani sono quelle che, almeno in parte, se ne affrancano, per guardare liberamente se stesse e deliberare senza pregiudizi. Le età delle società si misurano in “generazioni”. Ma, che cosa sono le generazioni, una volta che, dalla cellula in cui sta il rapporto generativo genitori- figli, si passa alla dimensione sociale in cui migliaia o milioni d’individui si succedono sulla scena della vita, gli uni agli altri? Una volta che si voglia sostenere che una generazione giovane sostituisce una generazione vecchia? La questione ha una storia. Thomas Jefferson disse: «La terra appartiene a (alla generazione de) i viventi» («the earth belongs to the living»).
Quel motto stava a significare che, sebbene ogni costituzione porti in sé ed esprima l’esigenza di stabilità e continuità, non si doveva pensare a una fissità assoluta, a costituzioni perenni e immodificabili. Poiché ogni generazione è indipendente da quella che la precede, ognuna può utilizzare come meglio crede, durante il proprio “usufrutto”, i beni di questo mondo e, tra questi, le leggi e le costituzioni. Ma, qual è la “scadenza” di una generazione, cioè la sua durata in vita?
Parliamo della generazione del fascismo, della resistenza, del ‘68, di Internet, ecc. Da ultimo, si parla di “generazione perduta”, con riguardo a coloro che sono privi di lavoro e d’istruzio- ne. La nuova generazione tedesca ha chiesto conto alla generazione dei suoi padri, per la parte avuta nel nazismo. La caduta del muro di Berlino ha aperto la via alla generazione dell’89. Ciascuna di queste generazioni è tale non per ragioni d’età di coloro che ne hanno fatto e ne fanno parte, ma per l’epoca da essi segnata e da cui essi sono segnati. In altri termini, si tratta d’identità storiche, di caratteri spirituali collettivi che definiscono determinati periodi e determinano passaggi o conflitti con la generazione precedente.
E oggi, nelle nostre società, in nome di che cosa la generazione nuova pretende lo spazio che era della vecchia? Sempre più spesso i vecchi confessano il loro sentirsi “fuori luogo”. Con le parole di Norberto Bobbio: «Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, anche perché hanno maggiore capacità di apprendimento ». Il luogo dei giovani nelle società odierne è il luogo della competitività, dell’innovazione, dell’efficienza e della velocità. L’identità dell’odierna generazione emergente è la produttività crescente finalizzata allo sviluppo.
A differenza di altre identità generazionali che fissavano, stabilizzavano e arrestavano il tempo e, dunque, in certo modo rassicuravano fino a quando non fossero sostituite da altre, la produttività crescente è la più implacabile delle leggi, perché richiede la mobilitazione di tutte le energie sociali disponibili e implica la marginalizzazione di coloro i quali non ne sono partecipi. Costoro, cioè coloro che non sanno, non possono o non vogliono stare al passo, cioè gli inidonei e i non integrati non possono giustificare la loro esistenza.
Noi viviamo in un’epoca che crediamo ancora dominata dall’idea o, forse, dall’ideologia dei diritti umani: un’epoca aperta dalle rivoluzioni liberali e trionfante nella seconda metà del Novecento, anche come reazione alle tragedie dei totalitarismi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che inizia proclamando che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» può essere assunta come il simbolo riassuntivo di un’intera generazione. Ma è ancora così?
Nelle società gravate dalla penuria di risorse vitali — cioè, in pratica, tutte, salvo le società dell’utopia — gli individui nati o divenuti inutili erano soppressi fin dall’inizio o abbandonati a se stessi. Erano i non-produttivi, i deboli, gli affetti da malformazioni e malattie, i “malriusciti” (secondo la terminologia eugenetica del nazismo) o coloro che rappresentavano solo un peso per gli altri, come i vecchi irrecuperabili a una vita attiva. Herbert Spencer ne è stato il teorizzatore riconosciuto. I poveri, i marginali, gli handicappati, i deboli, in generale gli “inadatti”, non avrebbero dovuto essere sostenuti a spese della collettività. La spesa sociale sottrae risorse allo sviluppo della “parte sana” della società. Oggi, i diritti umani impediscono la riproposizione di simili teorie, ma la pratica, rivestita dalla forza della necessità, ne ripropone gli esiti. La cosiddetta crisi fiscale dello Stato e la conseguente riduzione della “spesa sociale” — pensioni e assistenza, sanità, lavoro — chi finisce per colpire? Proprio i più deboli. Tra questi, gli anziani, il cui numero percentuale rispetto agli individui produttivi, aumenta con la durata della vita. Forse, è alle viste una vera e pro- pria ribellione della generazione giovane, su cui grava l’onere del sostentamento degli anziani. Non li si elimina fisicamente e direttamente, ma li si abbandona progressivamente al loro destino, con effetti analoghi.
Sulle società della crescita per la crescita, incombe un’altra minaccia. Occorrerebbe sempre rammentare la lezione dell’Isola di Pasqua. Quest’isola polinesiana, scoperta dagli europei il giorno di Pasqua del 1722, è celebre per i 397 megaliti, uno dei quali raggiunge il peso di 270 tonnellate, che raffigurano giganteschi ed enigmatici tronchi umani, alcuni dei quali sovrastati da parallelepipedi colorati di rosso. Quando gli esseri umani vi posero piede alla fine del primo millennio, doveva essere una terra fiorente, coperta di foreste, ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall’aria. Arrivò a ospitare diverse migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare: completamente deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di persone. Nel 1864, quando mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numero era ridotto a 111 individui, denutriti, geneticamente degradati. Che cosa e come era avvenuto questo disastro? C’è un rapporto tra le grandi e inquietanti teste di pietra e l’estrema desolazione di ciò che le circonda? L’enigma di Pasqua, per com’è stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale. La foresta ospitava uccelli stanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname alle canoe usate per la pesca; difendeva l’integrità del territorio coltivato a orto dalle tempeste tropicali. A poco a poco, le risorse alimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccoli molluschi e, poi, a topi e sterpaglia. La penuria dei fattori primi della vita, come sempre accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nella generale carenza di cibo, si finì all’ultimo stadio, l’antropofagia. E le teste di pietra? Sembra che abbiano avuto una parte di rilievo. Col passar del tempo e in concomitanza con le lotte tra i clan, da piccole che erano all’inizio, diventarono progressivamente sempre più imponenti. La più alta, sei volte un uomo normale, è anche quella costruita per ultima, quando la catastrofe incombeva. Motus in fine velocior. Erano un simbolo di potenza tecnologica he poteva essere speso nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle dalla cava, trasportarle e drizzarle — un lavoro, per quella società in quel luogo e in quel tempo, mostruoso — occorrevano tronchi d’albero d’alto fusto e fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fu desertificata e, parallelamente, si eressero pietre sempre più alte; poi per la maggior parte furono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissuti pensarono a una via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato. Ma il legno per costruire le barche — la loro salvezza — era già stato usato e consumato per le teste di pietra.
Che cosa dunque avvenne a Pasqua? Come possiamo condensare in una sola frase la sua parabola? Per soddisfare manie di potenza e grandezza di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare. Il motto di quella gente dissennata avrebbe potuto essere quello del distinto signore, estensore della Dichiarazione d’indipendenza, Thomas Jefferson: «La terra appartiene alla generazione vivente». Ammesso che nuove generazioni viventi possano esserci sempre di nuovo.
Repubblica 25.3.15
“Le utopie senza storia diventano dittature”
Il Nobel Pamuk ospite ad Ascona: “Meglio coltivare la memoria”
di Marco Ansaldo
“I miei personaggi, e io stesso, siamo sempre alla ricerca della vita perduta. È un atto volontario”
“Però ammiro i protagonisti di Tolstoj che vogliono riformare il Paese e guardare al futuro”
“Più forte è la nostra capacità di ricordare, più forte sarà la nostra intelligenza”
ORHAN Pamuk, a che cosa pensa se le dico la parola “utopia”? «Alla letteratura. Alla filosofia. A Tommaso Moro con la sua “città perfetta”. E a Karl Marx, anche se io non sono un politico, ma un artista dotato di immaginazione. Così, anche se ho avuto problemi di tipo politico, oggi sono una persona felice. E, all’utopia, preferisco la memoria ». Pamuk lo ripete ancora, piantato sul suo tavolo da lavoro colmo di fogli scritti a mano, nella casa di Istanbul guardata dai due minareti della moschea di fronte.
«Sì, sono felice, sto scrivendo un nuovo libro, e sto viaggiando molto». Oggi lo scrittore turco premio Nobel, inaugura la terza edizione degli Eventi letterari che ad Ascona, in Svizzera, si concentreranno al Monte Verità, luogo visionario, sul binomio “Utopia e Memoria”. Un tema che seduce Pamuk e lo stimola. Il legame fra passato e futuro, i possibili rimandi fra scrittori amati come Tolstoj e Proust, Dostojevskij e Orwell, intrigano l’autore premiato con il Nobel per il saggio Istanbul, autobiografia sui generis divenuta un testo imprescindibile per chi vuole inoltrarsi nei labirinti della metropoli sul Bosforo. Cornice ideale per uno sguardo all’indietro, in una Turchia che oggi cerca di investire sul futuro.
Vuol dire che l’utopia, da un punto di vista politico, può portare a dei fallimenti?
«L’utopia, soprattutto nella mia parte di mondo, in Medio Oriente e in Asia, rischia di legittimarsi con l’uso della forza, con la repressione da parte dei governi, con l’insensibilità verso la cultura dell’altro. Per esempio, se coltivi un’utopia di tipo modernista lasci da parte quella socialista. E comunque sai subito che il passato verrà dimenticato».
Lei in quale utopia crede?
«In quella capace di ricordare anche il passato, ma sfortunatamente non è stata ancora inventata in Medio Oriente e in Asia. Qui le utopie sono fondate su culture tradizionaliste, su religioni millenariste o fondamentaliste, molto autoritarie. Oppure su un modernismo di tipo secolarizzato. Così, nelle classi medie, troppa utopia finisce per spingere all’autoritarismo e alla sua retorica. Il problema allora non è dimenticare il passato, ma come inventare il futuro».
E lei come lo guarda il futuro: in modo ottimista o pessimista?
«Sono una persona ottimista, non sono un buon utopista, e in mezzo c’è una differenza grande: l’utopista elimina tutte le differenze, le sfumature, i colori del presente e del passato. Parlo soprattutto dell’utopismo imposto dall’alto, quello dello Stato, sia che si tratti di utopia occidentale, secolare e modernizzante, o di utopia religiosa millenarista e messianica. Tutto questo mi fa pensare a una classe media arrabbiata, intellettuali arrabbiati, persone arrabbiate che vogliono attaccare gli altri. E anche alla disciplina militare che tende a ridurre l’individualismo».
E invece quando lei parla di passato, di memoria, a che cosa si riferisce?
«Al fatto che la memoria è molto più ricca di gradazioni rispetto all’utopia. Si basa sulle linee personali di ciascun individuo. La grande storia che gli utopisti vorrebbero dirigere è per l’appunto insensibile verso le memorie personali. Io invece ho a cuore proprio la memoria personale, perché credo che non possa esistere il presente senza la memoria. Noi siamo, prima di tutto, esseri dotati di forte memoria in quanto animali darwiniani. E come un animale che cammina di notte, nella foresta, dobbiamo ricordare ogni sfumatura, ogni minimo dettaglio che abbiamo incrociato nel nostro passato, ogni problema e ogni momento felice. Più forte è la memoria, più forte sarà la nostra intelligenza. Cancellare la memoria per il bene dell’utopia ci rende solo stupidi. Ma, ovviamente, so bene che non possiamo vivere senza immaginare il futuro».
Il suo discorso rimanda a Proust. Ma allora che cosa significa per lei, oggi, ricercare il tempo perduto?
«La gente considera i miei romanzi come proustiani soprattutto Il libro nero e Il Museo dell’innocenza.
Ma voglio chiarire una cosa. I miei personaggi, come io stesso, sono anche loro alla ricerca della vita perduta. Con una differenza, però: in Proust la memoria è involontaria, i suoi personaggi assaggiano una madeleine, e non sanno perché. Nei miei personaggi, e forse in me stesso, c’è una memoria volontaria. Come ad in Kemal, il protagonista del Museo dell’innocenza , oppure in Ka, il personaggio di Neve. Loro desiderano ricordare, e pianificano di farlo. Hanno la loro piccola utopia personale. Un’utopia programmata, una sorta di ricordo composto, costruito. Vivono il presente con l’idea che verrà ricordato in futuro, e il loro senso del presente è pieno di passato e di futuro, perché entrambi comprendono la memoria e il ricordo».
Dunque c’è un legame fra memoria e utopia?
«Il passato è importante per la nostra vita, così come lo è il desiderio dell’utopia. Ma la maggior parte delle nostre convinzioni sul futuro si rivelano sbagliate. E noi abbiamo bisogno di predizioni sbagliate, o di utopie, perché non vogliamo essere pessimisti. Ma questa consapevolezza, questa illusione, è necessaria comunque per sopravvivere, per motivarci ».
Quanti di questi concetti saranno presenti nel suo prossimo romanzo, Una stranezza nella mia mente ( titolo tradotto letteralmente dal turco), la cui pubblicazione in Italia è prevista a novembre presso Einaudi?
«In questo romanzo il protagonista ha vissuto sulle strade di Istanbul per 40 anni, vendendo “boza” (una bevanda calda di malto fermentato, ndr ) sul carretto che trascina ogni giorno su e giù per le salite. E, attraverso i suoi occhi, vediamo la città passare da 1 a 17 milioni di abitanti. Però il senso del passato e la vecchia Istanbul sono ancora tutti lì, mentre le case di legno vengono bruciate, quelle di tre piani tirate giù e la città cambia in modo brutale. Dentro ci sono arrampicatori sociali che nulla hanno a che fare con il pensiero utopico. E i cambiamenti sono rapidi e drammatici. E i ricordi vengono perduti, per l’appunto, in modo brutale. Allora la sola utopia, la sola felicità, viene dalla memoria, da quello che uno ricorda».
Il libro invece a cui accennava di stare lavorando adesso?
«A differenza degli altri sarà un testo breve, dunque una sorpresa per i miei lettori. Ma di questo preferisco parlare più avanti».
Quali sono allora gli scrittori da lei più ammirati per la loro utopia?
«Gliene dico uno: Tolstoj».
Perché?
«Ammiro i personaggi di Tolstoj quando vogliono riformare il proprio Paese, educare i contadini, vedere un futuro».
E, a proposito di futuro, Orwell no?
«Mi piace Orwell. Ma lui non è un utopista. La sua descrizione di società immaginaria, anzi, è distopica, cioè è anti-utopica. Orwell per me è assolutamente un realista».
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