Repubblica 24.2.15
Moving boxes, di Davide Zaccagnini 159 pagine 12 euro L’Asino d’oro Editore
Errori. Un sistema intelligente che incrocia i dati del paziente con sintomi,
farmaci ed esami è stato creato al Mit di Boston da un chirurgo italiano.
Un supporto per ridurre sbagli e arrivare prima alla cura. Utilizzato negli Usa. Il ricercatore racconta
Diagnosi più precise se il pc aiuta il medico
di Irma D’Aria
UN SISTEMA intelligente che incrocia i dati di ogni paziente (sesso, età, peso, altezza) con i sintomi che accusa, i farmaci che eventualmente già assume e gli esami fatti. Il tutto per arrivare ad una diagnosi accurata e poi alla soluzione terapeutica a volte più precisa di quella che avrebbe elaborato da solo il medico che non avrebbe potuto “gestire” così velocemente una tale mole di dati e informazioni come fa un computer.
È questo l’obiettivo di un sistema informatico sviluppato dal chirurgo vascolare Davide Zaccagnini al Mit di Boston dopo aver vissuto sulla propria pelle l’esperienza dell’errore medico che racconta nel libro Moving Boxes appena apparso in libreria. Dopo un intervento chirurgico al cuore perfettamente riuscito, il suo paziente peggiora e poi muore. Che cosa è successo? Qual è stato l’errore? Il chirurgo va a cercare queste risposte nei laboratori di ingegneria elettronica del Mit di Boston dove sviluppa un sistema informatico avanzato più accurato e affidabile degli stessi medici nel formulare diagnosi e stabilire terapie.
«Sono circa sette le variabili che un essere umano può gestire a mente per risolvere un problema, ma ogni storia clinica ha decine e decine di informazioni che devono incrociarsi tra loro e di cui spesso il cervello umano non riesce a tenere conto», spiega Zaccagnini. Proprio da questo “limite” umano deriverebbero alcuni dei numerosi errori medici che si verificano ogni anno. Solo in Italia, infatti, si stima che siano 15 mila i medici indagati per errori medici o presunti tali. Negli Stati Uniti i primi risultati della sperimentazione del sistema informatico sono stati incoraggianti. L’accuratezza delle diagnosi arrivava anche all’80% ma non fu sufficiente per mettere quello strumento nelle mani dei medici. Esisteva anche un forte limite culturale ma soprattutto non c’erano i fondi necessari. «Per fortuna una start up vide la potenzialità e pochi anni dopo installammo il nostro software nel più grande sistema sanitario in America, Kaiser Permanente, che gestisce circa dieci milioni di pazienti e dove ogni giorno più di seicento casi clinici vengono tutt’ora analizzati con il nostro programma, in tempo reale», racconta Zaccagnini. Dopo questo grande successo, la start up è stata acquisita da una della più grandi multinazionali nel campo dei sistemi intelligenti in medicina, Nuance Communications, che produce anche il noto software Dragon, per l’interpretazione del linguaggio. E così oggi in centri di eccellenza come l’Università della Pennsylvania o il Massachusetts General Hospital nuove versioni di quel sistema supportano ogni giorno i medici nelle loro decisioni, aiutandoli a capire come intervenire su migliaia di pazienti. «Sistemi di questo tipo hanno dimostrato in circa il 20% dei casi di portare a modifiche migliorative dei piani di cura, nel 58% dei casi hanno ridotto ritardi nella diagnosi ed evitato circa il 6% di decessi », aggiunge Zaccagnini.
Ma come funziona il sistema? Quando un paziente viene visitato dal medico tutti i suoi parametri vitali, gli esami di laboratorio, i sintomi che accusa e i farmaci che assume vengono registrati e inseriti nel database. Incrociando tutti questi dati, il sistema arriva a formulare in tempo reale una diagnosi sulla base delle linee guida in uso per le varie patologie. «Questo sistema è particolarmente prezioso nei casi in cui non esistono protocolli diagnostici ben definiti da seguire per cui il medico deve prendersi la responsabilità di esplorare una terapia basandosi su tutte le informazioni che ha a disposizione». Dunque, niente più errori se la diagnosi viene fatta dal computer? «Non è proprio così perché computer e uomo hanno due modi diversi di ragionare e se la macchina può “memorizzare” milioni di dati è anche vero che non ha occhi, mani e soprattutto la capacità di avere delle intuizioni che spesso sono quelle che fanno arrivare il medico ad un’ipotesi diagnostica».
E in Italia? Qualche rara eccellenza forse si trova: presso il Sant’Anna di Ferrara, l’università di Torino, il Meyer di Firenze, l’Istituto dei Tumori di Milano e la provincia di Trento si stanno già sperimentando progetti avanzati in questo settore. «Il problema enorme è dato dall’arretratezza informatica della nostra sanità: secondo un rapporto della Bocconi il costo dell’ignoranza informatica ammonta a oltre 850 milioni di euro l’anno», conclude il chirurgo.
il Fatto 24.2.15
I forzieri già svuotati
L’Italia firma l’accordo con la Svizzera contro l’evasione
Ma i capitali sporchi sono già volati altrove
di Camilla Conti
Milano Dopo due anni e mezzo di negoziati, l’accordo è fatto: fine del segreto bancario. Il ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan e la consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf hanno firmato ieri il protocollo con cui la Svizzera esce dalla lista nera italiana dei Paesi che non permettono uno scambio adeguato di informazioni, solo ai fini della voluntary disclosure (l’autodenuncia), perché ora dispone di una convenzione con Roma per evitare doppie imposizioni fiscali in cui è inserita una clausola sullo scambio di informazioni su domanda, conforme allo standard Ocse.
L’INTESA – che dovrà essere ratificata per via parlamentare dai due Paesi – è applicabile a fatti avvenuti dal giorno della firma in poi. Il primo effetto è quello di rendere più conveniente far emergere i capitali detenuti illecitamente in Svizzera. Inoltre, i due Paesi hanno sottoscritto una roadmap, un impegno politico per il futuro su diversi punti in ambito fiscale e finanziario, tra cui lo scambio automatico di informazioni, l’imposizione sui lavoratori frontalieri, l’accesso ai mercati finanziari, le black list italiane e la questione di Campione d'Italia. La manovra si dovrebbe dispiegare nell’arco di otto mesi. “Ci saranno grandi benefici per la finanza pubblica italiana perché l’intesa pone le condizioni di una maggiore trasparenza e fiducia tra i contribuenti e l’amministrazione”, ha sottolineato il ministro Padoan annunciando anche che il 26 febbraio l’Italia firmerà un patto in materia fiscale anche con il Liechtenstein.
La peste dell’evasione è stata debellata? Chi è in paradiso (fiscale) riporterà subito in patria valigie piene di dobloni? Non ci sarà più bisogno di liste Falciani, Pessina eccetera? Non proprio. Certo, i piccoli (sotto il milione di euro) furbetti italiani si troveranno a dover regolarizzare per necessità. E anche se decidessero di spostare verso altre piazze offshore i loro risparmi non potrebbero comunque riportare i capitali a casa nel momento del bisogno, quello che fino a poco tempo fa avveniva al confine con la Svizzera grazie agli spalloni.
Ma gli evasori più grandi non opteranno per l’autodenuncia perchè hanno già deciso di volare lontano con la difficoltà che tale tipo di scelta implica per il titolare del conto ma con difficoltà anche maggiori per il fisco italiano che in questi casi ha perso l’ultima e definitiva occasione di far emergere i capitali esportati illegalmente.
LE ALTERNATIVE ai caveau elvetici non mancano. Le Isole Vergini britanniche ha attratto nel 2013 denaro per 92 miliardi di dollari posizionandosi al quarto posto nella relativa classifica mondiale. Al primo ci sono gli Stati Uniti con 159 miliardi, poi Cina con 127, Russia con 94 miliardi (tutti in gas, petrolio e metalli). In sostanza le ex isole inglesi hanno visto arrivare nei propri confini più soldi che India e Brasile messi assieme. E oltre il 99 per cento dei 92 miliardi sono finiti nei trust e nelle banche che continuano a mantenere quasi totale segretezza per poi fuoriuscire verso altre località.
Per avere un’idea del fiume di denaro transitato, basta dividere la somma per il numero di abitanti: più di 3 milioni pro capite. Il tutto alla faccia delle liste bianche e grigie. Ecco perché, secondo alcuni esperti, i trattati bilaterali servono solo a far spostare miliardi di dollari in altri Paesi sfruttando le nuove tecnologie che consentono di muovere il denaro sempre più facilmente. Meglio sarebbe avere una sorta di catasto globale dei patrimoni finanziari consultabile dalle nazioni interessate.
Nel frattempo, la Cina si sta impegnando per creare nuove piazze offshore, in Tibet e a Samoa, mentre l’Inghilterra vede enormi potenzialità in Kenya. Quanto agli Usa, uno studio del 2013 (ovvero quando le norme Ocse erano già tutte in vigore) della banca Mondiale ha dimostrato che delle 817 società di facciata comparse in 213 casi di corruzione investigati in tutto il mondo, ben 102 sono risultate registrate negli Stati Uniti (in particolare in Nevada, Delaware e Wyoming). Due volte quelle registrate a Panama, stato amico degli States che è molto indietro con la firma degli accordi, e sette volte quelle delle Isole Cayman. Morto un paradiso, se ne fa un altro.
Corriere 24.2.15
Domenica all’Accademia di Santa Cecilia
«I ragazzini suonavano ma nessuno li ascoltava»
La lettera di un padre a Renzi: la Buona Scuola dovrebbe iniziare dal rispetto prima delle belle parole, ma lei stesso non ha prestato attenzione. È un autogol
di Emilio Cabasino
Egregio signor primo ministro,
oggi (domenica, ndr) mia figlia quattordicenne ha suonato con la JuniOrchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, a Roma, all’evento del Pd, «La Scuola che cambia, cambia l’Italia». È tornata a casa in lacrime umiliata e mortificata dalla totale assenza di attenzione da parte del pubblico durante la loro esecuzione successiva al suo intervento. Mentre i ragazzi erano impegnati nella difficile esecuzione di musiche di Beethoven e di Tchaikovsky il pubblico in sala era principalmente impegnato a prodigare saluti, non solo parlando a voce alta, ma camminando e urtando i ragazzi, rendendo di fatto impossibile l’esecuzione stessa.
Lei stesso non ha prestato alcuna attenzione alla musica preparata e studiata dai ragazzi espressamente per questa circostanza.
Ma è mai possibile? Un convegno che parla di educazione e di scuola (anche sottolineando l’importanza della musica per la formazione di buoni cittadini) e i cui partecipanti trattano i ragazzi e il loro impegno in questo modo? Credo che la Buona Scuola inizi proprio da qui: dal rispetto dei ragazzi prima di tante belle parole e oggi questo è venuto drammaticamente a mancare. Un drammatico autogol per il Pd e per il mondo della politica!
Repubblica 24.2.15
Maurizio Landini
“Io in politica? Deciderà la Cgil nel 2018 Di certo serve una coalizione sociale”
“Renzi ha scelto Confindustria, è peggio di Berlusconi c’è una compressione di diritti che non ha precedenti”
“Il sindacato ha sempre fatto politica. Ha sempre espresso una sua visione, non è mai stato un sindacato di mestiere”
intervista di Roberto Mania
ROMA «Renzi peggio di Berlusconi», dice Maurizio Landini, segretario generale della Fiom. Il leader sindacale che propone la formazione di “una coalizione sociale” per dare rappresentanza politica al lavoro. «Perché oggi il governo di Renzi ha scelto di stare dalla parte della Confindustria ».
Landini, perché Renzi sarebbe peggio di Berlusconi?
«Perché di fronte al dissenso di tre milioni di persone che scesero in piazza per difendere l’articolo 18, Berlusconi si fermò capendo che non aveva il consenso. Renzi non si è fermato».
Ma non ci sono stati nemmeno i tre milioni in piazza.
«Renzi, come Berlusconi, non ha il consenso di chi lavora. Renzi sta attuando il programma dettato della Confindustria e dalla Bce nella famosa lettera dell’agosto 2011».
Dice questo perché secondo il presidente del Consiglio lei dopo aver perso nel sindacato cerca il riscatto in politica?
«No. Queste cose le dico da mesi ormai. Aggiungo però che è una bugia le tesi di Renzi secondo cui la Fiom avrebbe perso iscritti: la Fiom ha 350 mila iscritti contro i 100 mila del Partito democratico».
Ammetterà che gli ultimi scioperi a Pomigliano e Melfi sono stati due clamorosi flop?
«Non ho problemi ad ammetterlo. Ma vorrei ricordare che per ottenere il riconoscimento dei nostri delegati alla Fiat abbiamo dovuto far ricorso alla Corte costituzionale. Questa è una questione di democrazia».
Lei ha detto che “è a rischio la tenuta democratica del Paese”, non le sembra un po’ esagerato?
«Proprio per niente. C’è una compressione dei diritti di chi lavora che non ha precedenti nella nostra storia. È in atto una scissione tra il lavoro e i diritti di chi lavora. E chi lavora è povero. Dall’altra parte aumenta la corruzione, l’evasione, il controllo di settori dell’attività economica da parte della criminalità organizzata».
La colpa di tutto questo sarebbe di Renzi?
«Il governo di Renzi sta facendo politiche che favoriscono questi processi. Renzi dice che si ha diritto a licenziare sempre e che si può evadere».
Veramente era Berlusconi a dirlo.
«Perché, secondo lei, depenalizzare la frode fiscale non è la stessa cosa? Non era mai successo che il governo ignorasse un parere del Parlamento, come è successo sui licenziamenti collettivi. C’è un’idea di accentramento del potere in mano all’esecutivo mentre la nostra Costituzione disegna una democrazia partecipata nella quale è riconosciuto il ruolo dei soggetti sociali».
Insomma, si sta preparando a fondare un nuovo partito?
«No. Io voglio continuare a fare il sindacalista. Io dico che per la prima volta nella nostra storia democratica non c’è una rappresentanza politica del lavoro. È in atto un attacco al ruolo, anche politico, che il sindacato generale ha sempre svolto in Italia. Non posso non pormi il problema di contrastare questo processo».
Ma che cos’è una “coalizione sociale” se non il primo passo per dare vita a un partito?
«Non è così. Una coalizione sociale vuol dire mettere insieme chi agisce nel sociale con al centro la questione del lavoro».
Con chi pensa di farla questa coalizione:
con Libera di Don Ciotti, Emergency di Gino Strada?
«Anche con i soggetti che dice lei. Ma con tutti coloro che possono contribuire a dare rappresentanza al lavoro».
Nei fatti è un programma politico.
«Il sindacato italiano ha sempre fatto politica. Ha sempre espresso una sua visione, non è mai stato un sindacato di mestiere».
Lei nel 2018 finirà il mandato alla Fiom.
Sarà l’anno delle elezioni. Esclude una sua candidatura?
«Alla fine del mio mandato sarò a disposizione della Cgil. Cosa farò lo decideranno i gruppi dirigenti e soprattutto gli iscritti».
Alla Camusso non è piaciuta la sua uscita.
Un tweet del suo portavoce le ha ricordato che il sindacato è una cosa diversa dalla politica. Oggi ha incontrato la Camusso (ieri per chi legge, ndr) cosa le ha detto?
«Che quel tweet era del suo addetto stampa».
Nessuna critica alla sua voglia di politica?
«Io ho ripetuto cose che dico in Cgil da mesi. Abbiamo parlato della prossima assemblea dei delegati della Fiom di venerdì e sabato nella quale decideremo come proseguire la mobilitazione».
il manifesto 24.2.15
Landini replica a Renzi: “Stai sereno, non scendo in politica, la Fiom ha più iscritti del Pd”
Lo scontro con Renzi. Landini replica al premier e nega di voler entrare in politica
«È a rischio la democrazia del Paese e il sindacato sta reagendo»
Quello che ha in mente il leader delle tute blu è una «coalizione sociale» che sostenga un nuovo Statuto dei lavoratori e magari voti a un (eventuale) referendum
di Antonio Sciotto
qui
Corriere 24.2.14
Jobs Act, Landini alza il tiro: «Premier non eletto mette a rischio democrazia»
Così il leader della Fiom a 'Otto e mezzo': «Sta cancellando lo statuto dei lavoratori»
In giornata vertice con la Camusso ma nessuna dichiarazione su un’apertura alla politica
qui
Corriere 24.2.15
La Pomigliano della sinistra
di Antonio Polito
È possibile una sfida da sinistra a Matteo Renzi? Sono venuti allo scoperto due potenziali competitori: Landini, pronto a cavalcare la «questione sociale», e Laura Boldrini, che ha invocato la «questione democratica».
Non c’è dubbio che il segretario della Fiom abbia il fisico del ruolo: voce tonante e petto in fuori, sembra perfetto per il nuovo genere televisivo dell’ indign-tainment , un po’ indignazione e un po’ intrattenimento. Ma l’idea di trasformare le tensioni sociali in una coalizione politica, una sorta di Syriza o Podemos italiani, non può funzionare ora che la curva dell’economia cambia verso. Di solito la sinistra appare più forte nelle crisi perché punta su slogan di maggiore equità sociale, come in Grecia. Ma quando si riprende a crescere l’opinione pubblica chiede briglie sciolte. Landini avrebbe dovuto capirlo a Pomigliano: hanno scioperato in cinque quando ha tentato di bloccare il primo sabato di straordinario sulla linea della Panda, con la motivazione che il lavoro andava condiviso col resto della fabbrica. Nessuno rinuncia al lavoro oggi, neanche in cambio di solidarietà, e forse nemmeno di diritti. La politica è cosa diversa dall’agitazione sindacale, e non basta agitare più forte.
Più appuntita è la polemica di Boldrini. L’ansia del Paese di mettersi la recessione alle spalle rende oggi popolare uno stile di governo sbrigativo. Ma proprio perché l’opinione pubblica è più tollerante, il rischio di arrecare danni alla democrazia parlamentare è più elevato, anche al di là delle intenzioni. Il governo ha appena esercitato una delega legislativa oltre il parere del Parlamento, e c’è chi dice che voglia legiferare per decreto perfino su una materia come la governance della Rai. È difficile rimproverare a Laura Boldrini la sua frase sull’«uomo solo al comando» quando sono i renziani stessi a ricorrere abitualmente alla minaccia di «andare avanti da soli». Come è poi accaduto sulla riforma costituzionale, approvata dal Pd a Montecitorio in perfetta solitudine.
Ma se la questione democratica esiste, è flebile la voce di chi vorrebbe trasformarla nell’arma di una sfida politica al premier. Non solo quella di Boldrini, tra l’altro impacciata dalla sua carica istituzionale (si prepara un nuovo caso Fini?). Ma anche quella della sinistra pd: di questi tempi perfino i suoi elettori sembrano disposti a scambiare un po’ di benessere in più con un po’ di democrazia parlamentare in meno.
Corriere 24.2.15
Landini: «Fondare un partito? Per niente, ma è a rischio la tenuta democratica»
Il leader della Fiom attacca il governo Renzi a Otto e Mezzo: "A rischio la tenuta democratica del Paese"
qui
il Fatto 24.2.15
Opposizioni
Venerdì la Fiom dà via libera a Landini
Landini “politico”. Ecco la coalizione della nuova sinistra
Rodotà, Gino Strada, don Ciotti e...
Nel progetto una aggregazione di soggetti sociali, senza leader di partito
Il sindacalista: “Abbiamo 350mila iscritti, più del Pd e senza fare cene”
di Salvatore Cannavò
Il leader Fiom tira diritto: “Non faccio un partito, ma mi muovo dal basso. Renzi dice che come sindacalista ho perso? Vorrei ricordargli che abbiamo 350mila iscritti, più del Pd. E che non facciamo cene da mille euro”. La Cgil: insieme per il referendum sull’art. 18 Cannavò pag. 4
“La Fiom fa politica da 114 anni”. Maurizio Landini per spazzare via le polemiche seguite alla sua intervista al Fatto sceglie la trasmissione di Lilli Gruber 8 e 1/2 ispirandosi a uno dei padri della nuova Fiom, Claudio Sabattini, quando diceva che il sindacato fa politica “perché ha delle idee sulla società”.
Dopo l’affondo di Matteo Renzi – domenica scorsa, anch’esso via tv – il segretario della Fiom rilancia tutto. Difende la propria organizzazione che, sia pure in difficoltà negli stabilimenti Fiat, “è ancora il primo sindacato italiano dei metalmeccanici, con 350 mila iscritti, più del Pd e senza fare cene” ma anche la sostanza del proprio progetto, la “coalizione sociale” confermando l’intervista al Fatto.
IL PROBLEMA è che su questo terreno la comunicazione diventa difficile e le parole assumono significati diversi. Per gli osservatori, infatti, “fare politica” significa fare un partito e farsi eleggere in Parlamento. Per Landini no: “Io voglio fare una politica più larga, dal basso, offrendo una rappresentanza a tutti i soggetti colpiti dalla crisi. Voglio unire coloro che non sono rappresentati da un Parlamento che rappresenta solo gli interessi di Confindustria”. Lo schema di gioco è diverso e si colloca a metà strada tra la storica divisione a cui tutti sono abituati: da una parte la politica, i partiti, le elezioni, dall’altra i sindacati, i movimenti sociali, le associazioni. La “sfida”, in realtà, è più ampia.
Per capirla meglio, occorre guardare chi sono i soggetti a cui pensa il segretario della Fiom. Nelle riunioni preparatorie di un progetto che vedrà la luce in primavera, non si ritrovano i protagonisti della sinistra politica: non ci sono Vendola, Civati o Fassina. La Fiom si incontra con Emergency di Gino Strada, con Libera di don Ciotti, con Stefano Rodotà, punto di riferimento ideale di un’area ampia a sinistra, di strutture come la Rete degli studenti. I rapporti sono costanti con Sergio Cofferati che si dice “molto interessato” al progetto. Si guarda con interesse, anche se incontri finora non ci sono stati, ai comitati ambientalisti disseminati sul territorio, a esperienze di mutualismo sociale o ad alcuni settori dei centri sociali. La rete che si sta tessendo è lontana dal campo d’azione della politica più tradizionale.
Non è un caso che quella sinistra sia diffidente o a disagio. Pippo Civati ha detto di non capire questa distinzione tra politica e sociale e ha annunciato di voler incontrare Landini. Sel, per ora, sta a guardare. “Non ci sfugge la valenza politica del nome di Landini” spiega al Fatto il responsabile organizzativo Massimiliano Smeriglio, “ma a oggi non si riesce a comprendere dove voglia andare”.
Un discorso a parte va fatto per la Cgil. Landini nella sua iniziativa non ha mai fatto mistero di voler parlare a tutto il sindacato che “ha bisogno di riformarsi perché la crisi è generalizzata”. Nella Cgil, però, trova forti resistenze sia perché questa nuova relazione tra sindacato e politica non è compresa sia perché non è gradita la sua leadership. Ma, a quanto si coglie nei corridoi di Corso Italia, l’asse con Susanna Camusso per ora tiene. E potrebbe rinsaldarsi se la Cgil deciderà di andare a un referendum abrogativo sul Jobs Act. L’ultimo direttivo ha infatti deciso di “non escluderlo” affidandosi a una consultazione degli iscritti. Nel corso della riunione, però, si sono notati soprattutto i silenzi come quello della segretaria dei Pensionati, Carla Cantone. Eppure, l’ipotesi resta sul tavolo. Ieri i due ne hanno riparlato in un faccia a faccia previsto da giorni e che, secondo le ricostruzioni fatte da chi ha partecipato, è andato abbastanza bene. Camusso non ha preso nessuna distanza ufficiale da Landini anche se la preoccupazione che il suo attivismo possa nuocere alla Cgil c’è tutta. Soprattutto che il sindacato possa essere accusato di essersi mobilitato contro il Jobs Act per fini politici.
IL REFERENDUM, comunque, qualora si celebrasse, sarebbe un test dello spazio politico esistente per questa coalizione sociale. Se ne discuterà venerdì a Cervia, all’assemblea dei delegati della Fiom. Circa 600 dirigenti locali e di fabbrica chiamati ad ascoltare, dal loro segretario, le coordinate di questo progetto e ad esprimersi. Dopo di che, la macchina organizzativa per la “coalizione sociale” si metterà davvero in moto.
il Fatto 24.2.15
La risposta Fiom
“Renzi, ti piace vincere facile?”
Nelle assemblee Fiom, a proposito del successo di Marchionne risuona la canzone di un famoso spot telesivivo: “Bongi, bongi, bongi, bon.... ti piace vincere facile, eh? ”. La “sconfitta” del sindacato di Maurizio Landini di cui ha parlato Matteo Renzi, sostengono dirigenti e iscritti al sindacato metalmeccanico, è infatti il frutto di quanto avvenuto dal 2010 in poi e dall’instaurazione di rapporti di forza molto squilibrati.
GLI EFFETTI DEL CONTRATTO nazionale, voluto da Marchionne come naturale prosecuzione del famoso accordo di Pomigliano, sono stati molto penalizzanti per la Fiom. Non avendo siglato quell'intesa il sindacato metalmeccanico ha perduto la sua agibilità sindacale nelle fabbriche. “Ma io non mi sento sconfitto” ha detto ieri sera Maurizio Landini, “perché noi abbiamo vinto”.
La sentenza della Corte costituzionale del luglio 2012, infatti, ha rimesso, in parte, le cose a posto. Da allora, la Fiom è tornata a beneficiare del diritto di assemblea, di propri delegati e, parzialmente, dei permessi sindacali. “Molti non sanno – spiega Michele De Palma, responsabile Auto della Fiom – che per avere riconosciute le trattenute in busta paga gli operai hanno dovuto fare causa all'azienda”. La Fiom è quella che ha avuto i licenziamenti discriminatori, così li ha definiti il Tribunale, a Melfi e poi la discriminazione nelle riassunzioni a Pomigliano, come ha sentenziato la Consulta. Proprio su Pomigliano c’è stata la stilettata più perfida da parte di Renzi quando ha ricordato che nello sciopero contro il sabato lavorativo nello stabilimento campano, ad aderire allo sciopero della Fiom sono stati solo in cinque. “Ma quei cinque sono i nostri delegati su 19 lavoratori assunti, il grosso dei nostri iscritti è fuori dalla fabbrica, in cassa integrazione”, ribadisce De Palma.
LA FIM IERI NON HA MANCATO di ricordare gli insuccessi del sindacato di Landini: “La partecipazione allo sciopero non supera il 3%”. Dalla Fiom, però, fanno sapere che lo sciopero di Melfi è stato indetto solo in alcuni reparti e comunque, ribadisce De Palma, “nonostante quattro anni di discriminazione noi abbiamo tenuto”. Nel voto per il fondo complementare Cometa, ricorda ancora Landini, su 450 mila metalmeccanici votanti la Fiom ha ottenuto il 56%.
Il peso delle diverse sigle sindacali in Fca è però oggetto di polemica. Fim e Uilm, rivendicano il proprio primato nell’elezione dei delegati Rsa. Elezioni, però, a cui la Fiom, in quanto non firmataria del contratto, non ha partecipato. “Ci conteremo fra poco” ricorda De Palma, “quando voteremo per i rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza”.
L'affondo di Renzi, però, si basa su un altro assunto: “La Fiat torna a vendere e a costruire auto di successo, e quindi ad assumere”. Lo schema si basa sul risultato di Melfi dove la nuova Renegade e la 500X hanno sviluppato volumi tale da indurre l'azienda ad assumere altri 1000 dipendenti. Anche Grugliasco, dove la Fiom è il primo sindacato, va bene. Fca e Renzi si dicono sicuri che andrà bene anche a Mirafiori o a Cassino. Però, al momento, la cassa integrazione è la regola nei due stabilimenti e anche a Pomigliano, sono quasi 2000 i lavoratori fuori dalla produzione. La Fiat è poi diventata Fca e ha la sua sede fiscale in Gran Bretagna. Secondo i calcoli del Sole 24 Ore, l'azienda di casa Agnelli ha beneficato di circa 200 milioni l'anno per cassa integrazione negli ultimi dieci anni. “Anche quello di Valletta negli anni '50 fu un successo” ricorda De Palma: “Renzi vuole vantarsi anche di quello? ”.
s. can.
La Stampa 24.2.15
Camusso incontra Landini e lo frena
“La Cgil non è un partito”
Poi i due leader smussano la portata del vertice: “Era già programmato”. La sfida politica della Fiom resta in piedi
di Roberto Giovannini
Se lo aspettava certamente, il segretario della Fiom Maurizio Landini: la sua intervista al «Fatto» in cui annuncia una «sfida democratica» a Matteo Renzi ha sollevato un bel caos, un sacco di punti interrogativi, e tantissime reazioni. Compresa quella del segretario generale della Cgil Susanna Camusso, che lo ha incontrato per chiedergli che cosa ha in mente. Come si usa in questi casi, sia Camusso che Landini hanno detto che l’incontro di ieri era già programmato da un po’, e che non si è trattato di una «convocazione d’urgenza». Camusso ne ha approfittato per chiedere a Landini le sue idee e le sue intenzioni. E a sua volta, gli ha detto quali sono le «linee rosse» che il leader Fiom non può superare.
A Camusso - e poi in serata a Lilli Gruber su «La7» - Landini ha chiarito che non ha nessuna intenzione di fare un partito né di candidarsi a leader politico. Ancora, il numero uno della Fiom ha giurato che non ha nessuna intenzione di utilizzare il sindacato dei metalmeccanici a fini politici. Ma ha detto che con il governo Renzi e il «Jobs Act» la situazione è cambiata: come alla fine dell’800, il movimento del lavoro oggi non ha alcuna rappresentanza politica, ed è condannato a una protesta sterile visto che il governo ascolta solo Confindustria. Serve dunque, oltre all’azione sindacale, una «coalizione sociale più ampia possibile» in grado di premere sulla politica.
Spiegazioni che non rassicurano Camusso. Che ha spiegato che «andare oltre i confini della rappresentanza sindacale» può significare solo fare un partito o qualcosa del genere. La Cgil (ma anche la Fiom, secondo Camusso) di questo «para-partito» non può né essere né componente né mero «aggregatore». Per la buona ragione che questo produce un danno immediato e gravissimo all’azione sindacale.
Landini a «La7» dice che «a fare un partito non ci pensa», che vuole fare il sindacalista, «che Renzi non è stato eletto e non è di sinistra». Tuttavia è anche l’unico leader di sinistra che quando parla si fa capire. Che è popolare, e che (a differenza dei tifosi del Feyenoord) le ha prese dalla polizia insieme agli operai. Insomma, che lo voglia o no, il leader Fiom è chiaramente un fattore importante nel dibattito politico. E un giorno potrebbe accorgersi di dover fare un «salto» obbligato in un modo in cui per ora non vuole entrare.
Ieri tante le reazioni alla sua intervista: in campo politico, molto positiva è quella di Nichi Vendola, interlocutoria ma non di chiusura quelle di Stefano Fassina e Pippo Civati. Roberto Speranza, della minoranza Pd, accusa Renzi di non aver rispettato il Parlamento. Ma con Landini difficilmente combineranno qualcosa.
Il Sole 24.2.15
Cgil e politica. Dopo le ipotesi di impegno politico
Il leader Fiom: «Fare un partito? Non ci penso proprio»
Speranza (Pd): sbagliato ignorare il Parlamento sul Jobs act
Camusso chiede chiarimenti a Landini, critiche anche da Cisl
di G. Pog.
Faccia a faccia tra Camusso e Landini all’indomani delle polemiche sul suo presunto impegno politico. Ieri l’incontro nella sede di Corso d’Italia con la leader della Cgil è stato un’occasione per un chiarimento, con Susanna Camusso che ha ribadito la necessità di evitare commistioni tra politica e sindacato. Tutto nasce dall’intervista pubblicata domenica da “Il Fatto quotidiano” e titolata «Faccio politica», in cui Landini aveva detto: «È ora di sfidare Renzi», sostenendo che «il sindacato si deve porre il problema di una coalizione sociale più larga e aprirsi a una rappresentanza anche politica». Landini ha poi smentito il titolo, ma sul contenuto dell’intervista nella stessa giornata è intervenuto il premier Renzi: «Non credo che Landini abbandoni il sindacato, è il sindacato che ha abbandonato Landini - ha detto il presidente del consiglio intervistato a “In mezz’ora” -. Il progetto Marchionne sta partendo, la Fiat sta tornando a fare le automobili. La sconfitta sindacale pone Landini nel bisogno di cambiare pagina, il suo impegno in politica è scontato». Nelle stesse ore il portavoce di Camusso, Massimo Gibelli, su twitter commentava: «Se Maurizio vuole scendere in politica tutti i nostri auguri, ma il sindacato è altra cosa».
Dal sindacato spiegano che l’incontro era in agenda da tempo, in preparazione dell’assemblea dei metalmeccanici in programma venerdi e sabato a Cervia. Ma in serata Landini ha rincarato la dose: «Che abbia perso come sindacalista è una sciocchezza: la Fiom ha 350mila iscritti, più del partito di Renzi». A fare il partito? «Non ci penso proprio. Voglio continuare a fare il sindacalista - ha aggiunto - serve una vasta coalizione sociale che si opponga a un premier, che pur non essendo stato eletto, sta cancellando lo Statuto dei lavoratori. È a rischio la tenuta democratica del Paese». Come è noto, arrivato a Palazzo Chigi, Renzi elesse Landini come interlocutore privilegiato tra i leader sindacali, sui temi del lavoro. Ma la luna di miele è finita da tempo; l’ultimo faccia a faccia tra i due a Palazzo Chigi risale allo scorso 27 agosto. Poi su materie come il Jobs act e il rilancio della Fiat targata Marchionne (fortemente sostenuto da Renzi) è maturata la frattura.
Non è un mistero che a sinistra periodicamente si evochi il nome di Landini come possibile protagonista di una nuova alleanza sociale alternativa al Pd. Anche se lui poi puntualmente smentisce. L’intervista di domenica ha aperto una breccia in quella parte della minoranza Pd, e non solo, che contesta la politica del governo. Per il capogruppo alla Camera Roberto Speranza, Renzi ha sbagliato a «non tener conto del parere delle Camere». «Landini ha chiarito che vuole continuare a fare sindacato - ha detto Stefano Fassina - ma pone un problema vero: il lavoro non ha un’adeguata rappresentanza. Il problema di costruire un legame fra diverse istanze sociali è questione aperta». Ma una parte della minoranza Pd, l’area riformista, resta fredda. «Sono scelte personali - commenta Cesare Damiano -. Landini pare avere un seguito in politica, per il momento ha scelto di fare il sindacalista e spero abbia lo stesso seguito nel sindacato». La possibilità che Landini da sinistra possa erodere il consenso al Pd, non preoccupa il ministro della Pa Marianna Madia: «Non siamo preoccupati - afferma - abbiamo un programma con delle riforme importanti, andiamo avanti su questa strada senza cambiare per le critiche degli altri». Duro il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan: «È una scelta di Landini, a lui lasciamo la politica e i salotti televisivi: la Cisl è sui luoghi di lavoro» ha detto, entrando in Cassazione per depositare la proposta di una legge di iniziativa popolare sul fisco più equo. «Noi siamo un sindacato al 100% - ha aggiunto - non molliamo mai il tavolo delle trattative».
Il Sole 24.2.15
Dalla lista Tsipras a Landini, la sinistra alla ricerca disperata di un leader
di Lina Palmerini
Gli stessi che oggi spingono Maurizio Landini a lasciare il sindacato per la politica sono quelli che a maggio scorso si presentarono alle europee con la Lista Tsipras, per l’esattezza “L’altra Europa con Tsipras”. Anche se il premier greco ha preso altre ore di tempo per presentare la sua lista di misure a Bruxelles, quell’altra Europa non si è affatto materializzata né si materializzerà. Dunque, chi ha “importato” in casa nostra quelle promesse che non si realizzeranno – come minimo – deve fare autocritica e darne conto a quel 4,1% di elettori che aveva creduto alla delega in bianco della sinistra italiana verso quella greca. Invece a Roma si continuano a produrre slogan su come e quanto deve cambiare l’Europa mentre è sotto gli occhi di tutti la fatica del negoziato di Atene e il suo costo politico interno. Mentre Syriza si spacca proprio perché ci si misura con la realtà, a Roma questo esercizio resta lontano. E mentre Atene fa i conti con il suo popolo e con i rischi di un collasso finanziario, la sinistra italiana è partita alla ricerca di un nuovo Tsipras.
Questa volta italiano, di Reggio Emilia, di professione sindacalista della Fiom, che ha offerto l’illusione di poter fare il salto in politica. Peccato che già ieri ci sia stato un piccolo test fallito: l’ennesimo flop di uno sciopero Fiom indetto a Melfi contro lo straordinario chiesto dall’azienda. Sembra che abbia aderito solo il 2,8% di operai. Un dato che non è proprio un incoraggiamento per Landini a intraprendere avventure politiche soprattutto se precedute da storie di sindacalisti passati alla politica senza grandi successi. O se si ripercorre la storia recente della sinistra al governo che si ricorda più per i fallimenti: dalla scelta di Fausto Bertinotti, ex sindacalista Cgil, di far cadere il primo Governo Prodi, fino al 2008 quando la sinistra fu bocciata dagli elettori dopo la prova nel secondo Esecutivo Prodi e non riuscì neppure a entrare in Parlamento.
Insomma, quell’area che guarda a Landini non ha ancora fatto i conti con il presente complicato di Tsipras né con il passato della sinistra di governo. E anche se il leader Fiom, che ieri ha avuto un vivace scambio di opinioni con Susanna Camusso, nega di voler fare il salto e fondare un partito, la suggestione in alcuni resta. Proprio quelli che criticano il leader carismatico e bacchettano Renzi «uomo solo al comando» sembrano alla disperata ricerca di un volto che incarni una rappresentanza e dia a loro una prospettiva politica. Se ne capisce il motivo. Il Pd renziano comincia a essere davvero un alleato impossibile o una casa scomoda. Troppo scomoda, soprattutto dopo il varo del Jobs act e dei decreti attuativi che ha archiviato – senza colpo ferire – anni e anni di battaglie a sinistra.
In molti, a cominciare da Stefano Fassina, hanno ricordato che la riforma del lavoro discende dalla lettera della Bce del 2011. Un’osservazione corretta così come è corretto pensare che Tsipras, nonostante le promesse elettorali, non farà altro che continuare ad applicare - nella sostanza - lo stesso programma della troika sia pure sotto un nome diverso. Il punto è che la maggioranza dei cittadini ha scelto di restare nell’euro e dunque non c’è altro da fare che negoziare e trattare con l’Europa. Alle scorse europee, la maggioranza dei voti è andata ai partiti filo-Ue – dal Pd a Forza Italia a Ncd – mentre alla Lega è andato circa un 6% di consensi e al Movimento 5 Stelle il 21,16 per cento. Fino a quando gli italiani – e i greci – vorranno restare nell’euro ai partiti toccherà la pratica della realpolitik. O quella di rinnegare le promesse elettorali.
il manifesto 24.2.15
Muro contro Renzi. Ma fra i ’compagni’ scende il freddo
Vendola: Landini è una risorsa per tutti. Ma la minoranza Pd non ci sta
Gotor: «Un Landini radicale fa il gioco di un Renzi neo centrista»
di Daniela Preziosi
qui
il manifesto 24.2.15
Democrack
Fassina: «Una nuova ’cosa’? Ora no»
L'ex viceministro: il leader Fiom ha ragione, la rappresentanza del lavoro non è all'altezza. Ma il Pd non è solo Renzi
di Daniela Preziosi
qui
Diretta News 24.2.15
Civati e Bertinotti stanno con Landini
qui
L’Huffington Post 24.2.15
Pippo Civati su Maurizio Landini: "Parlerò con il segretario della Fiom, misuriamoci su un progetto politico"
qui
La Stampa 24.2.15
Per il leader Fiom fiducia molto alta
Il bacino di voti si ferma all’8%
I sondaggisti: difficile fare una Podemos italiana
di Francesca Schianchi
Un «combattente» che difende i lavoratori, descrive la percezione dell’immagine di Maurizio Landini il direttore di Ipr marketing Antonio Noto. Un leader «con un eloquio efficace, che ha competenze e richiama la fatica del lavoro», dice la politologa Sofia Ventura. Che il segretario della Fiom abbia un appeal lo dimostra il fatto che già mesi fa vari sondaggisti lo hanno testato: oltre al fatto che, come ricorda la Ventura, Crozza ha preso a imitarlo, infallibile cartina al tornasole degli astri in ascesa della vita pubblica italiana.
Concordi nel riconoscere carisma a Landini, molti esperti sono però altrettanto d’accordo nel non attribuire a una sua eventuale – per ora smentita – discesa in campo un’esplosione di consensi a sinistra. Nulla di paragonabile a Syriza in Grecia o Podemos in Spagna: «Secondo le nostre rilevazioni, Landini gode della fiducia di circa un 20% degli italiani: ma attenzione, fiducia non significa che lo voterebbero», mette in guardia Pietro Vento, direttore di Demopolis, «è difficile capire quale sia lo spazio per una nuova forza a sinistra del Pd», ma, di certo, «sarebbe poco realistico ipotizzare scenari simili a Syriza o Podemos». Non c’è lo stesso contesto di Grecia e Spagna anche per Roberto Weber di Ixè: «Landini, che secondo i nostri sondaggi di qualche mese fa potrebbe arrivare all’8%, non è espressione di una generazione e di gruppi sociali esclusi: l’impianto narrativo di Podemos, lui non lo può proporre».
Per quanto riguarda un suo ipotetico peso elettorale, spiega Noto che, secondo le rilevazioni fatte in autunno, molto dipende da cosa dovesse succedere nel panorama politico: «Se riuscisse ad aggregare una parte di Pd, potrebbe arrivare anche al 10%. Altrimenti, si fermerebbe al 4-5%, più o meno quanto la lista Tsipras alle Europee». Un eventuale «non banale» consenso raggranellato da Landini a sinistra, ragiona la politologa Ventura, potrebbe spingere la situazione a «radicalizzarsi sempre di più, con un Pd ancor più spinto al centro». Il che, secondo Weber, non intaccherebbe il consenso del premier: «Almeno nel breve e medio termine, Landini in campo non incrinerebbe l’egemonia renziana».
Repubblica 24.2.15
In Italia il variegato fronte sociale appare privo di ossatura e di una vera strategia
Il paradosso Landini quello spazio nuovo alla sinistra Dem difficile da colmare
Proprio per questo il premier si permette di fare il Maramaldo In questa fase è impossibile fare paragoni con la Spagna o con la Grecia
di Stefano Folli
ESISTE un paradosso alla sinistra di Renzi e le polemiche sull’eventuale impegno politico di Landini l’hanno fatto emergere. Da un lato, lo spazio è ampio, significativo sulla carta anche sotto l’aspetto elettorale; dall’altro, né il segretario della Fiom né altri sembrano oggi in grado di occuparlo e di organizzarlo. Per cui il presidente del Consiglio non sembra aver molto da temere, almeno nel medio termine, e si permette il lusso di fare battute un po’ da Maramaldo.
Si capisce perché. Landini può anche vagheggiare di costruire — lui stesso o altri a lui vicini — la versione italiana del movimento spagnolo Podemos, come ha scritto Angela Mauro di “Huffington Post”. Ma la realtà è sempre più complicata dei sogni. In Grecia Syriza si è subito scontrata contro il muro dell’Europa tedesca, in Spagna i nuovi movimentisti rappresentano, certo, una forza vera che però deve ancora misurarsi con i fatti e prima deve vincere le elezioni. In Italia il variegato fronte sociale a sinistra del Pd appare privo di ossatura e di strategia. Si ritrova su alcune parole d’ordine, come la contro-manifestazione anti Lega che si sta preparando per sabato 28 a Roma. Ma l’idea di presentare Salvini come un piccolo Tambroni del Duemila a cui intimare lo sfratto dalla città eterna, con il connesso rischio di disordini e violenze, non è un progetto politico. È più che altro un pretesto per scendere in piazza a manifestare un malessere, rischiando però di fare il gioco dell’avversario leghista.
S’intende che a sinistra di Renzi c’è anche dell’altro. Ma le sigle partitiche hanno dimostrato da tempo di non possedere forza propulsiva. Vendola non rappresenta una minaccia per il premier e non è più nemmeno un aggregatore: anzi, di recente ha subìto l’abbandono del gruppo filogovernativo di Migliore. Quel che resta di Rifondazione è poca cosa e da parte sua la minoranza del Pd di tutto sembra preoccuparsi, tranne che di preparare la scissione. Nessuno peraltro riesce a immaginare Bersani che si mescola alle organizzazioni sociali per inseguire la replica italiana di Podemos. E di sicuro lo stesso Landini se ne rende conto. Tanto è vero che non ha ottenuto incoraggiamenti né dall’interno del Pd (salvo forse Civati) né dal mondo sindacale, a cominciare dalla Cgil. Gli uni e gli altri vedono con identica diffidenza un’ipotesi dai contorni indefiniti che rischia di indebolire insieme la struttura del sindacato tradizionale e quella del partito.
Eppure, ecco il paradosso, lo spazio non mancherebbe. Solo che trasferirlo sul piano politico e soprattutto elettorale richiede una leadership e anche una cornice propizia. Non basta essere contro le politiche di Renzi e nemmeno portare nelle strade qualche migliaio di manifestanti. Ci vuole perizia e senso tattico. Il presidente del Consiglio ha fatto della comunicazione la sua arma migliore, ma non si è fermato a questo. La legge elettorale (l’Italicum), su cui la Camera è chiamata a pronunciarsi, rappresenta un’arma decisiva per chiudere gli spazi a sinistra lasciando un «diritto di tribuna» o poco più ai gruppi che resteranno al di fuori della lista Renzi.
Questo significa che le prospettive non sempre meditate di chi guarda alla Spagna o alla Grecia devono fare i conti con una riforma elettorale di tipo maggioritario tendente per sua natura a mettere ai margini le forze minori e intermedie. Un movimento stile Podemos avrebbe bisogno di una legge proporzionale, come in Spagna. Ma l’Italia sta andando in una direzione opposta, a meno che non intervenga qualche incidente di percorso in Parlamento. In mancanza del quale chiunque vorrà dare forma a una nuova sinistra sospesa fra società e palazzo dovrà adattarsi a un lungo cammino. Per cui nessuno si meraviglierebbe se alla fine Landini scegliesse di giocare le sue carte all’interno della Cgil invece che in una sfida politico-elettorale al premier.
La Stampa 24.2.15
La strada impervia del capo dei metalmeccanici
di Marcello Sorgi
L’ipotesi di un nuovo movimento, o addirittura di un partito alla sinistra del Pd, guidato dal leader della Fiom Maurizio Landini non preoccupa Matteo Renzi. Ma quando il premier domenica ha risposto a Lucia Annunziata che non è Landini che abbandona il sindacato, ma il sindacato che abbandona lui, sapeva di cosa parlava. I risultati, fallimentari per la seconda volta, dopo quelli di Pomigliano, dello sciopero proclamato a Melfi dal sindacato dei metalmeccanici della Cgil sono stati al centro ieri mattina di un vertice tra lo stesso Landini e la segretaria Susanna Camusso: il 2,8 per cento di adesione alla protesta, con la punta minima dello 0,95 (dati forniti dall’azienda) dimostra che la chiamata all’estensione dal lavoro contro gli straordinari chiesti dalla Fiat non è stata condivisa dai lavoratori. Melfi dunque come Pomigliano, che il 14 febbraio aveva visto solo cinque operai scioperare, mentre la Cisl vinceva le elezioni per le rappresentanze interne.
Nel giro di pochi giorni, dopo la decisione del governo di varare i decreti legislativi del Jobs Act, sia Camusso che Landini hanno accennato a iniziative politiche, non soltanto sindacali, che il sindacato potrebbe prendere nei confronti del governo. Così Camusso in un’intervista a “Repubblica” non ha escluso di poter lanciare un referendum abrogativo contro il Jobs Act. E Landini, pur precisando che non pensa a un partito, s’è detto disponibile con “Il Fatto” a organizzare un movimento che punti a coagulare una maggioranza contro la politica economica del governo.
Va detto che i due progetti, se confermati, in questo momento finirebbero molto probabilmente a risolversi a favore di Renzi. Il referendum sulla riforma del lavoro ricorda molto quello proclamato dal Pci con l’appoggio della Cgil, e perduto da entrambi, nel 1985, esattamente trent’anni fa, contro il taglio della scala mobile voluto da Craxi. E l’ipotesi di un partito antagonista, al quale non si unirebbe la minoranza bersaniana, decisa piuttosto a condurre la sua battaglia all’interno del Pd, non tiene conto delle difficoltà in cui versa da tempo la sinistra radicale, da Sel in giù, attraversata da tensioni e scissioni a favore delle riforme di Renzi. Il quale Renzi, si può immaginare, non vedrebbe l’ora di misurarsi in una consultazione elettorale che per il momento in cui cadrebbe, non prima del 2016 - a Jobs Act implementato e con gli effetti del disgelo della crisi che potrebbero manifestarsi più concretamente -, non lo vedrebbe certo in posizione svantaggiata.
Il Sole 24.2.15
A Melfi
Sciopero Fiom, adesione del 2,8%
Adesione del 2,8% allo sciopero proclamato dalla Fiom alla Fca-Sata di Melfi (Potenza), contro lo straordinario chiesto dall’azienda per il sabato e la domenica. Nella fabbrica che produce la Jeep Renegade e la 500X, l’adesione più alta è stata ieri (4,5%), mentre quella più bassa, 0,95%, sabato scorso.
Repubblica 24.2.15
Pd, la rivolta della minoranza a marzo una convention
“Solo uniti fermiamo Renzi” Speranza: “Un errore il Jobs act”
Il capogruppo alla Camera attacca il governo: “Se salta la sintonia con il Parlamento, salta tutto”. La replica di Poletti: “Basta incertezze”
di Goffredo De Marchis
ROMA Neanche un mese dopo l’elezione di Sergio Mattarella, momento di massimo politico peso della minoranza Pd nell’era renziana, la sinistra è in un angolo. Per uscirne dovrebbe far valere i «rapporti di forza», dice un bersaniano, com’è successo sul voto per il Quirinale. Sulla legge elettorale alleandosi con Forza Italia, sul lavoro cercando una sponda con Maurizio Landini. «Ma se non siamo uniti, perdiamo sempre», dice Alfredo D’Attorre. Per questo oggi i dissidenti “festeggiano” l’attacco di Roberto Speranza a Matteo Renzi. Significa che i pontieri sono più arrabbiati e la pratica della mediazione perde un po’ di ragione d’essere.
Il capogruppo del Pd aveva avuto garanzie dal premier sul Jobs Act portando quasi tutti i deputati dem a votare per la delega. «Spariranno i licenziamenti collettivi, garantito », aveva promesso il premier. È finita con il decreto che conferma quella forma di uscita dal mercato del lavoro. «Il governo ha sbagliato a non tener conto del parere delle commissioni lavoro di Camera e Senato sui licenziamenti collettivi previsti dalla delega sul lavoro», dice ora Speranza. Poi annuncia battaglia: «Deve essere a tutti chiaro — spiega riferendosi a Renzi — che se viene meno la necessaria sintonia tra Parlamento e governo non si va da nessuna parte». Il patto stipulato tra minoranza e Renzi viene confermato dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti. «Ha ragione Speranza — racconta il ministro — ma la scelta del governo di non cambiare l’impianto del decreto dato alle Camere era per evitare il pericolo di una incertezza ». Non si volevano mettere gli imprenditori italiani e gli investitori stranieri di “scappare” con la scusa che prima c’era stato un impegno e poi si era tornati indietro. «Ne abbiamo discusso molto — dice Poletti — e alla fine abbiamo deciso così».
Questo atteggiamento però porta alla radicalizzazione dello scontro interno. I “rapporti di forza” impongono alla sinistra di trovare un minimo di unità A marzo, in una convention che si sta preparando, verranno messi insieme bersaniani, civatiani, cuperliani, con la sponda della Cosa rossa in gestazione, quella che sarà guidata dal segretario della Fiom Landini. «Sul lavoro Maurizio pone un problema reale. Il distacco tra il Pd e i lavoratori è sempre più profondo. Ma non c’è bisogno di scorciatoie organizzative«, dice Stefano Fassina. Ossia, Pippo Civati a parte, nessuno nel Partito democratico pensa a una scissione. «È evidente l’indifferenza assoluta di Renzi per il pluralismo interno. Per lui si limita alla chiacchierata in streaming tra di noi», attacca l’ex viceministro. Il terreno comune a sinistra può diventare «la distribuzione delle risorse, se davvero assisteremo all’inizio della ripresa», precisa D’Attorre. Temi più vicini alla gente delle riforme, anche se ormai il Jobs Act è andato. La guerriglia parlamentare invece può realizzarsi dalla fine di marzo sull’Italicum.
Renzi lo vuole approvare in via definitiva, quindi non va toccato rispetto al testo uscito dal Senato. Il capogruppo Speranza però non sembra disposto ad offrire, su questo punto, un sostegno assoluto al premier: «La Camera discute. È un suo diritto. Anzi, il suo dovere ». I dissidenti pensano a un’asse con Forza Italia che a Montecitorio è guidata da Renato Brunetta, nemico del patto del Nazareno. «Il dialogo è inevitabile - avverte Fassina -. E nessuno si deve permettere di accusarsi di usare strumentalmente gli azzurri. Che il testo va cambiato lo diciamo da prima della rottura con Berlusconi. Vorrà dire che parleremo con quelli che fino a ieri erano gli amici di Renzi». Ma di cosa? Non dei capolista bloccati, bersaglio della sinistra ma pilastro della strategia berlusconiana. «Sull’apparentamento al secondo turno abbiamo posizioni simili. Significa che il testo può cambiare, che Renzi è a rischio sui numeri e l’Italicum dovrà tornare al Senato», sottolinea D’Attorre. Questa ipotesi era già prevista negli emendamenti Gotor, dunque non c’è . «Però incidiamo solo se siamo uniti - insiste D’Attorre -, come è successo con il voto a Mattarella ». Per questo la convention di marzo. Per questo non è più tempo di mediatori, di pontieri. Una battaglia da condurre dentro il Pd, dicono tutti i dissidenti.
il Fatto 24.2.15
Ri-carica veltroniana I fedelissimi crescono all’ombra della Lupa
Tutti gli uomini e le donne del fondatore del Pd alla scalata della cultura
Lui (per ora) nelle retrovie
di Paola Zanca
Festeggiando l’elezione di Piera Detassis a presidente del Festival del Cinema di Roma, l’altro giorno, il celebre Gian Luigi Rondi chiosava: “Il Festival ne sono certo, tornerà come l’avevano voluto Veltroni e Bettini”. All’ultranovantenne decano della critica, non fa difetto la saggezza. E il suo giudizio assennato fotografa lo stato dell’arte a Roma: tutto tornerà come voleva Veltroni, perché Veltroni è tornato dappertutto. Basta vedere l’infilata di nomine nei posti chiave della cultura nella Capitale, di cui la Detassis (che verrà affiancata da Antonio Monda) è solo l’ultima in ordine di tempo.
MENTRE l’ex sindaco ha scelto di ritirarsi dalla prima linea della politica, i suoi fedelissimi fanno carriera. Volendo cominciare da lontano, bisognerebbe tornare a Giovanna Melandri: era il 2012 e a sorpresa il governo Monti la nomina presidente della Fondazione Maxxi, ovvero a capo del più importante museo di arte contemporanea della città. Ma è nelle ultime settimane che l’intellighenzia veltroniana è tornata al potere. Dicevamo della Detassis. Critica cinematografica, già direttrice della rivista Ciak, ha da anni un legame stretto con Veltroni. Per capire il tenore dei rapporti tra i due, basta leggere l’attacco autobiografico di un’intervista che la stessa Detassis fece al Walter nazionale: “Era il 2007 e con l’allora sindaco di Roma eravamo sbarcati a Los Angeles per promuovere la Festa del cinema appena fondata. Tutti ugualmente abbattuti dall’onda anomala del jet lag, mentre lui, Veltroni, senza neanche poggiare la valigia e non risparmiandoci un certo sarcasmo (“se non avete il fisico, ditelo”) se n’era andato dritto dritto allo Staples Center a vedere una partita dei Lakers. L’impresa, annebbiati com’eravamo da prepotenti colpi di sonno, ci parve allora degna di Spider-Man”. Quanto a ragnatela, la Detassis non sbagliava. E di filo in filo, Veltroni ieri ha portato a segno un altro colpo da maestro: Maria Pia Ammirati nel consiglio di amministrazione del teatro dell’Opera. La scrittrice, già capostruttura di Unomattina, fino all’altro ieri era direttrice di Rai Teche, non proprio uno degli incarichi più di prestigio in viale Mazzini. Per tirarla fuori da lì, serviva un’occasione buona. E le persone giuste nel posto giusto. Pedina fondamentale è quella di assessore alla Cultura in Campidoglio. Dopo le dimissioni di Flavia Barca, a gestire la macchina di Roma è arrivata Giovanna Marinelli. Una a cui di Veltroni, praticamente, manca solo la faccia: a capo del Dipartimento Cultura, fu la storica collaboratrice di Gianni Borgna, a sua volta storico assessore alla Cultura di Walter sindaco.
È ANCHE GRAZIE al legame con la Marinelli che la squadra dei pupilli veltroniani continua a crescere anche ora che al Comune di Roma siede Ignazio Marino. Per dire, anche Carlo Fuortes, già presidente di Musica per Roma e sovrintendente dell’Opera, è vicinissimo a Veltroni. E adesso, proprio per la casella lasciata libera da Fuortes all’Auditorium si riscalda un altro fedelissimo dell’ex sindaco: Giorgio Van Straten, ex consigliere di amministrazione della Rai, scrittore, ricordato dai maligni soprattutto in qualità di compagno di ombrellone del suo sponsor politico. Per ora sono solo rumors ma c’è da scommettere che Veltroni riuscirà anche nell’operazione Van Straten. Poi, forse, avrà tempo per dedicarsi ad un compito ancora più delicato. Pensare alla sua, di carriera. E chissà che a Viale Mazzini stavolta non ci vada lui. Direttamente al settimo piano.
il Fatto 24.2.15
Un giorno con Renzi (e con la stampa serva)
di Maurizio Chierici
DOMENICA di pioggia con Renzi di guardia alla Tv. Mattino dedicato alla Buona Scuola, diretta fiume Rainews24. Promesse che trascinano: vinceremo. Guarda i ragazzi come piccoli adulti da far crescere nei comandamenti che rottamano la vecchia democrazia. Pomeriggio Buona Rai. I sorrisi di Lucia Annunziata nascondono svolte pericolose e il premier sceglie con cura le parole che moltiplicano i bersagli. Landini (avvilito dal Jobs Act Renzi-Marchione); Gasparri servitore non muto dell’ex (?) socio Nazareno. Prossima rivoluzione: nelle reti di Stato mai più una politica diversa dalle voci del leader segretario. Alla sera arriva il Buon Petrolio della Basilicata, Presa diretta di Riccardo Iacona. L’eleganza del capo del governo condanna l’allarme degli inutili “comitatini“ Greenpeace. Diciamola, non sono nessuno. Per vocazione alla misericordia darà un’occhiata a chi si ammala e muore nelle colline inquinate dal petrolio, ma lasciar perdere 108 mila barili al giorno è una debolezza insopportabile da chi deve tirar su il paese.
Inutile rifugiarsi nei Tg per sapere cosa davvero succede: Renzi salta da un notiziario all’altro: promesse, promesse. Noi giornalisti siamo davvero innocenti se l’Italia è ridotta così? Bisogna capire che gli editori impuri di giornali e Tv fanno girare gli affari nelle poltrone della politica. E “l’informare“ si trasforma nel “formare“, quindi disegnare scenari indispensabili al tornaconto di chi decide. E che magari domani sparisce ma la cultura dell’inganno ha radici profonde: complicato tagliarle. I giornalisti devono scegliere. Arruolarsi nei battaglioni embedded degli editori sincronizzati con qualsiasi potere, quindi scrivere o recitare talk show come marionette appese ai fili modello Santanchè improvvisando ravvedimenti appena l’impero traballa. Come le ragazze di piccola virtù, impossibile sopravvivere senza protettori: a quali porte busseranno le Betulle cresciute nei giardini di Arcore? Oppure rassegnarsi alla precarietà di chi non sopporta l’ipocrisia. Gran parte dei cronisti sfugge le tentazioni che avvelenano il mestiere anche se consapevoli che il raccontare proprio tutto può diventare esercizio pericoloso soprattutto nelle province dove il rapporto proprietà-cronaca soffoca l’informazione nelle ragnatele locali.
ECCO il silenzio che imbroglia la gente. L’Italia è scivolata al 73° posto nella classifica dei paesi dalla normale libertà di stampa: 1515 giornalisti minacciati, 276 denunce intimidatorie. Quando un cronista va in tribunale con la prospettiva di bruciare 10 anni di stipendio mai più frugherà fra le immondizie dei padroni del vapore. Anche gli Stati Uniti non brillano, 49° posto con una differenza: per garantire la credibilità dei giornalisti, lettori ed editori, si affidano a ricerche sconosciute alle nostre abitudini. Dieci giorni fa, Brian Williams, conduttore principe di Night News, viene sospeso dalla Nbc, pagherà 5 milioni di dollari “per aver mentito ai telespettatori“: inchiesta periodica The Marketing Arma’s. Era fra “le 25 persone più credibili degli Stati Uniti“; precipita all’835° posto. Non per piaggeria mediterranea, innocenti vanità. Reportage in elicottero nelle zone di guerra, inventa l’aereo “nemico“ che gli spara addosso e la curiosità di chi tutela la trasparenza smaschera altre bugie. Se oltre all’audience misurassimo la credibilità delle farfalle che svolazzano nei giardini dei poteri, quanti embedded lascerebbero il posto ai ragazzi in fila per fare la cronaca. Lunedì mattina: tanto per non lasciarlo solo, lampi Tv del Renzi che telefona a Bruxelles. Spunta il sole, ma di quale avvenire?
Repubblica 24.2.15
Campania, Pd nel caos verso le primarie
Già stampati i manifesti per il voto del primo marzo, ma la maggioranza del partito fa partire l’ultimo tentativo di annullarle e presentare come candidato unico del centrosinistra il presidente del Cnr Luigi Nicolais
di Conchita Sonnino
NAPOLI Meglio di un giallo, ma di serie B. Un caos che sconfina nella farsa. Sull’esito finale non scommette nessuno, e l’intreccio ha già riservato il peggio. L’enigma un po’ grottesco delle primarie di coalizione avviate dal Pd in Campania per la Regione si scioglierà entro stasera, forse: dopo quattro rinvii, le consultazioni sono giunte alla quinta data ufficiale del primo marzo, e registrano cinque candidati. Sono in corsa da tempo l’ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca gravato da due condanne, l’eurodeputato Andrea Cozzolino, cui si sono aggiunti il deputato Gennaro Migliore (tutti del Pd), Marco Di Lello dei socialisti, e Nello Di Nardo di Idv. Eppure resta valido e sospinto un sesto nome, lo scienziato e presidente del Cnr Gino Nicolais, che la maggioranza del partito regionale sta cercando di calare come ultima ratio per annullare, cinque giorni prima, l’apertura dei gazebo. È la stessa sorte che doveva toccare a Migliore, poi spinto a gareggiare, quasi fuori tempo massimo.
Nicolais la spunterà? Tutto dovrebbe consumarsi nelle prossime ore: è strettissimo il margine di tempo che le norme, già abusate, concedono. E sale dal popolo Pd un grande interrogativo inevaso, tanto a Napoli, quanto al Nazareno: le primarie in Campania suscitano preoccupazioni così gravi e fondate? Se sì, perché non spiegarlo e decidere in tempi ragionevoli? Due le ombre che pesavano fin dall’inizio sui nomi più forti: De Luca, per effetto della legge Severino, decadrebbe subito, appena eletto; Cozzolino vinse quelle primarie 2011 poi sospese, e accusate di brogli.
Così riparte la corsa contro il tempo per fermare la giostra. Riunioni su riunioni fino alla notte di domenica, altri più tesi e ristretti vertici si tengono ieri: tra gli esponenti delle varie aree che fanno capo ai riformisti (il sottosegretario Umberto Del Basso De Caro, il parlamentare europeo Paolucci legati a Epifani), all’ex area Popolare (con il potente Mario Casillo), ai dem (l’ex parlamentare Teresa Armato) più correnti minori, nell’estremo tentativo di raggiungere il 60-70 per cento per provocare l’unico espediente utile a far saltare le consultazioni, in favore dello scienziato come candidato unitario.
Indiscrezioni anche su una richiesta ennesima di assemblea regionale, che però il segretario campano Assunta Tartaglione nega, senza escludere nulla: «Al momento non è pervenuta, né alla segreteria regionale né all’ufficio di presidenza del partito, alcuna richiesta di convocazione ». Il sospetto è che, dietro il pesante “non detto”, queste primarie non ancora consumate si porteranno dietro un corollario di ricorsi e proteste. Cozzolino già annuncia un ricorso alla commissione dei garanti: sono primarie di coalizione e non può mica decidere solo il Pd, attacca. Sul campo resta l’evidenza di inadeguatezze, del livello regionale ma anche nazionale. Dopo le fumate nere, a Roma, degli incontri di De Luca con Luca Lotti e Lorenzo Guerini, l’ex sindaco rilancia: «Non mi fermano, io mi ricandido, questo è il circo Barnum». Ora sembra pattinare sul ghiaccio anche Debora Serracchiani: «Sulle primarie in Campania deciderà il partito locale. Credo ci sono tutte le condizioni per ragionare e trovare soluzioni», dice la vicesegretario. Mentre il sottosegretario ai Trasporti, l’unico campano al governo, Del Basso De Caro commenta: «La speranza è l’ultima a morire. Io ho sempre auspicato una sintesi e il superamento delle primarie con l’accordo su un nome condiviso. Ma siamo a lunedì e mi sembra che la speranza sia quasi equivalente al periodo ipotetico del terzo tipo». Perifrasi meno brutale per dire ai compagni: siamo fuori, nell’irrealtà.
Repubblica 24.2.15
Se i partiti sono fuorilegge
di Piero Ignazi
I PARTITI sono fuorilegge? Si sono adeguati alle norme sulla loro organizzazione e sulle loro attività che sono state introdotte proprio un anno fa? In questi giorni sarà possibile verificarlo. Infatti, il 21 febbraio scadevano i termini per la presentazione degli statuti delle formazioni politiche alla “Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici”, l’organismo istituito con la legge del febbraio 2014 sull’abolizione del finanziamento pubblico diretto e sulla trasparenza e democraticità dei partiti. Ai cinque alti magistrati della Commissione la legge affida il compito di vagliare, oltre i conti, le regole interne e i comportamenti dei partiti, al fine di consentire loro di accedere ai benefici previsti dalle nuove regole sul finanziamento. L’aspetto curioso è che la revisione della normativa sui contributi statali ai partiti, richiesta a gran voce dal clima antipolitico ed anti-casta degli ultimi anni, è stata utilizzata per introdurre anche alcune misure sulle modalità organizzative dei partiti: invece di varare una vera e propria legge organica sui partiti politici, come hanno ormai tutti i Paesi europei sulla scia del battistrada tedesco, che la adottò nel 1967, si è presa la scorciatoia della revisione del finanziamento pubblico.
Comunque, buoni ultimi siamo arrivati anche noi a definire qualche linea guida. Ma quanto sono incisive — e quanta probabilità hanno di essere rispettate — le prescrizioni di questa legge? Se guardiamo alle questioni legate al finanziamento, ancora una volta, come di regola in terra italica, troviamo controlli e sanzioni molto carenti. Quelli che vengono indicati hanno tutta l’aria di essere dei pannicelli caldi: sono infatti previste solo lievi ammende, attraverso la decurtazione dei contributi volontari. Nulla di paragonabile alla possibilità di comminare una super multa come quella affibbiata a Nicolas Sarkozy dalla analoga commissione francese (la CNCCFP), che lo ha giudicato colpevole di avere inserito nelle spese presidenziali, durante la campagna elettorale del 2012, un’iniziativa di carattere politico. L’ex presidente francese ha così pagato 363.615 euro, una somma che oggi farebbe traballare i conti delle formazioni politiche italiane. Per ricordare lo stato delle finanze dei nostri partiti, Forza Italia sta decimando i suoi funzionari dopo che già aveva messo in cassa integrazione 43 dipendenti del Pdl. E può procedere tranquillamente al licenziamento perché gode del paracadute garantito dalla nuova normativa sul finanziamento pubblico, che mette a disposizione per questa eventualità 15 milioni per il 2014, 8,5 per il 2015 e 11,25 per il 2016. Poi vedremo quanto la sostituzione del finanziamento pubblico con la contribuzione volontaria, sia nella forma della donazione (detassata al 26 per cento) che della detrazione Irpef del 2 per mille, darà i frutti previsti. Pensando all’esito fallimentare di un meccanismo simile, introdotto e rapidamente abbandonato alla fine degli anni Novanta, c’è da temere il peggio. In sintesi: questa legge con una mano toglie (progressivo azzeramento dei contributi diretti), ma con l’altra dà (cassa integrazione per i dipendenti, e generose agevolazioni fiscali per i contributi volontari). Dunque, seppure in forma più mascherata, e limitata, i cittadini continueranno a sostenere le attività dei partiti. Cosa, a parere di chi scrive, sacrosanta, benché la ventata iconoclasta dell’antipolitica abbia costretto il legislatore a questi contorcimenti.
Se le norme del finanziamento lasciano perplessi sia in merito al meccanismo delle entrate che all’efficacia dei controlli, lo scetticismo aumenta analizzando le norme che dovrebbero garantire trasparenza e democraticità. La legge, pur nella sua schematicità, indica alcune regole che i partiti devono rispettare se vogliono essere inseriti nel nuovo Registro ufficiale ed accedere ai benefici finanziari connessi. Il problema è che, finora, i partiti non si sono curati molto di quanto precisato dalla normativa da loro stessi approvata. Ad esempio, le indicazioni che obbligano ad indicare nei loro statuti “la cadenza delle assemblee congressuali nazionali o generali” (art. 3b), “i criteri con i quali è promossa la presenza delle minoranze, ove presenti, negli organismi collegiali non esecutivi” (art. 3e), e le modalità di selezione delle candidature per tutte le assemblee rappresentative e le cariche monocratiche (art. 3l) sembrano essere rimaste lettera morta. Uno sguardo agli statuti disponibili mostra infatti grande vaghezza e imprecisione su questi aspetti. Vedremo se i partiti correranno presto ai ripari e adotteranno regole precise e cogenti. Altrimenti saranno da considerarsi “fuorilegge”.
Repubblica 24.2.15
La ragionevole follia del bene comune
di Stefano Rodotà
DA ANNI, stretti tra cattiva amministrazione e impoverimento delle risorse finanziarie, molti Comuni hanno sempre più considerato i loro beni immobili come una sorta di bancomat al quale attingere per colmare buchi di bilancio, con vendite più o meno corrette, o hanno deciso di piegarsi alla logica del disinteresse, abbandonandoli al degrado e pure all’illegalità. Gli effetti sono davanti a noi, e trovano continue conferme. Ultime quelle venute dalla proposta di vendere immobili importanti di proprietà dell’Eur; dalla denuncia di registi e attori sulla “riconversione” di quarantadue sale romane già sede di cinema; dall’inchiesta di Gad Lerner sulla gestione di un insieme di case popolari a Milano. Casi né nuovi né isolati, nei quali si manifestano inaccettabili orientamenti di politica comunale, e non solo: abbandono di ogni programma di edilizia popolare; riduzione di qualsiasi edificio a pura merce, indipendentemente dal suo significato artistico e dalla sua rilevanza sociale; inadeguatezza di un quadro istituzionale che non è stato aggiornato in forme tali da riflettere nel loro insieme il nuovo senso assunto dai beni pubblici e da tutti quelli che si presentano con forti legami con interessi della collettività.
Molte sono state le spinte in questa direzione. Vi è stato un massiccio ritorno di una ideologia proprietaria affermata in un suo totale distacco da interessi più generali e concretamente tradotta nel considerare la privatizzazione una idea guida da seguire sempre e comunque. Questo risulta con chiarezza anche da norme apparentemente settoriali, come quelle che hanno incentivato i Comuni ad approvvigionarsi di risorse finanziarie concedendo ai privati il diritto di edificare, spingendo così anche verso un dissennato consumo del suolo. Tutto questo ha dato origine ad una esaltazione della proprietà solitaria dell’abitazione, in sé non censurabile, ma che ha finito con il legittimare la speculazione edilizia e l’abbandono delle politiche di edilizia popolare, in altri tempi assai importanti. Se l’aspirazione da soddisfare era solo quella della “proprietà della casa”, intorno a ciò è stata costruita una sorta di mistica, una legittimazione molecolare dello spirito di un microcapitalismo, usata alla fine per favorire la grande proprietà immobiliare. Benedetti da Dio, o dal mercato, i singoli proprietari, diveniva coerente con questa premessa il disinteresse per tutti quelli che si erano dimostrati privi della virtù di farsi proprietari. Non è un discorso astratto o tutto ideologico. Dovremmo sempre avere ben presenti le conseguenze distruttive sul governo Letta della pretesa di subordinare ogni altra iniziativa a una particolare soluzione delle imposte sugli immobili.
Tornando ai casi ricordati all’inizio, merita attenzione la decisione del ministro Franceschini di bloccare la vendita di alcuni immobili dell’Eur, ritenendola “non praticabile” per motivi tecnici, per il loro valore storico e artistico, e perché lì si “condensa” un significativo patrimonio culturale. Con queste motivazioni non si respinge soltanto la riduzione a merce di particolari categorie di beni pubblici. Si istituisce una relazione diretta tra questi beni e il diritto alla cultura, e si riconosce l’essenzialità del rapporto tra la città nel suo insieme e i beni che la componconto gono.
È proprio questa l’impostazione che ormai da tempo accompagna la discussione sul tema generale del ruolo sociale dei beni e del contesto istituzionale nel quale devono essere collocati. Ed è proprio questa l’ispirazione che sta alla base del documento di registi e attori che critica gli orientamenti espressi dal Comune di Roma per “riattivare” le sale cinematografiche chiuse da anni. Orientamenti che appaiono in contrasto con la garanzia prevista dal piano regolatore perché la città sia dotata di adeguati spazi sociali e culturali. Così, il problema non riguarda soltanto il modo in cui vengono trattati singoli beni, ma l’idea stessa di città.
Se si considerano alcune significative esperienze italiane, e molte analoghe straniere, si coglie una connessione sempre più marcata tra diritti fondamentali, beni e soggetti che devono gestirli. Così, per riattivare beni inutilizzati, si prevedono procedure volte a favorire la partecipazione e la gestione dei cittadini o, comunque, incentivi perché l’uso di quei beni possa essere indirizzato verso la soddisfazione di bisogni sociali e culturali. Vi sono già molti esempi, che vanno da forme di collaborazione tra cittadini e municipalità «per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani» fino alla stipulazione di convenzioni per la gestione partecipata di beni del patrimonio comunale inutilizzati e che, invece, sono idonei a soddisfare rilevanti interessi collettivi. Una politica attiva da parte dei Comuni, dunque, essenziale per contrastare il degrado e l’abbandono: altrimenti l’inerzia diventa il pretesto o l’alibi per cedere alla logica della privatizzazione, ipocritamente presentata come l’unica praticabile. Questo aspetto è colto bene dal documento di registi e attori che si oppone all’accettazione dell’esistente e che, al posto di una “riconversione” che permetta di destinare a usi commerciali le sale cinematografiche di proprietà privata, indica una strategia di incentivi mirata a rilanciarne l’attività, accompagnata e integrata da altre funzioni sociali e culturali.
I diversi casi specifici individuano una questione generale, e ormai ineludibile. Non si tratta soltanto di considerare l’intero contesto urbano, senza frammentarlo in spezzoni e interessi settoriali, ma di guardare alla città come “bene comune”. Parole, queste, che immediatamente, nel nostro depresso ambiente culturale, eccitano gli istinti di chi vede ovunque proposte eversive. Ma, visto che lo stesso presidente del Consiglio ha definito «l’informazione come bene comune», vale la pena di cercar di andare più a fondo dei significati assunti da questa espressione, sperando che qualcuno si ricordi che questo è da anni tema discusso ovunque nel mondo (e che ha procurato il premio Nobel ad Elinor Ostrom) e magari legga qualche libro invece di fermarsi a citazioni casuali.
Si parla ormai di bene comune a proposito del paesaggio e della conoscenza, del welfare e dell’acqua, e via elencando. Per un verso, questo è un uso retorico di una formula entrata nell’uso corrente. Ma, con un significato più forte, si indica sinteticamente l’esistenza di trame costituite da un insieme di connessioni tra beni, soggetti, diritti. In questi casi sono indispensabili procedure di decisione che tengano di questa molteplicità e che, in situazioni come quelle ricordate, consentano partecipazione e considerazione effettiva di tutti gli interessi in gioco. Per sottolineare l’irriducibilità di questa dimensione agli schemi abituali si è detto che bisogna andare oltre lo Stato e il mercato. Chi parla di rinnovamento culturale deve seriamente fare i conti con questa prospettiva, che esige quella “ragionevole follia dei beni comuni” di cui ha parlato anni fa Franco Cassano, dunque una razionalità adeguata ai mutamenti che hanno investito l’intera categoria dei beni e che incidono profondamente sull’idea stessa di cittadinanza. Un processo che, se abbandonato a un ingannevole spontaneismo, è destinato a consolidare quei pericolosi effetti di negazione dei diritti e di disgregazione sociale che già si stanno manifestando.
In realtà, la forza delle cose sta ridisegnando il rapporto tra mondo dei diritti e mondo dei beni. Partendo da questa constatazione, i beni comuni vengono definiti come quelli necessari per “l’esercizio dei diritti fondamentali” e per il “libero svolgimento della personalità”. La razionalità è quella costituzionale e il riferimento ai diritti fondamentali corrisponde esattamente al ruolo ad essi assegnato dal costituzionalismo dei nostri tempi.
Una impostazione astratta? Si dia, allora, un’occhiata alle proposte di legge che, proprio su questo tema, esistono già nella Commissione Giustizia del Senato. Perché non cogliere l’occasione per una seria discussione che congiunga azione parlamentare e esigenze profonde della società?
il Fatto 24.2.15
È giusto il carcere per i negazionisti?
L’11 FEBBRAIO scorso è stato approvato dal Senato il disegno di legge sul negazionismo. Ora deve passare alla Camera. I sì sono stati 234, i no 3 e gli astenuti 8. La normativa, che modifica la legge del 1975, la cosiddetta legge Reale, prevede l’aggravante dell’istigazione all’odio, all’incitamento a commettere un delitto, se si fonderà sulla negazione della Shoah, dei crimini di guerra o contro l’umanità. Il ddl approvato da Palazzo Madama prevede 3 anni di pena in più se la propaganda, la pubblica istigazione e il pubblico incitamento a commettere atti di discriminazione razziale si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale. Inoltre, è stato ridotto da 5 a 3 anni il limite massimo della pena per chiunque pubblicamente istighi a commettere delitti. In un primo momento, la maggioranza aveva pensato a un reato a sé sul negazionismo dell’Olocausto e di altri crimini di guerra, da approvare in sede deliberante, poi si è optato per l’aggravante da inserire nella cosiddetta legge Reale in modo, ha sostenuto la commissione Giustizia che ha proposto il ddl, da proteggere la libertà di espressione e la ricerca storica. Nella relazione illustrativa si legge, inoltre, che la scelta è stata dettata pure dalla necessità di rendere omogenee le pene relative all’istigazione a delinquere, previste da un’altra legge.
A. Masc.
il Fatto 24.2.15
L’opinione/1 Perché sì
Lo sterminio non è un’opinione ma un fatto storico
di Furio Colombo
Credo fermamente nella necessità di una legge che condanni la negazione della Shoah. Dirò subito che la legge a cui mi riferisco, non ha nulla a che fare (salvo una generica intenzione) con la piccola modifica alla legge contro il razzismo che il Senato ha votato nei giorni scorsi, che è stata impropriamente discussa o celebrata come “legge contro il negazionismo” e che invece prevede soltanto che negare l’Olocausto sia una aggravante di altro reato contro i diritti umani e civili. Mi importa anche precisare che la mia persuasione (punire il negazionismo si deve, e se ne deve impedire la presentazione e difesa, nei mezzi di comunicazione e nelle scuole) non vuole affatto indicare sospetto di indifferenza o giudizio di complicità per coloro che sostengono la piena libertà sempre e comunque. La discussione infatti è possibile e ha senso solo fra persone che hanno la stessa coscienza dell’immensa gravità del delitto, e la stessa conoscenza e condivisione degli eventi sia storici che testimoniati da vittime sopravvissute e dalle confessioni, rendiconti e diari degli esecutori.
INFATTI IL PUNTO che divide persone della stessa civiltà antirazzista e antifascista è se si possa negare, sia pure in un solo caso, quella piena libertà di opinione che è stato tra i principali ideali della lotta di liberazione e di guerra contro il fascismo e il nazismo. Il mio modo di affrontare il problema senza scalfire la libertà non è il carattere iniquo e offensivo della negazione dello sterminio di un popolo, deliberato, organizzato ed eseguito, dopo averlo stabilito per legge, in Germania, in Italia e poi in Europa. L’argomento su cui intendo appoggiare l’argomentazione che chiede la proibizione e la pena, è che la Shoah non è una opinione, ma una catena di fatti: leggi, persecuzioni, deportazioni, limitazioni estreme alle minime condizioni di vita e poi morte, che non sono uno fra tanti aspetti di regimi sconfitti. Sono il fondamento di quei regimi: una dichiarazione aperta e pubblica di guerra contro gli ebrei e in difesa del proprio popolo. Ciò rende tutte le altre vicende belliche (dunque sangue, morte, soldati e popoli decimati, città distrutte) colpa e responsabilità degli ebrei, in documenti formali, ufficiali, tuttora esistenti e mai negati, destinati a moltiplicare l’antisemitismo, dunque la “necessaria persecuzione”, nel futuro. Il negazionismo cambia la storia sottraendo fatti e cancellando prove che sono sempre state esibite e accettate dagli autori dei fatti negati. Il tentativo di cancellare quei fatti (non altri) ha dunque lo scopo preciso, politico e fattuale, di cambiare la storia. E cambiarla nel senso di consentire e giustificare una continuazione dell’antisemitismo che dichiara gli ebrei e il loro “complotto” la causa di tutti i patimenti dei popoli. Qui occorre prestare attenzione al fatto che il negazionismo non si è mai verificato per nessun’altra vicenda storica.
Esempio, i gulag sovietici, mille volte evocati nelle polemiche per e contro il comunismo, non sono mai stati negati, perché mancava qualunque ragione fattuale (non di opinione) per farlo. Si conosce un solo fatto, opposto nel segno ma identico nella intenzione politica, e dunque senza alcuna dignità di libera opinione: la negazione del genocidio del popolo armeno da parte dei turchi, Stato e popolo. Come è noto la Turchia è isolata in questa sua negazione del crimine, che non è accettata da alcun governo e alcuna cultura.
Ma il negazionismo (che, come si vede, è violento antisemitismo che tenta il travestimento da argomento storico) ha un evidente scopo in più, che lo separa dalle opinioni e lo colloca nei fatti: la delegittimazione di Israele. Non perché Israele si fondi o dichiari di fondarsi sulla Shoah. Ma perché è necessario screditare Israele, terra e popolo. L’esistenza dello Stato di Israele è diventato un ostacolo troppo forte per una nuova Shoah. Ed è utile, per ogni vero nemico degli ebrei in ogni parte del mondo, caricarli di una nuova accusa che li separi e li indichi come autori infidi di false verità, dopo avere fallito, dopo la diffusione dei “Protocolli dei Savi di Sion” sul presunto potere ebreo nelle banche e il presunto controllo ebreo sui media. Stiamo parlando di fatti, non di opinioni, come non è una opinione l'uccisione bene organizzata dei giornalisti di Charlie Hebdo, e dei giovani ebrei del supermercato kosher di Parigi.
il Fatto 24.2.15
L’opinione/2 Perché no
Così ci mettiamo sullo stesso piano dei boia di Charlie
di Massimo Fini
Il negazionismo è un reato che – come ogni reato d’opinione – non dovrebbe esistere in una democrazia. Una democrazia è tale infatti quando accetta anche le visioni che le paiono più aberranti. Questo è il prezzo che paga a se stessa. Altrimenti – sindacando su cosa si può oppure non si può dire – si trasformerebbe in una teocrazia laica.
Con il reato di negazionismo, oltretutto, si impedisce anche la ricerca storica. Lo studioso David Irving – reo di aver scritto un libro negazionista, anzi secondo me parzialmente negazionista – è stato arrestato nel 2005 in Austria e condannato a 3 anni di carcere (che poi conta relativamente se siano stati ammazzati 6 milioni di ebrei oppure 4, la gravità è nel fatto di essere uccisi in quanto ebrei, o palestinesi, o malgasci).
INVECE IL DIRITTO di ricerca storica è una delle grandi conquiste dell’Illuminismo, oppure vogliamo tornare ai tempi del cardinale Bellarmino, che tappava la bocca a Galileo?
Tra l’altro già oggi il nostro codice è pieno di reati liberticidi – per esempio il vilipendio della bandiera, delle Forze armate e del capo dello Stato – che potevano pure essere compresi in periodo fascista, ma che in democrazia la contraddicono.
Per non dire poi della legge Mancino sull’istigazione all’odio razziale. L'odio è un sentimento, come la gelosia, e non può essere impedito. I peggiori regimi totalitari puniscono le azioni, le opinioni, ma non mi risulta che abbiano mai messo le manette ai sentimenti. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, ma è ovvio se gli torco anche solo un capello devo finire in gattabuia. L’unico vero limite che può porre una vera democrazia è quello della violenza.
Si sostiene che la legge sul negazionismo colpisca “atti lesivi della dignità umana”. Io dico che o i principi vengono sostenuti integralmente oppure, anche con una sottilissima deroga e con le migliori intenzioni, si apre una breccia in cui sai dove cominci ma non dove vai a finire. Se quello è un “atto lesivo”, allora non si potrà dire più nulla.
TRA L'ALTRO il grande movimento di “opinione” a favore di una legge sul negazionismo e la tambureggiante campagna sulla Shoah, che dura da decenni, hanno finito sicuramente per rafforzare l'antisemitismo. E, al riguardo, lo storico americano ebreo Nor-man Gary Finkelstein ha scritto – con molto coraggio – L’industria dell’Olocausto.
Dobbiamo accettare anche la parola che ci fa orrore. La democrazia deve essere tollerante, e la tolleranza della democrazia non deve essere scambiata per debolezza. È anzi la sua forza. Se una democrazia ritiene di avere valori così superiori tali da imporre veti alle opinioni, allora non è democrazia ma totalitarismo mascherato. Perché ha tanto indignato l'attacco a Charlie Hebdo? Perché è stato un attacco violento e intollerante contro un’opinione seppure per molti repellente. Vogliamo metterci sullo stesso piano?
Corriere 24.2.15
Scuola
Il caos dei precari da assumere
Abilitati ma non in graduatoria. Specializzati con esperienza non abilitati. Supplenti in classe da più di 3 anni. Supplenti con meno di 36 mesi di anzianità
di Claudia Voltattorni
ROMA Graduatorie a esaurimento. Graduatorie d’istituto. Abilitati ma non in graduatoria. Specializzati con esperienza ma non abilitati. Vincitori di concorso (anni fa) e quindi di diritto in graduatoria, ma da anni fermi a casa. E ancora. Supplenti in classe da più di 3 anni. E supplenti solo per qualche giorno con meno di 36 mesi di anzianità. Specializzati Tfa (Tirocini formativi attivi), Pas (Percorsi abilitanti speciali), magistrali. Non tutti i precari della scuola sono uguali. E ha un bel dire il presidente del Consiglio Matteo Renzi che grazie alla sua Buona Scuola nelle aule d’Italia spariranno del tutto i precari, «sarebbe una cosa davvero positiva se ci riuscisse, ma va fatta una programmazione seria», chiosano i sindacati, ma la questione pare tutt’altro che semplice.
I numeri
Già sulle cifre si balla. Centocinquantamila. No. Centoquarantanovemila. No. Centoventi-centotrentamila, precario più precario meno. Al ministero dell’Istruzione i numeri ancora non tornano. E i conteggi sono ricominciati. Perché il punto resta ancora: chi va assunto entro il primo settembre 2015? E mancano solo tre giorni al decreto sulla Buona Scuola, quello che vuole far sparire i precari con un’assunzione di massa di centinaia di prof in attesa da anni e che dal 2016 reintroduce le assunzioni solo per concorso pubblico. Il Consiglio dei ministri ne discuterà venerdì. Nel frattempo il Miur conta.
Ora siamo a quota 120 mila precari da arruolare. Ci sono quelli storici: arrivano dalle Gae, le graduatorie ad esaurimento. Sono quelli cioè che devono coprire tutti i posti disponibili e che da anni sono in graduatoria. Si calcola però che circa 20 mila di loro non siano entrati in classe da anni. Perciò il Miur sta pensando di escluderli, favorendo i precari di seconda fascia, circa 80 mila, che non hanno vinto un concorso, ma hanno un’abilitazione e più di 36 mesi di insegnamento sulle spalle grazie alle supplenze, soprattutto annuali.
Chi sono
Ma come è possibile escludere qualcuno solo in base al fatto che non lavora?, insorgono i sindacati: «Bisogna distinguere — spiega Mimmo Pantaleo della Cgil —: ci sono quelli che hanno un altro lavoro e allora va bene cancellarli dalle liste, ma altri magari non lavorano perché non ci sono supplenze, succede al Sud soprattutto, dove negli anni gli organici sono stati ridotti e i precari sono stati lasciati a casa». Ecco, dice Pantaleo, «non li puoi penalizzare, se li escludi ti esponi subito ad una causa».
I tribunali. Il Miur deve pensare anche a quelli. Lo scorso autunno la Corte di giustizia europea ha stabilito che un precario della scuola con più di 3 anni di contratti deve essere assunto. Quindi, nella maxi immissione in ruolo della Buona Scuola, il ministero deve tenere conto anche di coloro che nella scuola sono da più di 36 mesi, abilitati o meno, vincitori di concorso o no. Con i precari delle Gae e quelli di seconda fascia potrebbero rientrare perciò anche quelli di terza fascia: senza abilitazione ma con supplenze brevi. Si aggiungono poi i circa 6 mila vincitori dell’ultimo concorso pubblico della scuola del 2012, rimasti senza cattedra. La ministra Stefania Giannini li ha definiti «parte del piano assunzionale straordinario che il governo sta approntando».
I dubbi
La Fondazione Agnelli è critica sull’assunzione di massa «senza un’analisi preventiva di ciò che serve». Secondo il direttore Andrea Gavosto, «si è adottata una logica capovolta: assumo questi insegnanti e poi vediamo che cosa gli possiamo far fare». Per la Fondazione, i nuovi prof non insegneranno le materie che servirebbero. Come la matematica, ad esempio. Nelle Gae, ci sono molti insegnanti di lettere, soprattutto al Sud, ma mancano quelli di matematica. E allora? Si dovrà ricorrere ancora ai supplenti, vanificando quel principio di continuità didattica che vorrebbe il Miur.
C’è poi il dubbio sulla copertura finanziaria. Secondo Massimo Di Menna, Uil, «il Miur è ancora in alto mare sul numero delle assunzioni e il miliardo previsto basterà appena per 120-130mila prof». Pantaleo (Cgil) è preoccupato che «le risorse per assunzioni e tutto il resto vengano alla fine prese dagli scatti di anzianità degli insegnanti: se succederà, ci sarà la mobilitazione». Qualcuno ipotizza di spalmare le immissioni in ruolo su più anni. Ma il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone dice secco: «Dal primo settembre saranno tutti assunti». E il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan rassicura: «Per la bella scuola i soldi ci sono, li troveremo».
La Stampa 24.2.15
Lo spettro dei ricorsi sulle assunzioni dei prof
Riguarderanno almeno 120 mila precari
Ancora mistero sui criteri che porteranno il governo ad assumere tra i 120 e i 140 mila precari della scuola dei circa 500mila iscritti nelle graduatorie
di Flavia Amabile, Lorenzo Vendemiale
qui
Il Sole 24.2.15
Scuola, indennizzo per i precari
Carriere al 70% per merito, al 30% per anzianità
Padoan: «I soldi ci sono, li troveremo»
di Eugenio Bruno, Claudio Tucci
ROMA Cambia la progressione economica per gli insegnanti: gli aumenti stipendiali saranno legati per il 30% all’anzianità di servizio (oggi questo criterio vale il 100%) e per il restante 70% debutterà il “merito” (anche se gli “indicatori” sono ancora da definire). Per i docenti precari, accanto al piano di maxi-stabilizzazione al 1° settembre, si sta facendo strada anche l’ipotesi di un “maxi-indennizzo”, studiato per “tamponare” gli effetti della sentenza Ue di fine novembre scorso che ha bacchettato l’Italia per l’eccessiva reiterazione dei contratti a termine (oltre il limite legale dei 36 mesi). Ai professori che hanno lavorato da 3 a 5 anni con rapporti a termine su posti vacanti e disponibili verrebbe riconosciuto, a domanda, un “risarcimento” di 2,5 mensilità. Che sale a 6 mensilità se gli anni di insegnamento “a termine” sono da 5 a 10, e si arriva a un massimo di 10 mensilità per “precariati” di oltre 10 anni.
Si sta riempendo di contenuti, ora dopo ora, il decreto «Buona Scuola» atteso sul tavolo del Consiglio dei ministri di venerdì, assieme a un disegno di legge con le tematiche meno urgenti sul fronte Istruzione. La dote a disposizione è scritta nella legge di Stabilità (1 miliardo per il 2015, 3 miliardi a regime) e l’impegno del Governo è confermato dal ministro Pier Carlo Padoan: «I soldi per la riforma ci sono, li troveremo. La scuola è il punto di partenza per un futuro lungo del Paese».
Le novità dell’ultimo minuto, in attesa del placet di Matteo Renzi, riguardano le modifiche al sistema di incrementi stipendiali (con il parziale superamento degli attuali scatti d’anzianità) e l’ipotesi di prevedere un risarcimento ad hoc per i precari con oltre 36 mesi di servizio alle spalle (anche non continuativo) per frenare i contenziosi.
Sul primo fronte, il ministero guidato da Stefania Giannini sembra sempre più orientato a confermare l’introduzione del merito per i docenti (peserà per il 70%). Il solo “passare del tempo” in cattedra non scomparirà del tutto, ma si ridurrà al 30%. Un primo passo per collegare la retribuzione a elementi valutativi dell’attività svolta in aula (negli anni scorsi per pagare gli scatti d’anzianità si è prosciugato il fondo per il miglioramento delle attività formative a favore degli studenti).
Per quanto riguarda i precari, poi, il 1° settembre ne saranno assunti 120-130mila (si attingerà anche dalle graduatorie d’istituto); le supplenze quindi non scompariranno. E per i precari con oltre 36 mesi di servizio (assunti o no) potrebbe arrivare un maxi-indennizzo. La strada dei risarcimenti, aggiuntiva alla stabilizzazione, è stata percorsa dalle prime pronunce dei giudici del lavoro italiani chiamati ad applicare la sentenza Ue di fine novembre.
Da quanto spiegano dal ministero dell’Istruzione i possibili “beneficiari” del ristoro economico non sarebbero tantissimi: dal 2009 al 2014 (e a lavoro quest’anno scolastico) contano tre anni “a termine” 2.359 precari iscritti nelle graduatorie a esaurimento (le “Gae”) e circa 1.800 iscritti nelle graduatorie d’istituto (seconda e terza fascia). Superano i tre anni (sempre nell’arco temporale 2009-2014) un migliaio di precari “Gae” e altrettanti delle graduatorie d’istituto. Il meccanismo dell’indennizzo, se confermato, non sarà automatico, ma “a domanda” dell’interessato. Presso il Miur si costituirà un fondo ad hoc con le risorse necessarie.
Nel maxi-piano di assunzioni dovrebbero trovare spazio anche i vincitori (e gli idonei) dell’ultimo concorso 2012. Nel decreto ci sarà poi spazio per un intervento sui poteri derogatori in tema di edilizia scolastica, sul rafforzamento di digitale e alternanza scuola-lavoro. Un tema, quello del rapporto tra imprese e istruzione, che dovrebbe trovare spazio anche nel Ddl delega. Da un lato, con la riforma dell’istruzione professionale e, dall’altro, con il potenziamento (con annesso aumento dei controlli sui bilanci) degli Its.
La Stampa 24.2.15
Il Vaticano rifà i conti e trova il tesoro. Recuperati un miliardo e 400 milioni
Molte risorse non erano entrate nel bilancio. E ora è scontro su chi le dovrà gestire
di Andrea Tornielli
qui
Corriere 24.2.15
Tensioni e rischio di scontri
La Lega sabato in piazza del Popolo
E i centri sociali «Noi in corteo»
Un’altra giornata difficile per l’ordine pubblico: il controcorteo degli antagonisti è in preparazione da settimane, potrebbero arrivare in centinaia da fuori Roma
di Rinaldo Frignani
qui
il Fatto 24.2.15
Equivoci a sinistra
Tsipras ha perso e non poteva fare altro: il problema di Atene è l’euro
di Alberto Bagnai
Nel giudizio dei commentatori il battibecco fra Eurogruppo e governo greco è andato a finire male per quest’ultimo. Il peggio però deve ancora venire. Per mettere a fuoco la situazione dobbiamo riconoscere che qualunque fosse stato l’esito, Tsipras si sarebbe comunque trovato in difficoltà. Supponiamo infatti che una Germania miracolosamente rinsavita avesse deciso di abbonargli l’intero debito, e che una Troika convertita al keynesismo si fosse rimangiata le riforme, consentendogli di sostenere i redditi interni (con salario minimo, tredicesime e contratti nazionali).
ACCOLTO come un eroe, nel volgere di qualche mese Tsipras si sarebbe trovato alla casella di partenza: senza aggiustamento di cambio, qualsiasi aumento di reddito si sarebbe rivolto a prodotti esteri (attualmente più convenienti). L’aumento delle importazioni avrebbe mandato in rosso la bilancia dei pagamenti, imponendo il ricorso al debito per pagare i fornitori esteri. Il problema greco è e resta la rigidità del cambio, implicita nella moneta unica. Ma Tsipras l’euro vuole difenderlo, nonostante sia chiaro a tutti che per la Grecia è insostenibile: lo ha ammesso lo stesso vicepresidente della Bce (Atene, 23 maggio 2013).
Visto che tutti, Bce inclusa, sanno quale sia il problema, il fatto che un governo progressista lo neghi lascia un po’ interdetti, ma mai quanto l’esegesi che se ne dà a sinistra. Tsipras, si dice, difende l’euro perché vuol far esplodere le contraddizioni del sistema dal suo interno (a me pare una boiata, ma un suo sapore “di sinistra” ce l’ha).
I più scaltri aggiungono: se Syriza avesse nominato l’euro in campagna elettorale, gli elettori, terrorizzati, si sarebbero rivolti altrove. Che strano! È lo stesso argomento che un altro movimento populista, il 5Stelle, ha usato nel 2014 per non aprire un dibattito sul tema della moneta unica: “Parlandone perderemmo le elezioni, dobbiamo mentire agli elettori per il loro bene”. Un atteggiamento che ha due problemi. Il primo è di ordine etico: nascondere agli elettori qualcosa “per il loro bene” è paternalismo incompatibile con un genuino spirito democratico. Nulla di nuovo: i padri fondatori ben sapevano che l’euro non avrebbe funzionato, ma decisero di nasconderlo agli elettori, nell’attesa che le crisi provocate dalla moneta unica aprissero “finestre di opportunità” per una maggiore coesione politica (lo ammise Prodi nel 2001, lo ha ammesso Amato nel 2013).
QUALCUNO dirà: “Beh, negando le criticità dell’euro Tsipras combatte il paternalismo degli europeisti con le loro stesse armi: non facciamo gli schizzinosi”! Qui entra il secondo problema: la Realpolitik non tutti possono permettersela. Rifiutandosi di riconoscere le criticità dell’euro, e proponendosi di mantenere la Grecia al suo interno, Tsipras è arrivato alla trattativa senza un credibile piano di uscita. Ma un piano B è l’unica possibile arma di pressione sui governi del Nord. Come scopre oggi Munchau sul Financial Times, e come Paolo Savona e Claudio Borghi Aquilini ci dicono in Italia da anni, un negoziato senza alternativa credibile è destinato al fallimento: se ti dicono di no, che fai? Non potendo dire “arrivederci”, cali le brache. D’altra parte, gli elettori ai quali Tsipras sta dicendo che l’euro è un’opportunità, come accoglierebbero la minaccia di uscirne? Chi mente è prigioniero delle proprie menzogne. Sta scritto nei Vangeli: “La verità vi renderà liberi”. Ah, quanto sarebbe tutto più facile se solo i Vangeli li avesse scritti Marx...
La Stampa 24.2.14
«Dite No ai Nein di Schaeuble»
Alexis Tsipras è ancora una volta nel mirino dell’ala sinistra del suo partito. Dopo le bordate contro l’accordo con l’Eurogruppo sparate dall’ex partigiano e oggi eurodeputato di Syriza, Manolis Glezos, che ha parlato di «vergogna» e ha chiesto scusa ai greci «per aver partecipato a creare questa illusione», ieri è toccato a un altro grande vecchio della politica - ma anche della cultura - greca, Mikis Theodorakis, esprimere il suo disagio verso la sinistra al governo che nei confronti dell’Europa a guida tedesca sembra un «insetto che finisce accidentalmente nella rete del ragno incapace di reagire ed essere salvato». Il leggendario compositore delle musiche di Zorba il greco, 89 anni, imprigionato e torturato durante il regime dei Colonnelli, invita in un articolo apparso sul suo sito personale il premier e i leader di Syriza a opporsi all’Ue e a «trovare la forza di dire No ai Nein di Schaeuble», per rafforzare la «legittimità nazionale» della maggioranza parlamentare. Il musicista chiede di «abolire immediatamente tutte le misure del memorandum e far partire il restauro della nostra indipendenza nazionale».
Il Sole 24.2.15
La linea d’ombra di Syriza tra illusione e realtà
di Vittorio Da Rold
Syriza è un partito di lotta o di governo? Dopo le illusioni vendute a piene mani durante la campagna elettorale è il momento della dura realtà dove non esistono pasti gratis né tantomeno qualcuno che paga la tua montagna di debiti .
Atene, che dall’inizio della crisi ha visto ridursi del 25% il Pil, deve dimostrare di recuperare soldi dall’evasione fiscale di massa, dal florido contrabbando di carburanti e sigarette , di ridurre la burocrazia bizantina e la corruzione straripante e con i soldi incassati finanziare le politiche di sostegno alle fasce più deboli e ridurre quell’austerità che ha colpito la classe media esentando gli oligarchi. La palla, ora, è tutta nel campo greco.
Alle elezioni di giugno 2012 molti dirigenti di Syriza speravano di perdere il confronto elettorale con il premier Antonis Samaras e il suo alleato socialista Evangelos Venizelos perché non si sentivano pronti a governare in una situazione troppo compromessa. E il loro desiderio venne esaudito, seppur di poco.
Ma nel gennaio 2015 la maggioranza dei greci, di fronte al 26% di disoccupazione e al Pil che si era ridotto di un quarto, ha deciso che la misura era colma e che Syriza dovesse avere la sua occasione di governo. E ora dopo un braccio di ferro devastante con Berlino e l’Eurogruppo, dove è emersa imperiosa la vittoria dell’Europa intergovernativa a discapito di quella comunitaria, Atene si trova a dover rinunciare ad alcune delle illusioni vendute in campagna elettorale.
Una situazione abbastanza ricorrente in democrazia, ma qui l’inversione di rotta è drammatica rispetto alle speranze che aveva suscitato.
È il momento in cui Syriza e il suo leader Tsipras devono mantenere i nervi saldi e prendere atto che l’accordo raggiunto a Bruxelles non aveva alternative, perché, in caso contrario, il governo greco avrebbe dovuto mettere il controllo dei capitali per sostenere le banche che in due mesi hanno visto ritirare 25 miliardi di euro dai conti correnti.
Atene, che rischia di tornare in recessione nel primo trimestre del 2015, secondo Diego Iscaro della Ihs Economics, ha dovuto dire sì al controllo della Troika, a non modificare i precedenti accordi e a non prendere iniziative unilaterali.
In cambio ha ottenuto quattro mesi di estensione degli aiuti finanziari, e la possibilità di allentare la morsa fiscale, con un avanzo primario per il 2015 che «terrà conto della situazione economica». Piccoli spazi di manovra che però potranno essere utili a riguadagnare la fiducia con i partner europei gravemente compromessa.
Tsipras ha l’occasione di fare quelle riforme che ad Atene sono solo state annunciate ma mai fatte davvero: la lotta all’evasione fiscale, combattere la corruzione, ridurre i privilegi dei grandi dirigenti pubblici e degli oligarchi.
Il governo potrebbe cominciare a cambiare direzione politica proponendo un condono fiscale per chi ha somme detenute all’estero: l'economista della London School of Economics Gabriel Zucman stima che i greci avrebbero depositi per 60 miliardi di euro nei caveau della banche in Svizzera. L’esecutivo potrebbe far pagare finalmente un po’ di tasse agli armatori , magari in base al tonnellaggio della flotta, senza colpire eccessivamente uno dei punti vitali dell’economia ellenica.
L’esecutivo potrebbe anche lavorare sul tema delle liberalizzazioni, cercando di aprire alla concorrenza e quindi alla riduzione dei monopoli, il settore delle vendite all’ingrosso e al dettaglio, e delle telecomunicazioni. Tutte idee già suggerite all’ex premier Giorgos Papandreou dal compianto Tommaso Padoa-Schioppa, ma senza successo sul campo.
Tsipras avrebbe tempo anche di varare una bad bank che risollevi i devastati bilanci delle banche greche e possa avviare una governance del credito che faccia arrivare i prestiti all’economia reale, alle piccole e medie imprese, agli agricoltori, e non ai soliti amici degli amici.
A quel punto Bruxelles, e solo a quel punto, potrebbe aiutare gli sforzi di riforma concedendo l’aumento del tetto per l’emissione dei bond a tre mesi, dando così più spazio di manovra per finanziare quelle manovre sociali di riduzione del peso dell’austerity sulle famiglie più povere. Una sfida complessa ma senza alternative, perché in caso di sconfitta sarebbe tutto il paese a mandare a casa Syriza e il suo sterile radicalismo.
Repubblica 24.2.15
Iran, il Mossad smentisce Netanyahu
Dopo i file di Snowden, sul Guardian e su Al Jazeera nuovi dossier delle agenzie di intelligence internazionali Gli 007 frenarono sui rischi del nucleare di Teheran dopo il discorso del premier all’Onu
I contatti segreti Usa-Hamas
di Enrico Franceschini
LONDRAPer il Mossad l’arma nucleare iraniana è un progetto lontano dal realizzarsi, ma il primo ministro israeliano continua a sostenere pubblicamente il contrario. È questa la prima “bomba” di una nuova serie di rivelazioni spiattellate da una misteriosa talpa sui servizi segreti internazionali. Dopo Wiki-Leaks e il Datagate, un altro scoop sta dunque per far tremare il mondo: stavolta lo diffondono insieme ad Al Jazeera, la “ Cnn araba” ovvero la rete televisiva di news basata in Qatar (ma con un’edizione in inglese diramata da Londra), e il quotidiano Guardian, quest’ultimo già protagonista delle clamorose divulgazioni di Julian Assange ed Edward Snowden che gli hanno fatto vincere il Pulitzer, il più importante premio giornalistico del globo. Lo “Spycables” — come è stato subito soprannominato — si compone di centinaia di documenti top secret ottenuti dai servizi segreti sudafricani, raccolti per anni nel corso di incontri con agenti del Mossad (lo spionaggio israeliano), dell’intelligence americana e di quella britannica. Ma chi ci sia dietro la misteriosa fonte confidenziale, e quale sia lo scopo ultimo delle rivelazioni, è un giallo nel giallo che si presta a una ridda di ipotesi.
La notizia più importante che per ora sembra trapelare è quella sulle diverse interpretazioni della minaccia iraniana date dal Mossad e dall’ufficio del premier israeliano Netanyuahu. Nell’ottobre 2012, un messaggio riservato del Mossad affermava che l’Iran non stava «svolgendo l’attività necessaria alla produzione di armi nucleari », sottolineando che al contrario stava «lavorando per chiudere le distanze in aree apparentemente legittime come l’arricchimento di uranio» per i reattori della loro industria civile. Eppure il mese prima, parlando all’Onu, Netanyahu esortò a fermare Teheran tracciando una linea rossa. Differenze di opinioni al riguardo erano già emerse in Israele, con almeno due ex capi del Mossad, Meir Dagan e Efraim Halevy, che si sono schierati contro un attacco all’Iran per distruggere presunti armamenti non convenzionali o centrali in cui sarebbero stati prodotti. Ma è la prima volta che questa divergenza viene allo scoperto da documenti ufficiali. E a Gerusalemme non si esclude che dietro la rivelazione ci siano addirittura la Casa Bianca, il dipartimento di Stato o i servizi segreti americani: il presidente Obama non nasconde da tempo la sua irritazione verso Netanyahu, che a un mese dalle elezioni nel suo Paese è stato invitato dai repubblicani a parlare al Congresso della questione iraniana, ribadendo che negoziati e sanzioni non servono e che occorre usare la forza per impedire che l’Iran abbia l’atomica.
Ma nel dossier di Spycables ci sono anche altre scottanti rivelazioni che potrebbero viceversa imbarazzare gli Stati Uniti, come le prove di contatti segreti fra la Central Intelligence Agency e il gruppo islamico palestinese di Hamas, ufficialmente designato da Washington come un’organizzazione terroristica con cui non si può trattare. Un cablogramma afferma che la Cia era ansiosa di stabilire contatti con Hamas a Gaza, la striscia di territorio governata dal gruppo islamico, e di reclutare agenti e informatori in tale ambito. La talpa avrebbe raccontato segreti anche sulla Corea del Nord e sulla politica occidentale in Africa. Si profila insomma una nuova, gigantesca fuga di notizie, di cui solo nei prossimi giorni si capiranno fino in fondo la portata e gli obiettivi, compreso il ruolo del Qatar, il piccolo ma potente e ricchissimo emirato in cui ha sede Al Jazeera . Nel gioco di specchi dello spionaggio, anche lo Spycables potrebbe avere un compito occulto, in grado di influenzare l’esito delle elezioni in Israele, i negoziati in corso con l’Iran, i rapporti fra lo Stato ebraico e gli Usa, gli ultimi due anni della presidenza Obama e forse anche la prossima campagna presidenziale americana, oppure rappresentare l’ennesima dimostrazione di come il potere inganna l’opinione pubblica mondiale per perseguire i propri fini.
Repubblica 24.2.15
Il coraggio di uno Stato palestinese
risponde Corrado Augias
Gentile Augias, ho cominciato ad appassionarmi alla persecuzione antisemita e all’Olocausto da quando a 14 anni lessi Il diario di Anna Frank. Poi da insegnante ho cercato di sensibilizzare i miei ragazzi attraverso letture, film, incontri con sopravvissuti, ho letto e sto leggendo tantissimo su questa tragedia. Adesso per esempio Storia di una vita di Aharon Appelfeld, ma tutto questo non m’impedisce di pensare che non si può più a lungo rimandare il riconoscimento dello Stato di Palestina. Gaza è diventato un campo di concentramento, dove nessuno è libero, dove prende sempre più posto la violenza, perché dalla disperazione non nasce la pace. Per questo bisogna combattere con tutte le nostre energie l’antisemitismo (gli ebrei devono vivere dove hanno scelto di vivere) ma contemporaneamente bisogna riconoscere ai palestinesi il diritto di avere la loro patria e il loro Stato.
Anna Pieri
Una parte notevole anche se al momento (forse) minoritaria di israeliani pensa esattamente le stesse cose. Un recente episodio dice quale sia l’atmosfera. Lo scrittore David Grossman ha ritirato la sua candidatura al “Premio Israele” dopo quello che ha definito «un pesante intervento» del premier Benjamin Netanyahu, critico verso la composizione della giuria, a suo parere composta da troppi «antisionisti». A seguito del suo gesto altri cinque candidati si sono ritirati mentre si dimettevano 11 membri della giuria su 13. Il procuratore di Stato Yehuda Weinstein ha definito l’intervento di Netanyahu illegale dopo di che il premier ha dovuto rivedere il suo atteggiamento, almeno sul premio. In Israele si vota martedì 17 marzo e questo spiega in parte il nervosismo. Ma le elezioni (anticipate) non spiegano tutto. Il più autorevole storico israeliano, Zeev Sternhell, che ha vinto nel 2008 il Premio Israele per le Scienze politiche nel libro Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni ( in Italia per Dalai ed.) scrive che mentre la nascita di Israele nel 1948 si giustifica con la situazione angosciosa creatasi nella prima metà del Novecento, per cui «un popolo così perseguitato aveva bisogno e meritava non solo un rifugio ma un suo proprio Stato», il tentativo ostinato di mantenere i territori conquistati con la Guerra dei sei giorni (1967) «sa molto di espansione imperiale». Quanto al riconoscimento di uno Stato palestinese in una recente, bellissima intervista all’ Huffington Post italiano Sternhell ha detto: «I parlamenti europei che hanno votato per il riconoscimento dello Stato di Palestina hanno fatto una scelta politicamente significativa, coraggiosa; alcuni ripetono che non è il momento opportuno, vorrei che spiegassero qual è per loro quel momento. Una risposta sincera sarebbe: mai».
Repubblica 24.2.15
Turchia Nei panni delle donne
A Istanbul gli uomini indossano le gonne
Nessuna goliardia, lo fanno per Ozgecan Aslan la ragazza di 20 anni stuprata e uccisa su un autobus
Una protesta in strada e una campagna sul web per denunciare un orrore quotidiano
di Marco Ansaldo
ISTANBUL «NESSUNA pietà per gli assassini. Indossa anche tu una gonna per Ozgecan ». Chi percorre in questi giorni Istiklal Caddesi, la via del tramvai rosso, cuore di Istanbul e polso della Turchia, si imbatte in variopinti manipoli di maschi vestiti da donna. Abiti plissettati e calze di seta nera spuntano da gambe con polpacci da terzino e teste barbute. Ma i volti sono seri. Nessuna moina o presa in giro. Solo una domanda che gira intorno: «E tu la gonna l’hai messa?».
Ci sono uomini con i cerchietti fra i capelli e padri con i figli nel marsupio. Chi canta. Chi applaude. Chi leva i pugni al cielo. Chi innalza cartelli rosa. Chi urla slogan. Tutti per Ozgecan Aslan, la ragazza di 20 anni stuprata, uccisa, amputata, bruciata, gettata nel fiume la settimana scorsa a Tarso, la città di San Paolo, nel sud, perché si opponeva a una violenza sessuale sull’autobus verso casa.
Da dieci giorni la Turchia si interroga. E l’immagine della studentessa è riflessa ovunque. In molte città sono state organizzate manifestazioni. A Mersin le donne si sono incatenate davanti al tribunale. E al funerale, all’imam che intimava alle amiche di restare indietro per lasciare da tradizione il posto agli uomini, si sono tutte piazzate in prima fila davanti al feretro, caricandosi poi loro la bara sulle spalle. Un milione di tweet ha finora risposto all’invito #sendeanlat (anche tu racconta la tua storia).
È stata però la reazione dei maschi a sorprendere. I turchi sono gente molto creativa. Due anni fa si erano inventati, durante la rivolta di Gezi Park, “l’uomo in piedi” davanti alla gigantografia del fondatore laico Atatürk, gesto diventato una protesta cumulativa in piazza di gente muta e severa, dritta in un silenzio contundente contro il governo islamico. Poi “l’uomo che legge un libro” per manifestare a migliaia contro lo stesso obiettivo. Ora, sotto il nuovo hashtag “Indossa una gonna per Ozgecan”, signori di ogni età hanno finito per postare le loro foto su Twitter, Facebook e Instagram, ritraendosi per solidarietà in indumenti femminili. Domenica, alle tre del pomeriggio si sono anche dati appuntamento a Piazza Taksim. E ad Ankara, Smirne, e nelle province, continuano ancora a scendere per strada. Uniti indossando la gonna.
Ozgecan studiava psicologia. Lo scorso 13 febbraio, rientrando da Mersin, era l’ultimo passeggero del minibus. Il conducente aveva cercato di violentarla. Lei si era divincolata, resistendo, spruzzando del liquido al peperoncino e graffiandolo in faccia. L’uomo l’ha però sopraffatta, picchiata, accoltellata. Da morta le ha tagliato le mani. Facendosi infine aiutare da due complici ha bruciato il corpo, buttandolo nel fiume. Due giorni dopo l’hanno scoperto e lui ha confessato. Al processo rischia ora 36 anni di carcere. Un crimine che ricorda la vicenda di Pippa Bacca, l’artista milanese nipote di Piero Manzoni, uccisa nel 2008 in Turchia, mentre vestita da sposa faceva la sua performance itinerante in autostop come già in tante altre strade del mondo. Il suo corpo gettato in un fosso.
Dice l’economista Guven Sak: «Lo slogan “Avete sentito il grido di Ozgecan?” echeggia adesso in proteste massicce. Non è facile essere donna in Turchia. Su questo siamo un po’ come in India, dove una fisioterapista di 23 anni è stata violentata e uccisa da una gang in un autobus a sud di Delhi. Qui uguale. Devo confessare che non abbiamo sentito in tempo il grido di Ozgecan».
Il Paese è sotto shock. L’omicidio della studentessa ha scoperchiato una sequela di orrori che pare non fermarsi. Ad Antalya, località balneare rinomata, il 19 febbraio una ragazza di 23 anni è stata uccisa dal fidanzato di 29 dopo un litigio in macchina. L’uomo ha cominciato a guidare aprendo la portiera per cacciarla giù, fino a quando la testa della fidanzata non è rimasta sotto le ruote. Lo stesso giorno, nella provincia meridionale dell’Hatay, vicino al confine siriano, un giovane di 19 anni ha cercato di violentare una ragazzina di 12. L’ha avvicinata su un minibus, picchiata e minacciata col coltello. La polizia è arrivata sulla scena trovando le finestre della vettura bloccate mentre il ragazzo stava stuprando la bambina. Poche settimane fa un altro caso è arrivato in prima pagina: quello di una donna accoltellata e segata dal marito in 52 pezzi nei sobborghi di Istanbul. I giornali di ieri dicono che i vicini avevano sì sentito dei rumori, ma non avevano preso alcuna iniziativa a favore della donna.
Le polemiche si abbattono sul governo, molto osservante sui temi religiosi, meno sulla protezione femminile. I media riportano dati allarmanti. Le violenze contro le donne sarebbero aumentate del 1400% da quando, nel 2002, il partito islamico è al potere. Sotto accusa le tradizioni conservatrici, tutt’altro che egalitarie, imperanti soprattutto nelle zone più interne e orientali del Paese, dove la minore considerazione delle donne trova radici consistenti. La responsabile della Famiglia e delle Politiche sociali, Aysenur Islam, la sola ministra nel governo, risponde che la legge vigente sulla violenza alle donne basta: «Il problema — spiega — è piuttosto il procedimento. Che è a discrezione del giudice. E visto che i magistrati sono indipendenti, noi non possiamo dire: “Deve andare così o deve andare cosà”. Ma penso che i giudici non debbano mai usare il loro potere discrezionale contro i responsabili».
La giornalista di Hürriyet, Melis Alphan, ha messo in fila, una dietro all’altra, le violenze più recenti. Un elenco da brivido. «Tre uomini hanno trascinato una donna per 230 metri, uccidendola: la sentenza a 36 anni è stata ridotta a 30 per “buona condotta” in tribunale. Un uomo che ha assalito sessualmente una turista giapponese in auto è stato punito con 1 anno e 8 mesi di reclusione: per il suo comportamento rispettoso all’udienza la sentenza è stata posposta. All’amministratore scolastico che aveva abusato sessualmente di 4 ragazzine è stata comminata una sentenza leggera solo su due di esse, perché la loro salute fisica e psicologica non ne aveva risentito; e la solita “buona condotta” gli è poi valsa la riduzione di un sesto della pena. Il 25enne che ha abusato due bambini di 4 e 6 anni ha ottenuto 5 anni di punizione, ma poiché la psicologia dei bambini non risultava danneggiata è stato rilasciato. Un uomo che ha buttato dal balcone la moglie e il suo amante si è visto ridurre la pena dall’ergastolo a 25 anni perché il rossetto trovato sul collo del rivale è stato considerato una provocazione». Si potrebbe continuare.
L’altra settimana nel quartiere sulla sponda asiatica di Istanbul un commerciante ha ucciso a colpi di coltello un giornalista che giocava a palle di neve con gli amici perché gli avevano rotto un vetro del negozio. «Questo Paese ha bisogno di una terapia — commenta Guven Sak — le nostre menti sono stressate oltre il limite, incapaci di ascoltare il grido di aiuto che arriva».
La storia di Ozgecan ha scoperto un nervo a lungo nascosto. E la Turchia, che vive a fior di pelle, si conferma un Paese pieno di contraddizioni: a volte meraviglioso, a volte tremendo. Impossibile da classificare. Dove metà donne indossano il velo, e le altre trucco e tacco sotto abiti non castigati. Con i maschi anch’essi divisi. Uomini che odiano le donne. E uomini che portano le gonne.
Repubblica 24.2.15
La scrittrice Elif Shafak
“I nostri politici non capiscono che la società sta cambiando”
intervista di M. Ans.
ISTANBUL ELIF Shafak, autrice di 10 romanzi, è la scrittrice più venduta nel Paese. Non è rimasta sorpresa dalle reazioni così forti all’omicidio di Ozgecan. «In Turchia molte donne sono ansiose di ottenere, da molto tempo ormai, diritti e libertà. Sulle violenze si è registrata una crescita scioccante. E gli omicidi per motivi di genere si sono triplicati. Il “Rapporto sul gap globale del gender” classifica la Turchia al 125° posto su 142 Paesi. Così l’omicidio di Ozgecan ha scioccato, intristito e adirato milioni di cittadini. Le proteste ora sono ovunque. E le donne costituiscono il fronte della protesta».
Violenze sessuali ogni giorno. Molte nascoste.
Ma perché qui?
«La Turchia è un Paese patriarcale. Lo è sempre stato. Ma sta diventando ancora più conservatore e dominato dagli uomini. La politica turca è maschilista, aggressiva, litigiosa. Non dimentichiamoci che la Turchia ha il più basso tasso di rappresentazione femminile in politica. I politici amano parlare, ma poche iniziative sono state prese per dare aiuti finanziari, psicologici e sociali alle donne abusate. È ovvio che “la violenza contro le donne” non sia una priorità per il governo. Ma per milioni di donne invece lo è!».
Durante i funerali di Ozgecan l’imam ha detto alle donne di stare indietro, secondo la tradizione religiosa. Loro però hanno reagito e circondato la bara. In Turchia le donne stanno reagendo. È un segnale?
«Secondo le regole prevalenti dell’Islam in Turchia le donne ai funerali devono lasciare portare il feretro agli uomini che conducono la preghiera. Ma questa volta, nonostante tutti gli avvertimenti dell’imam, le donne si sono rifiutate di farlo. Non lo hanno ascoltato. Hanno detto: “Nessun’altra mano di uomo la tocchi più”. E hanno caricato loro stesse la bara. Gli analisti di politica internazionale non hanno colto questo aspetto. Sono così concentrati sulla politica che non hanno fatto attenzione a come sta cambiando la società turca. Oggi qui le donne stanno diventando più politicizzate degli uomini. Durante gli eventi di Gezi Park, metà di quelli che protestavano erano donne. E le donne sono più forti nell’opporsi all’autoritarismo e al sessismo perché sanno di non avere più niente da perdere».
Il ministro della Famiglia, Aysenur Islam, ha detto che le leggi sulle donne sono sufficienti.
Non è che i politici stiano davvero sottostimando il problema?
«La legislazione sulle donne non è sufficiente. I quadri dirigenti del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) hanno fallito nel vedere il gap fra le loro prospettive e la realtà di un numero crescente di donne in Turchia. Il governo si è allontanato dalle donne moderne. Nella sua carriera politica Recep Tayyip Erdogan ha fatto troppe dichiarazioni sulle vite private delle donne, sull’aborto, su quanti figli dovrebbero avere, eccetera. Ha pure detto di non credere nell’uguaglianza dei sessi. Dopo l’omicidio di Ozgecan, il Capo dello Stato ha criticato le femministe, rimproverandole di “danzare” invece di “pregare”. Risolveremo il problema del genere in Turchia criticando le femministe? Un esponente dell’Akp ha detto: “Uno stupratore è più innocente di una vittima dello stupro che sceglie di abortire” ».
Lei che cosa propone?
«Esprimo emozioni, pensieri e critiche attraverso le parole. Combatto il sessismo, l’omofobia e la xenofobia con le parole. Scrivo articoli, libri, dò conferenze, sostengo campagne… ma naturalmente tutto questo non è abbastanza. Dopo Ozgecan, dobbiamo lavorare ancora più duramente. E come donne dobbiamo parlare più forte».
Gli uomini l’hanno sorpresa con l’iniziativa di solidarizzare indossando le gonne?
«Questo omicidio ha oltraggiato molti uomini in Turchia, specialmente i giovani. Sui social media ci sono state campagne interessanti. Ma dobbiamo ricordare che qui, poiché la libertà di stampa è limitata, sono i social media a essere diventati una piattaforma politica. Allora si sono visti gli uomini per strada indossare le gonne per protestare contro il sessismo. È stata una delle proteste sociali più creative. Abbiamo bisogno di più uomini che si facciano avanti e si pongano domande sul maschilismo. Uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, devono unire le forze contro gli atteggiamenti patriarcali e il sessismo».
Repubblica 24.2.15
La destra Usa riscrive la storia crociata a scuola sui manuali
Via i riferimenti poco patriottici dal genocidio degli indiani allo schiavismo Ma studenti e insegnanti si ribellano
di Federico Rampini
NEW YORK QUEL corso di storia non verrà insegnato: è poco patriottico. La destra americana sta mettendo fuori legge manuali scolastici che “non sono abbastanza positivi”. Hanno il torto di evocare macchie nella genesi degli Stati Uniti come il genocidio degli indiani, lo schiavismo, i ritardi nella parità femminile. Al loro posto dovrà essere insegnata la dottrina dell’“eccezionalismo”: quella che teorizza un’America diversa da tutte le altre nazioni, implicitamente superiore sul piano morale, o addirittura investita da una missione della provvidenza.
La battaglia sui testi scolastici infuria da anni, con i repubblicani all’attacco soprattutto (ma non solo) negli Stati del Sud per epurare libri di biologia favorevoli alla teoria dell’evoluzione, o testi per liceali che danno informazioni sui metodi contraccettivi. Ma adesso il centro dell’offensiva è la storia patria. L’assemblea legislativa dell’Oklahoma ha vietato in quello Stato i corsi di “advanced placement” (Ap) in storia. Sono corsi liceali di tipo avanzato, ai quali gli studenti si iscrivono perché danno punteggi aggiuntivi per l’ammissione nelle università. I politici conservatori che hanno messo all’indice quei corsi spiegano il perché nel testo di legge approvato: “I manuali utilizzati danno un’interpretazione negativa della conquista del West, come se fosse stata fondata su una cultura razzista. Invece occorre insegnare a scuola che l’America aveva una missione: diffondere la democrazia e il progresso in tutto il continente”.
L’Oklahoma viene così ad aggiungersi a un elenco di Stati Usa che hanno già varato o stanno per votare leggi analoghe. L’Arizona ha vietato tutti i corsi di storia comparata Messico-Usa perché i manuali usati in quelle lezioni «incoraggiano la solidarietà etnica », in uno Stato dove la destra combatte le aperture di Barack Obama verso gli immigrati. Georgia, Nebraska, North Carolina e Texas, hanno in corso delle offensive per rendere obbligatorio nei corsi di storia liceali “l’eccezionalismo”. Questa dottrina viene fatta risalire, nella sua versione più autorevole, addirittura allo studioso francese Alexis de Tocqueville, il primo che definì questa nazione “eccezionale” nel suo celebre studio del 1840 su La democrazia in America . Più di recente però, ispirati dal politologo Seymour Martin Lipset, i neoconservatori si sono impadroniti di quel termine. Ne è venuta fuori una versione “ultrà”, che attribuisce all’America un attaccamento unico ai valori della libertà e della democrazia; spesso vi si aggiunge la dimensione religiosa, l’America diventa la nazione eletta, come Israele nell’Antico Testamento, in alcuni autori della destra fondamentalista cristiana. È questo il Verbo che i repubblicani vorrebbero vedere insegnato nei testi scolastici, invece di recriminare sulle ingiustizie razziali, sociali, o sessuali.
Professori e studenti, però, hanno cominciato a rivoltarsi contro la novella Inquisizione. A Jefferson County nel Colorado ci sono state manifestazioni, proteste e scioperi dei liceali. Una professoressa di storia in quella cittadina, Stephanie Rossi, ha dichiarato alla Cnn: «Mi sono sentita insultata. Le autorità locali di fatto accusano noi insegnanti di trasmettere agli allievi dei valori antiamericani, antipatriottici». Anche in Oklahoma la reazione dei giovani si sta organizzando. Uno studente di liceo, Moin Nadeem, ha lanciato una petizione sul sito Change. org che in poco tempo ha raccolto 5mila adesioni: per chiedere all’assemblea legislativa locale di tornare sui suoi passi. «Come ogni liceale — scrive Nadeem sul sito — sto pensando tutti i giorni al mio futuro. Il mio sogno è riuscire a entrare al Massachusetts Institute of Technology e studiare nel campo dell’intelligenza artificiale. Non avrei mai immaginato che lo Stato in cui vivo, l’Oklahoma, mi avrebbe proibito quel sogno. La nuova legge riduce le nostre opportunità ». Fare a meno dei corsi advanced placement , o Ap, significa automaticamente rassegnarsi a punteggi inferiori e quindi essere fuori gara nella selezione molto esclusiva delle grandi università.
Un’esponente repubblicana che ha votato le nuove direttive sui programmi liceali nel Colorado, Jill Fellman, si è difesa dicendo che «ai nostri ragazzi bisogna insegnare che nella storia ci sono i buoni, i brutti e i cattivi». Un’altra esponente della crociata patriottica, Jane Robbins del think tank neoconservatore American Principles Project, denuncia negli attuali manuali scolastici «un frastuono negativo sull’America, in sintonia con l’obiettivo della sinistra che vuole rivedere la storia nazionale con le lenti della razza, del sesso, delle differenze etniche». I repubblicani accusano l’Amministrazione Obama di incoraggiare un “revisionismo” che accentua gli aspetti negativi nella storia d’America. Il presidente stesso è finito nel mirino. La settimana scorsa il repubblicano Rudolph Giuliani ha rispolverato contro Obama l’accusa di essere «antiamericano, uno che non ama la sua patria, e del resto è cresciuto frequentando dei comunisti ».
Repubblica 24.2.15
Perché è pericoloso che la Mondadori controlli anche Rcs Libri
di Umberto Eco
IN Italia, la settimana scorsa circa 50 autori della casa editrice Bompiani (e di altre case editrici) hanno pubblicamente protestato per il ventilato acquisto da parte della Mondadori del gruppo Rcs. Cerchiamo di chiarirci le idee. Mondadori è certamente il più grande gruppo editoriale italiano (comprende per esempio anche case prestigiose come la Einaudi) e appartiene alla famiglia Berlusconi. La Rcs, ovvero Rizzoli-Corriere della Sera, è il secondo gruppo italiano e riunisce un grande quotidiano, varie altre pubblicazioni e soprattutto una serie di case editrici come Bompiani, Adelphi, Fabbri, Rizzoli, Archinto, Bur, Lizard, Marsilio, Sonzogno.
È questo pacchetto di case editrici che il consiglio di amministrazione della Rcs, per far fronte a un forte indebitamento, intenderebbe vendere a Mondadori. All’inizio si era parlato della nascita di un nuovo gruppo, nato dalla fusione del settore libri della Mondadori con quello della Rcs, ma ormai il progetto ha preso un’altra strada: si tratta di un acquisto di Rcs da parte di Mondadori.
Ora cerchiamo di dimenticare per un momento che la Mondadori è della famiglia Berlusconi — il che certamente aggiunge un tocco inquietante all’intera faccenda, poiché la famiglia Berlusconi verrebbe a dominare non solo il settore delle televisioni ma anche quello dell’editoria. Il problema resterebbe immutato, anche se il proprietario di Mondadori fosse anche un signor Bianchi qualsiasi. Bianchi o Berlusconi, Mondadori più Rcs verrebbe a costituire un colosso editoriale che dominerebbe il 40 per cento del mercato italiano (e che non ha pari nel panorama europeo). Perché gli autori dell’appello di cui si diceva all’inizio si sono dichiarati preoccupati?
È chiaro il potere che questa concentrazione assumerebbe in Italia. Visto che si troverebbe di fronte altri due gruppi di medie dimensioni, e una pletora di piccole case editrici (che talora sono indispensabili per la scoperta di nuovi autori), il nuovo colosso assumerebbe un preoccupante potere contrattuale nei confronti degli autori. Potrebbe dire «o vieni con noi, alle condizioni che noi proponiamo, o vai a finire nelle mani di un editore minore». Ma un gruppo potente al 40 per cento avrebbe una influenza determin ante sulle librerie e sarebbe capace di penalizzare gli editori minori. Quindi l’autore che non cede alle offerte del gruppo avrebbe minori possibilità di diffusione.
Inoltre si è osservato che la fusione renderebbe ridicoli i premi letterari. Il massimo premio letterario italiano (lo Strega) conta centinaia di elettori ma, ipocrisie a parte, tutti sanno che le case editrici possono controllare consistenti “pacchetti” di voti. Un gruppo monstre come quello di cui si parla potrebbe decidere ogni anno a chi vada lo Strega. E allora tanto varrebbe eliminare i premi letterari che varrebbero, agli occhi dei lettori non ingenui, come la pubblicità per far ricrescere i capelli.
Si deve ammettere che il gruppo Mondadori, pur appartenendo a Berlusconi, si è mostrato abbastanza liberale nei confronti delle case editrici che controlla, consentendo per esempio alla Einaudi di seguire le propria vocazione editoriale. Ma anche se Berlusconi fosse il più virtuoso dei padroni, niente esclude che un giorno possa vendere a un padrone meno virtuoso di lui (se l’idea non suona inverosimile) e il gruppo monstre potrebbe sviluppare una forte vocazione censoria. Insomma un gruppo talmente potente è una minaccia per la libertà di espressione. In termini di libero mercato è vero che spesso le concentrazioni sono economicamente inevitabili, ma il sistema rimane sano quando si attua ancora una concorrenza tra concentrazioni diverse. Ma quando esiste un gruppo più potente di tutti è la libera concorrenza che entra in crisi. E, sempre in termini di libero mercato, ridurre la concorrenza rischia sempre di ridurre la qualità.
Insomma gli autori (che messi tutti insieme sono le galline dalle uova d’oro delle case editrici) non sono contenti di quanto si sta minacciando. Naturalmente i giornali di destra hanno subito parlato di complotto “comunista” e di tentativo di mandare la Rcs al fallimento. È vero che la fusione con Mondadori appare oggi come la più facile da realizzare, ma nulla esclude che si possa formare una cordata di imprenditori, anche stranieri, capace di rilevare la cassaforte intellettuale della Rcs, costituendo così un gruppo autonomo.
L’avvenire è nel grembo di Allah, o di Dio, o del bosone di Higgs, ma certamente gli autori che hanno firmato l’appello (tra cui anche stranieri come Tahar Ben Jelloun, Hanif Kureishi e Thomas Piketty, e un grande editor americano come Drenka Willen) non sono tranquilli e chiedono ai loro lettori di non sentirsi tranquilli.
(Questo articolo di Umberto Eco sarà pubblicato su Le Monde )
Corriere 24.2.15
Storia di una partigiana medaglia d’oro
Un bandito di nome Rita
di Antonio Carioti
La finirono con uno sparo in testa, quando era già ferita e indifesa. Rita Rosani, l’unica donna medaglia d’oro della Resistenza uccisa in combattimento, era un’ebrea triestina, nata nel 1920 con il cognome originario Rosenzweig. Pare che, a commento della sua morte, l’ufficiale della Rsi che l’aveva uccisa abbia pronunciato la frase scelta da Livio Isaak Sirovich come titolo del libro dedicato a Rita: «Non era una donna, era un bandito» (Cierre, pp. 537, e 18). Parole che nell’intenzione di chi le pronunciò suonavano sprezzanti, ma oggi sono quasi un riconoscimento al coraggio della vittima.
Isaak Sirovich ha vagliato documenti privati, rapporti ufficiali, carte giudiziarie e ha sentito parecchi testimoni. La vicenda della protagonista scorre accanto a quella del suo fidanzato Jakob Nagler, detto Kubi, un altro ebreo di Trieste, che nel 1940 fu internato dal governo fascista e poi perì ad Auschwitz. Intanto Rita si era legata a Umberto Ricca, un ufficiale dell’esercito deciso a combattere i tedeschi, che lei seguì sulle montagne veronesi, dove trovò la morte il 17 settembre 1944.
Del suo omicidio fu accusato il sottotenente repubblichino Mario Scaroni, che però riuscì a cavarsela dopo una lunga vicenda processuale, che Isaak Sirovich ricostruisce con amarezza.
Repubblica 24.2.15
Addio al partigiano Claudio Cianca eroe della Resistenza
ROMA È morto Claudio Cianca, storico protagonista della Resistenza. Era nato nel 1913. Antifascista, con il padre Renato e con Leonardo Bucciglioni, la domenica del 25 giugno 1933 aveva fatto esplodere una bomba ad orologeria, progettata perché non arrecasse danni, nella basilica di San Pietro in Roma. Il gesto era rivolto contro la politica del Vaticano, accusato di favorire il regime fascista. Venne arrestato e condannato a 17 anni di reclusione. Liberato alla caduta del fascismo, Claudio Cianca partecipò alla Guerra di liberazione dirigendo nel Lazio formazioni partigiane, prima in quelle del movimento di “Giustizia e Libertà” e poi in quelle garibaldine. Nel corso della lotta armata aderì al Partito comunista che poi, nel 1953, lo candidò alla Camera dei deputati, della quale fece parte per più legislature oltre al suo impegno come sindacalista. Oggi alle 11 il saluto nella chiesa Valdese di Roma.