La Stampa 13.2.15
Mai così in basso. Al livello minimo dall’Unità d’Italia: è in coda ai paesi occidentali
L'Italia precipita al 73esimo posto nell'Index sulla libertà di stampa
Tra Moldavia e Nicaragua
di Mimmo Càndito
qui
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La Stampa 13.2.15
L’Italia si conta: mai così pochi bebè
L’Istat: è il record negativo dall’Unità d’Italia in poi. Meno figli anche tra gli stranieri
La ricerca avverte: “Il ricambio generazionale, di questo passo, non sarà sufficiente”
di Marco Sodano
Cinquemila
neonati in meno - nel 2014 sono arrivati 509 mila pargoli, la cifra più
bassa dall’Unità d’Italia in poi - e quattromila morti in meno, per un
totale di quasi 600 mila decessi. Per un altro anno (succede dal 2007)
l’Italia è in rosso dal punto di vista demografico. Il saldo tra nati e
morti è negativo se si contano solo gli italiani, in leggerissimo
aumento includendo gli stranieri residenti nel Paese. Dice l’Istat, che
ha raccolto i dati di previsione sull’andamento demografico del 2014,
che il tasso di natalità è «insufficiente a garantire il necessario
ricambio generazionale»: non ci saranno, un domani, abbastanza italiani.
Boom di coppie senza figli
D’altra
parte, un rapporto del Mulino dice che negli ultimi 10 anni le coppie
che non hanno avuto figli sono aumentate del 40%: l’Italia è il paese in
cui sono di più tra quelli europei. Tra le donne nate nel 1965 sono
quasi una su quattro, in Francia una su dieci.
È pur vero che
sull’altro piatto della bilancia l’Istat certifica un calo
«significativo della mortalità». S’è allungata la speranza di vita, 80,2
anni per gli uomini e 84,9 per le donne, che si confermano più longeve
anche se la distanza si assottiglia (4,7 anni). Il totale: siamo 60
milioni e 808 mila residenti, cifra che comprende 5 milioni e 73 mila
stranieri. I cittadini italiani sono sempre di meno - il loro numero
scende ormai da 19 anni - e sono circa 55 milioni e mezzo, 125 mila
unità meno del 2013.
Meno bimbi stranieri
I dati principali
confermano la tendenza degli anni scorsi, è in vece il primo anno che
scendono le nascite tra le mamme straniere, la fetta di popolazione che
fino a oggi ha collaborato più di tutte a tenere alto il livello
demografico: nel 2014 hanno garantito il 19% delle nascite. L’insieme
dei dati sui bebé arrivati nel corso dell’anno passato ci relega, come
al solito, in coda all’Europa: il numero medio di figli per ogni donna è
fermo a 1,39 (stesso livello del 2013), mentre la media dell’Unione
europea è 1,58. La media delle donne straniere che vivono in Italia,
invece, è 1,91 figli per una: hanno più fiducia nel futuro. Intanto, un
paese attanagliato dalla crisi (ma anche nel quale si studia sempre più a
lungo, e si resta più a lungo in casa con i genitori) sale l’età media
del parto, nel 2014 a 31 anni e mezzo.
Meno figli nel Sud
L’Istat
ha anche fatto i conti a livello regionale. Il record del tasso di
natalità è assegnato al Trentino Alto Adige: 9,9 nuovi nati ogni mille
abitanti. In Liguria si registrano invece il più alto tasso di mortalità
(13,2) e uno tra i più bassi per le nascite (6,9, peggio solo la
Sardegna con 7,1). Seconda regione per nuovi nati è la Campania (8,9).
Il tasso di crescita risulta positivo nel Nord e nel Centro (+1,3),
negativo nel Mezzogiorno (-1,1), la mamma del Sud circondata di bambini è
un altro mito al tramonto. Infine, un milione e 350 mila italiani hanno
cambiato residenza spostandosi nel Paese. Il Nord ha un flusso netto di
migranti interni di 1 ogni mille residenti, il Centro dello 0,9. Nel
Mezzogiorno è -2,1.
La Stampa 13.2.15
Nascite al minimo dai tempi dell’Unita d’Italia
Istat, sono 509mila i nuovi nati nel 2014, cinquemila in meno rispetto al 2013
Il numero medio di figli per donna è pari a 1,39, come nel 2013
L’età media del parto sale a 31,5 anni
qui
Salute Aduc 12.2.15
Italia. Fanalino di coda per uso contraccettivi
qui, segnalazione di Loredana Riccio
il Fatto 13.2.15
Pietà l’è morta
di Antonio Padellaro
Da
come si comportano e da ciò che dicono, abbiamo l’impressione che
Matteo Renzi, Angelino Alfano, Matteo Salvini (e molti altri ancora) non
abbiano ben chiaro cosa è accaduto e cosa purtroppo ancora accadrà sui
gommoni alla deriva nel Canale di Sicilia. A parte i pochissimi
sopravvissuti, i più fortunati sono morti per annegamento. Un’onda più
alta li ha trascinati nell’acqua gelata: ma se hanno avuto la forza di
lasciarsi andare, per loro è sopraggiunta quasi subito l’asfissia. È
andata peggio a chi cercava di resistere.
Aggrappato ai bordi
dell’imbarcazione o rannicchiato sul fondo. L’ipotermia è un processo
lungo che sale uno a uno tutti i gradini della sofferenza prima di
concludersi con la liberazione finale. Sferzata dal vento gelido e senza
adeguato riparo, la pelle comincia a ulcerarsi mentre il corpo è scosso
dai brividi. I movimenti si fanno lenti e affannosi, il viso è sempre
più pallido mentre labbra, orecchie, mani e piedi diventano blu. Chi
tenta di parlare lo fa con crescente difficoltà, le dita
s’irrigidiscono, la pelle si gonfia, la mente si annebbia, sopraggiunge
l’affanno mentre aumenta la frequenza cardiaca. Infine, a causa della
ridotta attività cellulare, il corpo richiederà più tempo per subire la
morte cerebrale. I più giovani avranno il tempo di ricordare i momenti
felici, i genitori, gli amori, tutto forse in quell’attimo racchiuso nel
tasto del cellulare che non avranno più la forza di premere. Quanti,
per non provare più quel rimpianto infinito, avranno implorato la fine?
Ora, se Renzi, Alfano e Salvini fossero capaci di moltiplicare questa
sofferenza per le 300 vittime di mercoledì e poi per le stragi infinite
che hanno trasformato il Mediterraneo nella tomba gigantesca che
sappiamo, si renderebbero conto di come le loro reazioni siano, oltreché
politicamente inadeguate, “umanamente” insopportabili. Grida vendetta
la fine di “Mare Nostrum” dettata da ragioni biecamente economiche come
se le vite di migliaia di persone, salvate grazie al prodigarsi degli
uomini della Marina Militare, avessero un prezzo (vero Alfano?). E che
dire di chi ha trasformato una grande tragedia umanitaria in uno slogan
da stampare sulle felpe (“Basta clandestini”) per fare il pieno dei voti
nel becero qualunquismo imperante (vero Salvini?). Lascia infine basiti
il tweet di Renzi: il solito cinico scaricabarile questa volta “sul
caos in Libia”, un modo per lavarsene le mani indegno di un capo di
governo. Di sceneggiate ne abbiamo viste abbastanza. Silvio Berlusconi
che, nel 1997, a Brindisi piange sulla strage del barcone speronato
dalla corvetta “Sibilla”, salvo poi – ritornato al governo – varare
leggi ancora più disumane. Ed Enrico Letta che oggi s’indigna, ma che
nell’ottobre 2013, a Lampedusa, s’inginocchiò davanti a centinaia di
bare scusandosi per le “inadempienze” insieme all’allora presidente
della Commissione europea José Manuel Barroso e all’immancabile Alfano.
Verrebbe da chiedere cosa abbiano realmente cambiato quelle lacrime.
Possibile che questa classe politica, eternamente inadempiente, non
riesca a elaborare concetti che vadano oltre i 140 caratteri? Possibile
che sulle lapidi di quei ragazzi morti di freddo non siano capaci di
scrivere una parola di pietà, ma solo gli scarabocchi delle loro
piccole, squallide beghe?
il Fatto 13.2.15
Lampedusa, torna la morte
risponde Furio Colombo
CARO
COLOMBO, apprezzerei molto se il primo gesto del nuovo presidente della
Repubblica fosse la medaglia d’oro al valore civile all’isola di
Lampedusa e a tutti i suoi abitanti che continuano a ricevere morti da
quando è finita (costava troppo!) l’operazione Mare Nostrum. E
apprezzerei ancora di più se il suo primo messaggio alle Camere fosse
sugli immigrati. Sono abbandonati in mare a morire di freddo, o
annegati, oppure senza il soccorso di un Paese che si ostina a occuparsi
di problemi che non esistono, come abolire il Senato. Mentre la guerra
in Ucraina e le decine di guerre in Africa e in Medio Oriente non sono
più notizie di “varia” nei telegiornali, sono tragedia quotidiana.
Vincenzo
CIÒ
CHE È ACCADUTO nel Mediterraneo in questi giorni, in queste ore, è una
serie di fatti che indigna e spaventa per la cupa mancanza di
comprensione di ciò che sta accadendo. Incomprensione italiana, e anche
opaca indifferenza europea, un insieme di Paesi che si chiamano Unione
ma scuotono solo se gli parli di banche e si eccitano ogni volta che
ri-diventa probabile il fallimento della Grecia. Come per le vittime
dell’Olocausto, che sono state portate via nel silenzio di tutti, non
risulta che vi sia stato un solo tentativo di spiegare al Parlamento
italiano perché, in questi giorni, e dopo l’esperienza di tanti tragici
naufragi, decine di persone siano state lasciate morire di fame e di
freddo davanti alle coste italiane. E centinaia sono scomparsi in mare
senza che nessuno denunciasse la strage. “La loro morte”, spiega il
disperato medico di Lampedusa davanti ai corpi assiderati, “è dovuta al
ritardo dei soccorsi. Tutti potevano essere salvati”. Mi domando se la
Procura competente non dovrebbe aprire un’inchiesta per omissione di
soccorso. Mi domando perché non abbiamo notizie di urgenti
interrogazioni parlamentari e di prese di posizione dei due presidenti
delle Camere. Mi domando perché abbiamo visto questo titolo, citazione
esatta della fonte governativa: “La linea dura del Viminale: interventi
solo in casi gravi, e nuovo via libera a Triton. Timori di un boom di
sbarchi” (Corriere della Sera, 10 febbraio). È stato il ministro
dell’Interno a dare questo annuncio, con burocratica indifferenza, in un
silenzio di morte. Intanto i telegiornali non avevano ancora smesso di
trasmettere la testimonianza angosciata del sindaco di Lampedusa, Giusi
Nicolini, e le immagini dei corpi raggiunti con tale ritardo e
trasportati con tale mancanza di protezione, che sono morti nel tragitto
della salvezza o tra le braccia di chi li prendeva, a terra. Soltanto
il Comitato Diritti Umani del Senato, presieduto da Luigi Manconi, si è
preoccupato di convocare il prefetto Morcone che dovrebbe coordinare
arrivi, salvataggi e smistamenti. Poi si è scoperta la morte di
centinaia in mare aperto. Ma il rapporto con l’Europa e l’ottuso
disinteresse di chiunque sia a capo di Frontex (l’agenzia europea
responsabile dei salvataggi) potrebbe cambiare in qualcosa di vero la
inutile e colpevole finzione dell’operazione Triton, in cui tutti gli
europei si sono uniti per stare fermi e lasciar morire. Non dovrebbe
l’Italia avere il coraggio di dire il suo ‘basta’ al finto aiuto che
protegge le coste ma lascia morire le persone? Non dovrebbe riattivare
subito Mare Nostrum e mettere il costo (obbligatorio perché è
salvataggio di vite umane) sul conto dell’Europa? Potrebbe essere una
buona occasione per dimostrare che noi italiani siamo affidabili nel
dare ma anche nell’avere. Non ditemi che Renzi non ha il coraggio, con
la sua giovane baldanza e la sua sfida ai sindacati sul Primo Maggio, di
proporre con fermezza il problema “prima di tutto le vite umane” ai
colleghi europei.
La Stampa 13.2.15
I 29 ragazzi uccisi dal gelo sul gommone della salvezza
Recuperati vivi, sono morti uno dopo l’altro nel viaggio di 20 ore verso l’Italia
Erano all’aperto e zuppi d’acqua. I soccorritori: “Sembrava che dormissero”
di Laura Anello
Per
loro, abituati a esaminare corpi mutilati, bruciati, gonfi d’acqua, il
compito questa volta è stato perfino più straziante. «Intatti, senza un
graffio, sembrava che dormissero. Ventinove ragazzi uccisi dal freddo».
Loro sono gli uomini del Gabinetto regionale della polizia scientifica,
appena rientrati a Palermo dopo avere esaminato i cadaveri dei migranti
assiderati nel viaggio di ritorno sul gommone della Guardia costiera di
Lampedusa che era andato a prenderli nel mare in tempesta. A oltre 120
miglia dall’isola e a un tiro di schioppo dalla costa libica.
Il mare in tempesta
Tirati
a bordo vivi, felici della morte scampata in mare, pronti a fare a
pugni per salire prima degli altri sulla motovedetta della salvezza. Una
barca di 27 metri, dove al coperto possono stare non più di dieci
uomini, diventata la loro tomba. Temperatura di 3 gradi, mare forza 8,
vento a 60 nodi, il mare che entrava dentro a ogni onda, nessun riparo
se non la temporanea ospitalità a turno nel vano della tolda di comando,
la coperta isotermica come un orpello inutile.
«Solo tre di loro
indossavano giubbotti - raccontano gli uomini della Scientifica - gli
altri avevano addosso tutto il guardaroba che possedevano, come fanno
sempre i migranti che non possono portare bagagli. Biancheria,
magliette, golf, pantaloni, uno strato sopra l’altro. Ai piedi al
massimo ciabatte. Tutto inzuppato d’acqua, abbiamo dovuto faticare per
togliere i vestiti ed esaminare i corpi alla ricerca di qualche elemento
utile per l’identificazione: una cicatrice, un segno particolare...».
Le tasche piene di biglietti
Ma
i 29 morti di freddo - tranne un ivoriano di 31 anni che aveva con sé
la carta d’identità ed è riuscito a salvare almeno il nome - avevano
addosso ben poco di particolare. Una sfilata di corpi intatti, qualcuno
con una mazzetta di euro nascosta nelle mutande, qualcun altro con un
biglietto con i numeri di telefono da chiamare all’arrivo.
I
soccorritori si sono resi conto solo all’arrivo che erano morti,
credevano che dormissero. Soccorritori che hanno messo in gioco la loro
stessa vita e hanno fatto rotta verso Lampedusa, con condizioni del mare
proibitive, nonostante la Libia fosse a poche miglia. Avrebbero potuto
chiedere al Comando generale l’autorizzazione a riparare nel porto più
vicino e restare alla fonda, come vuole la legge del mare. In un paio di
ore di navigazione si sarebbero messi tutti in salvo. E invece sono
tornati indietro, affrontando un viaggio di oltre 20 ore contro le sei
dell’andata. E con un motore mezzo in avaria.
La tragica scoperta
Sono
in tanti, sommessamente, con il rispetto dovuto a gente che ha
rischiato di morire, a dire che è stato un errore, mentre altri
sostengono che non ci fosse altra scelta: la Libia è un Paese nel caos,
senza più interlocutori affidabili. Salvatore Caputo, 66 anni,
infermiere volontario del Cisom, il corpo di soccorso dell’Ordine di
Malta, era a bordo di quella motovedetta.
«Siamo partiti verso le tre
del pomeriggio di domenica - racconta - dopo avere ricevuto l’allerta
dalla centrale operativa e siamo arrivati nei pressi del primo gommone
verso le otto e mezza di sera, con il vento che soffiava a 75 chilometri
orari e i naufraghi che si accalcavano e si calpestavano per salire a
bordo per primi. Dopo qualche ora, verso le 4-5 di mattina, il primo di
loro non ha retto al freddo e agli sforzi del viaggio ed è morto». Via
via, è toccato agli altri 28, nelle ore interminabili del viaggio verso
le coste italiane. «Solo una volta, arrivati a poche miglia dal porto di
Lampedusa - aggiunge Caputo - è stato possibile iniziare la conta dei
cadaveri. Siamo approdati lunedì pomeriggio, ho avuto una crisi di
pianto. Sono crollato, come molti vicino a me».
Le bare senza nome
Le
bare sono arrivate ieri a Porto Empedocle, accolte dal prefetto di
Agrigento Nicola Diomede. Saranno tumulate nei cimiteri del comprensorio
che hanno risposto all’appello della solidarietà. Dentro le bare i
ragazzi sono nudi, i loro vestiti laceri e duri come il cartone messi in
una busta al loro fianco: difficile perfino rivestirli dopo l’esame dei
cadaveri. Gli uomini della Scientifica hanno scattato fotografie, hanno
preso le impronte digitali, estratto il Dna, tolto e schedato i pochi
oggetti che avevano con sé. Reperti che saranno portati nel laboratorio
dell’antico palazzo in via San Lorenzo, periferia di Palermo, che ospita
il Gabinetto regionale della polizia. Accanto a quelli dei 366 morti
del 3 ottobre 2013, nel mare dell’Isola dei Conigli. Ancora in gran
parte fantasmi, senza nome né storia.
il Fatto 13.2.15
Bertone: “L’attico me l’ha dato Bergoglio...”
Lunga
intervista di Tarcisio Bertone ad Andrea Purgatori per Huffingon Post:
l’ex segretario di Stato vaticano ci tiene a chiarire un po’ di cose.
L’attico da 700 mq in cui vive ora in realtà misura meno della metà e
gli è stato “assegnato da Francesco”, che era d’accordo pure sulla
“segreteria personale”. Bertone sostiene poi di aver avuto “una
consultazione continua e fraterna” col Papa e di non essere affatto
stato “cacciato”: “Mi ha pure confermato per due anni come membro della
Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli”. Autodifesa completa
anche sullo Ior: “Non ero il padre padrone dell’Istituto, ma il
presidente della Commissione di vigilanza, e agivo di comune accordo con
i cardinali”, compreso monsignor Tauran - è la stilettata - cardinale
“bergogliano” che ha preso il suo posto come Camerlengo.
il Fatto 13.2.15
Fondi 8 per mille, perquisito l’ex vescovo di Trapani
AGENTI
della Guardia di Finanza hanno perquisito ieri sera a Monreale, alle
porte di Palermo, l’abitazione dell’ex vescovo di Trapani Francesco
Miccichè, al centro di altre indagini della Procura legate alla
sparizione di fondi della Curia e rimosso dalla Santa Sede per una serie
di irregolarità scoperte durante una ”visita apostolica”.
In questa
inchiesta l’alto prelato è indagato per appropriazione indebita
aggravata di fondi dell’8 per mille destinati alla Chiesa, una parte dei
quali erano gestiti dalla diocesi trapanese. L’ex vescovo, indagato in
concorso con un dipendente della curia arcivescovile, è al centro di
un’altra indagine, non collegata a questa, su un ammanco di oltre un
milione di euro nella fase di incorporazione della fondazione Auxilium
da parte di un’altra fondazione gestita dalla Curia: per questa indagine
i pm hanno chiesto due rogatorie in Vaticano per controllare due conti
sospetti presso lo Ior, l’Istituto Opere di Religione. Sull’esito della
perquisizione gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo.
g.l.b.
il Fatto 13.2.15
Il costituzionalista Alessandro Pace
“Camere ricattate. La Carta a rischio”
di Silvia Truzzi
Queste
riforme s’hanno da fare. A tutti i costi, nonostante il Nazareno rotto.
E se il premier ha tanta fretta di concludere, sul Corriere della Sera
ci pensa il professor Cassese a rassicurare gli italiani: non ci sono
tirannie all’orizzonte, la democrazia non corre pericoli. Molti
costituzionalisti, da tempo, hanno espresso più di un dubbio sull’esito
del combinato disposto tra Italicum e riforme costituzionali. Tra loro
c’è Alessandro Pace, emerito di diritto costituzionale alla Sapienza.
“Sono d’accordo con Sabino Cassese che la democrazia, per il momento,
non corre pericoli e che non è in atto una svolta autoritaria. Questo
però non significa che, a seguito del combinato disposto dell’Italicum e
della riforma costituzionale non vengano pregiudicati quei principi
supremi ai quali lo stesso Cassese si richiama”.
Allude al principio di rappresentanza?
Non
solo, ma a questo riguardo non posso non ricordare che nella sentenza
sul Porcellum la Corte costituzionale ha chiaramente sottolineato che le
ragioni della governabilità non devono prevalere su quelle della
rappresentatività. Ammesso pure che tale principio non sia violato
dall’Italicum - il che è discutibile date le circoscrizioni troppo
vaste, i capilista bloccati, le pluricandidature ecc. -, dovrebbe
sollevare più di una preoccupazione il fatto che l’Italicum conceda il
premio di maggioranza ad una sola lista e che la Camera dei deputati,
con i suoi 630 deputati, possa senza soverchia difficoltà ricoprire
tutte o quasi tutte le cariche istituzionali.
Qualche altra perplessità?
Ne
avrei molte, mi limito a tre di cui le prime due nessuno parla. Primo:
nel procedimento legislativo alla Camera dei deputati viene eliminato
del tutto il passaggio nelle commissioni in sede referente, tranne
alcune importanti materie previste nel primo comma dell’articolo 70.
Eppure è a tutti noto che nel dibattito in commissione sta il cuore del
processo legislativo. Secondo: il testo della Renzi-Boschi tace del
tutto a proposito dei diritti delle minoranze parlamentari, la cui
previsione viene invece demandata ai regolamenti delle Camere che
vengono approvati a maggioranza... Ma ciò che mi sembra soprattutto
sbagliato e pericoloso, è che, alla faccia dell’articolo 1 della nostra
Costituzione, i senatori non saranno eletti più dal popolo, ma dai così
detti “grandi elettori” che non sono altro che i consiglieri regionali.
In Francia, dove le elezioni indirette sono serie, i grandi elettori
sono 150 mila, mentre in Italia sarebbero poco più di mille. Un’altra
furbata, questa volta a favore delle consorterie locali! Eppure,
nonostante tutto, il Senato continuerebbe a partecipare al procedimento
di revisione costituzionale, a eleggere ben due giudici costituzionali e
a partecipare alla funzione legislativa in non poche materie di grande
importanza!
Siamo passati dalle riforme condivise con i due terzi del
Parlamento alle riforme - e gentile concessione del referendum - a una
riforma che alla fine sarà votata, al Senato, con voti raccogliticci.
Lei
parla di voti raccogliticci, ma non pensa che tutta la legislatura sia
stata, e sia, sotto “ricatto” del Premier, dal momento che la Corte
costituzionale l’aveva delegittimata avendo ritenuto incostituzionale il
Porcellum col quale era stata eletta? Con la conseguenza che le Camere
potrebbero essere sciolte se i parlamentari non si adeguano? Il
Parlamento viene convocato a tappe forzate: prima hanno contingentato i
tempi, adesso stanno provando a sfiancarli con sedute notturne. Perché
tanta fretta?
Perché Renzi sa bene che, per le ragioni appena dette, i
parlamentari “eletti” della futura legislatura potrebbero essere meno
docili di quelli “nominati” in questa.
La convince l’obiezione che la
sentenza con cui la Consulta ha dichiarato il Porcellum
incostituzionale, non crea problemi di legittimità al parlamento?
Sono
d’accordo col mio amico Sabino che la sentenza n. 1 del 2014 “non tocca
in alcun modo gli atti posti in essere” grazie al Porcellum, e che in
essa è scritto “che non sono riguardati gli atti che le Camere
adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali”, ma le
“nuove” consultazioni elettorali - secondo la sentenza della Corte (e
secondo logica) – avrebbero dovuto essere quelle conseguenti a
scioglimento anticipato, e non quelle di lì a quattro anni. Ovviamente è
sufficiente il buon senso, per rendersi conto che le Camere non possono
essere sciolte in forza dell’intervento di un ufficiale giudiziario che
ne esegua lo sfratto. Ma una cosa è riconoscere che non ci sono o non
ci sono state le condizioni politico-istituzionali per lo scioglimento,
altra cosa è trasformare una dichiarazione d’incostituzionalità in un
semplice “memorandum” per le forze politiche...
Berlusconi, dopo il
pentimento nazareno, si è detto preoccupato per una deriva autoritaria.
Alcuni suoi colleghi lo vanno dicendo da tempo...
A me non piace
parlare di deriva autoritaria: crea confusione con il regime di Pinochet
e dei colonnelli greci. Più semplicemente dico che quella di Renzi
sarebbe una svolta pericolosa perché elimina i contro-poteri, che non
sono le autorità indipendenti, i magistrati o la Commissione europea.
Sono i contro-poteri politici esterni come il Senato elettivo, e i
contropoteri politici interni, e cioè i poteri parlamentari delle
minoranze. Vi sarebbe invece il Partito della Nazione. Ebbene, più di
Pinochet, ho paura che la Camera possa somigliare alla fattoria degli
Animali.
Repubblica 13.2.15
Aut aut della minoranza Pd “Renzi dialoghi o sarà dissenso”
Il premier: “Non ci fermiamo”
Seduta-fiume e bagarre alla Camera. Ostruzionismo M5S
Boschi: “Noi andiamo avanti, l’obiettivo è cambiare l’Italia”
di G. C.
ROMA
Nottate di filibustering, la minaccia dei 5Stelle — poi rientrata — di
occupare l’aula, bagarre. A Montecitorio è caos sulla riforma
costituzionale, con le opposizioni sulle barricate e sedute-fiume
contestate dalla stessa minoranza del Pd. Il voto procede a singhiozzo.
Durante una pausa tecnica, prima di riprendere la notturna, il governo
cerca di trattare con Forza Italia e la Lega per contenere
l’ostruzionismo. Ma lo scontro tra il Pd e i 5Stelle è totale e il
compromesso su tre emendamenti dei grillini fallisce subito. Da
Bruxelles il premier Renzi bacchetta: «Stupisce chi ha idee in minoranza
e prova a fare ostruzionismo e tentativi di blocco. Ma la nostra
maggioranza non si blocca, bello e positivo che lavori anche di notte».
Al
clima di ostruzionismo si somma però l’aut aut della sinistra dem che
chiede più «flessibilità»: «Abbiamo chiesto poche modifiche e ci è stato
risposto di no. O c’è maggiore flessibilità oppure ciascuno sarà libero
al momento del voto». I “niet” del ministro Maria Elena Boschi devono
cadere, questa è una rigidità — accusa il bersaniano Alfredo D’Attorre —
che dopo la fine del Patto del Nazareno suona «incomprensibile e
comica». E Pier Luigi Bersani insiste perché sia inserita la norma
transitoria che permetta un giudizio preventivo della Consulta
sull’Italicum. Un emendamento su cui c’era il veto di Forza Italia, che
però ora si è sottratta al Patto. «Con un po’ di buonsenso — rincara
l’ex segretario — si possono approvare modifiche come questa. Se il
governo si impunterà sul “no” alla richiesta di abbassare il quorum del
30% dei deputati per il ricorso, sarà solo per motivi politici, perché
non c’è altra ragione». Il governo non intende sottostare a ricatti e
veti. Il ministro Boschi annuncia: «Noi andiamo avanti senza farci
bloccare, il nostro obiettivo è cambiare l’Italia». La lunghissima
giornata parlamentare prosegue tra ostruzionismo e trattative. In
mattinata a inizio seduta manca il numero legale, e la presidente
Boldrini si irrita e osserva che «se i gruppi parlamentari di
maggioranza pretendono che l’aula lavori a ritmi serrati e con sedute
molto lunghe, devono essere in grado di garantire il numero legale».
Stefano Fassina denuncia: «Andare avanti a tappe forzate è un problema,
bisogna prendere atto che il Nazareno non c’è più. Invece ci si rifiuta
di affrontare le conseguenze politiche».
il Fatto 13.2.15
Riforme, la seduta è fiume, ma il governo non ha i numeri
Risse fretta e nervosismo a Montecitorio
di Wanda Marra
Da
seduta fiume a seduta palude. Ora Renzi è in un mare di guai”. La
definizione-flash (affidata ovviamente a Twitter) è di Renato Brunetta.
Il Parlamento che vota la grande riforma costituzionale offre uno
spettacolo decisamente sconsolante e sconsolato. Mercoledì notte sono
volati i faldoni. Ieri la giornata è andata avanti tra ostruzionismo e
sfilacciamento. D’altra parte la “seduta fiume” concepisce solo “pause
tecniche”. Anche per dormire.
IL PATTO del Nazareno ufficialmente è
morto, ma pure ufficiosamente non sta tanto bene, ieri è fallita la
mediazione del Pd con i Cinque Stelle, che non hanno ritirato gli
emendamenti, dopo aver provato a strappare l’eliminazione del quorum per
i referendum, abrogativi e confermativi. Come non l’ha fatto Sel. Alla
Camera, il governo Renzi per approvare le riforme a colpi di maggioranza
i numeri ce li ha. E allora, procede a testate, imponendo ritmi
serratissimi e di fatto nessuna vera discussione sul merito. “Qui c’è
una gestione assurda, c’è un nervosismo assoluto. E mica lo sappiamo se
riusciamo a chiudere per sabato”, si sfoga un piddino. Renzi vuole
finire, arrivare, esibire lo scalpo. E soprattutto, evitare trattative e
problemi. Quindi si va avanti. Poi, come spiegano i suoi, si lascia
decantare tutto e si va al voto finale l’11 marzo. Battute renziane:
“Certo, ci diranno che stiamo uccidendo la Costituzione. Ma ce lo
direbbero comunque”. Sembra di rivedere lo spettacolo di Palazzo Madama,
che la prima lettura delle riforme l’ha votata prima della pausa
estiva, con il premier pronto a minacciare la cancellazione delle ferie e
il presidente del Senato, Pietro Grasso, caldamente invitato a
procedere con il “canguro” (un cavillo tecnico per far fuori gli
emendamenti, non consentito dal regolamento di Montecitorio).
Il
nervosismo, anche da parte di chi è tenuto a dire che va tutto bene, è
palese e si legge nei visi gonfi di sonno. E poi, dopo Montecitorio, si
torna a Palazzo Madama. “C’è tempo”, getta acqua sul fuoco il vice
segretario dem, Lorenzo Guerini. La realtà è che nessuno a questo punto è
pronto a scommettere sui numeri di Palazzo Madama, dove sulla carta la
maggioranza può contare su soli 11 voti di scarto. C’è l’operazione
responsabili o in qualsiasi modo si voglia chiamare. Ma certo,
raccogliendo un voto di qua e uno di là, litigando con la minoranza Pd,
riducendo al silenzio nel partito chiunque voglia dire la sua, umiliando
costantemente Ncd, non è esattamente facile riformare la Carta.
Altro
che le grandi riforme condivise, che sarebbero passate per due terzi,
senza neanche il bisogno del referendum confermativo (previsto rispetto a
un voto a maggioranza). “Ce la facciamo, ce la facciamo. Poi, i decreti
li approviamo con fiducia”, confessa un renziano del cerchio stretto.
Sarà. Ma intanto, visto che a ogni giorno basta il suo affanno, quello
di ieri non è piccola cosa. Anche perché il Pd è costretto a essere
compatto. E compatto non è. Con la minoranza che reclama un gruppo dei
componenti della Prima Commissione per capire su quali emendamenti il
governo darà parere contrario.
I punti in gioco sono due: la
richiesta di abbassare il quorum del referendum confermativo e
l’inserimento di una norma transitoria che permetta un giudizio
preventivo della Corte costituzionale sull'Italicum, se richiesto dal 30
per cento dei deputati.
La linea del ministro Boschi è di apportare
il minor numero di modifiche al testo licenziato dal Senato, nella
speranza che questo poi confermi quanto deciso dalla Camera in questa
lettura. Speranza che per ora nessuno sa quanto ben riposta: oggi Fitto
potrebbe fare una conferenza stampa per sfidare pubblicamente Berlusconi
a dire no alle riforme. E poi, c’è il passaggio Italicum, che deve
tornare alla Camera, con la minoranza dem sul piede di guerra per
ottenere modifiche (e la delega fiscale congelata, nella speranza di
persuadere B.). Certo, finora il ricatto elezioni ha funzionato. Ma fino
a quando si tiene un quadro così logorato? E fino a quando conviene
allo stesso Renzi tenerlo?
“LE CHIEDO la motivazione, perché stiamo
lavorando a questo modo - così si rivolge il deputato M5S Riccardo
Fraccaro a Marina Sereni - se è perché Renzi ha detto che le riforme
dovevano essere approvate in una certa data, allora lei dovrebbe
dimettersi”. Di carne al fuoco ce n’è molta. E la notte è lunga.
La Stampa 13.2.15
Le difficoltà senza la doppia maggioranza
di Marcello Sorgi
Dopo
un altro giorno e un’altra notte di scontri in aula, la riforma del
Senato a Montecitorio è entrata in dirittura d’arrivo, ma il voto finale
(il secondo, ne occorrono altri due) avverrà in un clima molto pesante.
Lo spostamento di FI all’opposizione ha reso l’ostruzionismo ancora più
duro e ha convinto il governo a chiedere la seduta-fiume, per arrivare
egualmente alla conclusione del dibattito in tempi certi. Ma di ora in
ora il comportamento dei gruppi che si oppongono alla riforma in aula è
peggiorato. In questo quadro il Pd ha tentato ieri un aggancio con il
M5S, per verificare se ci fossero le condizioni per un ammorbidimento
dell’ostruzionismo in cambio dell’accoglienza di alcune delle modifiche
chieste dai grillini. Tentativo fallito, dato che M5S insisteva per
introdurre un referendum consultivo sulla modifica della Costituzione,
che il Pd non voleva accettare. Lo scontro è così ripreso peggio di
prima, con il Movimento 5 stelle che paragonava il premier nientemeno
che a Hitler, mentre anche la minoranza interna Pd provava a far valere
le sue ragioni.
Ma l’idea che Renzi, privo del soccorso azzurro di
Berlusconi, si rivelasse più disponibile, anche in nome dell’unità
ritrovata dal suo partito nell’elezione del Presidente della Repubblica,
s’è rivelata presto un’illusione. Il braccio di ferro tra il governo
presieduto dal leader del Pd e la sua minoranza è andato avanti per ore
sull’ipotesi di sottoporre il testo della riforma al vaglio della
Consulta, riducendo il limite del numero dei deputati che sarebbero
necessari per chiedere l’intervento della Corte costituzionale, o
addirittura abolendolo: su questo punto, come su altri, Renzi ha tenuto
duro e esponenti della minoranza come D’Attorre e Zoggia hanno a lungo
protestato. In un modo o nell’altro la riforma dovrebbe arrivare al
traguardo entro domani, o al più tardi domenica, dato che la prossima
settimana la Camera è impegnata con l’esame di alcuni decreti urgenti.
Ma il bilancio di questa settimana di guerriglia per Renzi non è
positivo. Sebbene sia evidente che gran parte degli attacchi delle
opposizioni sono legati alla campagna elettorale per le regionali ormai
in corso, viene fuori che è molto complicato governare con una sola
maggioranza, anziché due, com’era avvenuto per tutto il periodo in cui
il patto del Nazareno era in vigore. Le pretese della minoranza interna
Pd, che fino a qualche giorno fa venivano aggirate grazie ai voti
parlamentari messi a disposizione da Berlusconi, ora devono essere messe
in conto. Anche se Renzi, lo si è visto anche ieri, non ha alcuna
intenzione di cedere, e i suoi oppositori interni hanno dovuto prenderne
atto.
Corriere 13.2.15
La fine del Patto mette in luce anche i problemi di Palazzo Chigi
di Massimo Franco
Era
inevitabile che i toni delle opposizioni crescessero contro il governo.
Il fallimento di una mediazione tra Pd e Movimento 5 stelle, tentata
ieri, e la rottura del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio
Berlusconi non potevano non avere conseguenze parlamentari. Il fatto che
FI arrivi a chiedere l’intervento del capo dello Stato, Sergio
Mattarella, perché richiami Palazzo Chigi a trattare in modo più
corretto il Parlamento, si iscrive in questo clima di tensione e di
guerriglia politica. Eppure non è facile liquidare quanto sta accadendo
come una polemica fisiologica.
L’impressione è che i fattori di
incertezza e la tensione stiano crescendo nella stessa maggioranza. Per
paradosso, la fine dell’intesa con Berlusconi non ha messo a nudo solo
le magagne dell’ex Cavaliere e del suo partito. Sta sottolineando anche
le contraddizioni irrisolte del Pd, e i problemi dell’esecutivo con il
Parlamento. Il patto del Nazareno «proteggeva» le esigenze
berlusconiane. Ma una volta disdetto o comunque congelato, la domanda è
se per caso non fornisse una copertura politica anche a Renzi; se non
gli consentisse di far passare alcuni provvedimenti e di additare alcune
priorità, giustificandoli con l’esigenza di non spezzare l’asse
istituzionale con FI.
Dunque, è vero che il centrodestra sembra
andare alla deriva, verso un’opposizione subalterna alla Lega di Matteo
Salvini e con una leadership contestata. Lo stesso Pd, però, è in
sofferenza. Quando la minoranza chiede più tempo su riforme
costituzionali e sistema elettorale, lo fa partendo dal presupposto che
non c’è più l’intesa con Berlusconi a impedirlo. La risposta renziana,
tuttavia, non si discosta da quelle che venivano date «prima». Dunque,
l’indicazione ai gruppi parlamentari è di procedere come se nulla fosse
accaduto, ratificando agli accordi già raggiunti. Ma questo lascia
prevedere sedute-fiume vissute come forzature; e polemiche tra i poteri
dello Stato. Se si aggiungono i veleni che lambiscono Palazzo Chigi
sulle speculazioni finanziare legate alla riforma delle maggiori banche
popolari, e il rinvio a maggio del decreto sulle frodi fiscali, emerge
uno sfondo di grande precarietà: come se il successo di Renzi
sull’elezione di Mattarella fosse un ricordo. In realtà, il premier
ritiene di avere tuttora un controllo ferreo della situazione; e di
poter condurre i giochi parlamentari e di governo, conoscendo la
debolezza di alleati e avversari e il loro timore di una fine anticipata
della legislatura. Gli aut aut alla Camera nascono da questa sicurezza,
che sembra proiettarsi anche sul piano internazionale. È stato notato
che a differenza di quanto avveniva con Giorgio Napolitano, Renzi non ha
ritenuto di consultarsi con Mattarella prima di andare a Bruxelles per
il vertice europeo. Ma forse è solo perché i rapporti sono in fase di
rodaggio.
il Fatto 13.2.15
Primarie in vista
Nel Pd parte la moltiplicazione delle tessere
di Enrico Fierro
Da
seduta fiume a seduta palude. Ora Renzi è in un mare di guai”. La
definizione-flash (affidata ovviamente a Twitter) è di Renato Brunetta.
Il Parlamento che vota la grande riforma costituzionale offre uno
spettacolo decisamente sconsolante e sconsolato. Mercoledì notte sono
volati i faldoni. Ieri la giornata è andata avanti tra ostruzionismo e
sfilacciamento. D’altra parte la “seduta fiume” concepisce solo “pause
tecniche”. Anche per dormire.
IL PATTO del Nazareno ufficialmente è
morto, ma pure ufficiosamente non sta tanto bene, ieri è fallita la
mediazione del Pd con i Cinque Stelle, che non hanno ritirato gli
emendamenti, dopo aver provato a strappare l’eliminazione del quorum per
i referendum, abrogativi e confermativi. Come non l’ha fatto Sel. Alla
Camera, il governo Renzi per approvare le riforme a colpi di maggioranza
i numeri ce li ha. E allora, procede a testate, imponendo ritmi
serratissimi e di fatto nessuna vera discussione sul merito. “Qui c’è
una gestione assurda, c’è un nervosismo assoluto. E mica lo sappiamo se
riusciamo a chiudere per sabato”, si sfoga un piddino. Renzi vuole
finire, arrivare, esibire lo scalpo. E soprattutto, evitare trattative e
problemi. Quindi si va avanti. Poi, come spiegano i suoi, si lascia
decantare tutto e si va al voto finale l’11 marzo. Battute renziane:
“Certo, ci diranno che stiamo uccidendo la Costituzione. Ma ce lo
direbbero comunque”. Sembra di rivedere lo spettacolo di Palazzo Madama,
che la prima lettura delle riforme l’ha votata prima della pausa
estiva, con il premier pronto a minacciare la cancellazione delle ferie e
il presidente del Senato, Pietro Grasso, caldamente invitato a
procedere con il “canguro” (un cavillo tecnico per far fuori gli
emendamenti, non consentito dal regolamento di Montecitorio).
Il
nervosismo, anche da parte di chi è tenuto a dire che va tutto bene, è
palese e si legge nei visi gonfi di sonno. E poi, dopo Montecitorio, si
torna a Palazzo Madama. “C’è tempo”, getta acqua sul fuoco il vice
segretario dem, Lorenzo Guerini. La realtà è che nessuno a questo punto è
pronto a scommettere sui numeri di Palazzo Madama, dove sulla carta la
maggioranza può contare su soli 11 voti di scarto. C’è l’operazione
responsabili o in qualsiasi modo si voglia chiamare. Ma certo,
raccogliendo un voto di qua e uno di là, litigando con la minoranza Pd,
riducendo al silenzio nel partito chiunque voglia dire la sua, umiliando
costantemente Ncd, non è esattamente facile riformare la Carta.
Altro
che le grandi riforme condivise, che sarebbero passate per due terzi,
senza neanche il bisogno del referendum confermativo (previsto rispetto a
un voto a maggioranza). “Ce la facciamo, ce la facciamo. Poi, i decreti
li approviamo con fiducia”, confessa un renziano del cerchio stretto.
Sarà. Ma intanto, visto che a ogni giorno basta il suo affanno, quello
di ieri non è piccola cosa. Anche perché il Pd è costretto a essere
compatto. E compatto non è. Con la minoranza che reclama un gruppo dei
componenti della Prima Commissione per capire su quali emendamenti il
governo darà parere contrario.
I punti in gioco sono due: la
richiesta di abbassare il quorum del referendum confermativo e
l’inserimento di una norma transitoria che permetta un giudizio
preventivo della Corte costituzionale sull'Italicum, se richiesto dal 30
per cento dei deputati.
La linea del ministro Boschi è di apportare
il minor numero di modifiche al testo licenziato dal Senato, nella
speranza che questo poi confermi quanto deciso dalla Camera in questa
lettura. Speranza che per ora nessuno sa quanto ben riposta: oggi Fitto
potrebbe fare una conferenza stampa per sfidare pubblicamente Berlusconi
a dire no alle riforme. E poi, c’è il passaggio Italicum, che deve
tornare alla Camera, con la minoranza dem sul piede di guerra per
ottenere modifiche (e la delega fiscale congelata, nella speranza di
persuadere B.). Certo, finora il ricatto elezioni ha funzionato. Ma fino
a quando si tiene un quadro così logorato? E fino a quando conviene
allo stesso Renzi tenerlo?
“LE CHIEDO la motivazione, perché stiamo
lavorando a questo modo - così si rivolge il deputato M5S Riccardo
Frac-caro a Marina Sereni - se è perché Renzi ha detto che le riforme
dovevano essere approvate in una certa data, allora lei dovrebbe
dimettersi”. Di carne al fuoco ce n’è molta. E la notte è lunga.
Corriere 13.2.15
Alle urne tra sgambetti e ipocrisie
Le chance pd nel caos Campania
Le primarie infinite e l’idea di evitarle. Ncd sospesa tra Caldoro e i dem
Ebbene
sì. Francesco Nicodemo e Pina Picierno aspettano un bambino. Le
cronache dettagliano. Lui è nello staff del premier per la
comunicazione, lei è l’europarlamentare Pd che porta scompiglio nei talk
show. Figure emergenti del nuovo corso renziano, quest’estate hanno
provato ad animare l’Acciaieria: un’assemblea stile Leopolda convocata a
Bagnoli, dove un tempo svettavano gli altiforni dell’Italsider, con
l’intenzione di forgiare il candidato democrat alle regionali campane.
Se fossero riusciti nell’intento, avrebbero rottamato davvero la storia
della sinistra campana, la storia dei Bassolino e dei De Luca, dei
sindaci di Napoli e di Salerno diventati padroni assoluti delle
rispettive città e poi concorrenti irriducibili nello stesso partito.
Questa
storia, fatta di contrasti, sgambetti e ipocrisie, è dura a morire: ha
lasciato sul campo grandi opere e un’economia debole, molto orgoglio e
tanto provincialismo. Tant’è che alla Regione è poi arrivato il
berlusconiano Caldoro. Con una sinistra così, ancora in bilico tra
figure mitiche e signori delle tessere, il tentativo di Nicodemo e
Picierno non poteva che fallire. Nel frattempo, è nata la loro storia
d’amore. E da quella storia un bambino, concepito quasi a chiudere il
cerchio di una metafora perfetta: prende corpo il progetto di coppia,
sfuma quello collettivo.
In sofferenza non è solo il Pd. Proprio a
Bagnoli, sono ormai quattro mesi che Il governo non riesce a nominare un
commissario per la bonifica e il rilancio dell’area. Più in là, al
porto, sono anni che manca un presidente per attivare 184 milioni di
finanziamenti. La cicogna renziana è dunque in volo. Ma a Napoli il
renzismo difetta di decisionismo, nonché di nuova classe dirigente. E
ancora manca il candidato ideale per le regionali.
Caldoro ha dalla
sua il risanamento dei conti pubblici, ma è attualmente coinvolto in
beghe di nomine e concorsi sotto inchiesta che ne offuscano l’immagine.
Il suo partito, che cinque anni fa era potentissimo, ora è 12 punti in
percentuale sotto al Pd, almeno secondo il dato delle Europee. Scontata
la pena e ormai in odore di riconquistata libertà di azione, Berlusconi
infonde ottimismo e promette rimonte. «Il 9 marzo terrò a Napoli la mia
prima manifestazione pubblica», annuncia. Ma basterà una rimpatriata? Di
sicuro basta a Caldoro. Lui, solitamente sobrio, è arrivato addirittura
ad autodefinirsi «il miglior governatore d’Italia».
Ciò nonostante
Renzi sa bene che la Campania potrebbe essere strappata all’avversario.
Nonostante le liste di disturbo a sinistra, come quella di de Magistris,
sindaco di Napoli, formalmente coordinata dal fratello e furbescamente
chiamata Dema, democrazia e autonomia. O l’incombente presenza dei 5
Stelle, qui guidati dai giovani Luigi Di Maio e Roberto Fico. Ma allo
stesso tempo Renzi non sa più dove sbattere la testa per trovare il
candidato giusto. A distanza di mesi, e con le primarie rinviate già tre
volte, si ritrova infatti con un numero crescente di aspiranti
governatori. Nessuno convincente. Ogni volta che invia i suoi emissari
per rimescolare le carte, inoltre, questi ritornano a Roma con una lista
di candidati ancora più lunga. Così Guerini. Così Lotti. A Napoli tutti
falliscono. In principio i candidati erano Cozzolino e De Luca: guarda
caso un bassoliniano e un deluchiano che più di De Luca stesso non si
può. Ora sono cinque: si sono aggiunti il socialista Di Lello, il
dipietrista Di Nardo e l’ex vendoliano Migliore. E non è finita.
Da
Roma comincia a farsi strada anche Gino Nicolais, presidente del Cnr,
già assessore regionale con Bassolino, poi in rotta con lui e consulente
scientifico di Vendola in Puglia, quindi ministro all’innovazione di
Prodi su segnalazione di Fassino, e sempre veltroniano. Perché lui?
Perché dopo aver provato con il solito magistrato, col noto giornalista e
con il giovane accademico in carriera, e dopo aver ricevuto da tutti,
spaventati dalle guerre intestine e dall’assenza di una regia forte, una
serie di lusingati «no grazie», Nicolais potrebbe essere l’unica
soluzione possibile. L’uomo giusto, cioè, per convincere il decisivo
Alfano ad abbandonare Caldoro. Ma il problema è che Alfano ha Berlusconi
che lo tira per l’altra manica. Deve decidere: ancora con Caldoro,
sapendo che il clima elettorale non è più quello di 5 anni fa, e dunque
rischiando; o con Renzi, in coerenza con l’alleanza di governo? In
entrambi i casi ci sono pro e contro. Ma altra cosa sarebbe se l’offerta
di Renzi si spingesse fino a rinunciare alla candidatura Pd. A quel
punto, Alfano avrebbe già una rosa: l’ex ministra De Girolamo, il
parlamentare Calabrò e il coordinatore nazionale Quagliariello. Di
quest’ultimo, appena il nome è circolato, si è letta la seguente
dichiarazione: «Ho altro da fare: devo sostituire Benitez». Ma vale come
smentita? Vale se fatta da chi si definisce tifoso del Napoli anche sul
profilo Twitter? Lo sapremo presto.
Affari Italiani 13.2.15
L’Unità, tutto da rifare: Veneziani deve riformulare l’offerta
di Carlo Patrignani
qui
il Fatto 13.2.15
Maxxi premio, la Melandri ha già incassato 24mila euro
di Marco Lillo
Giovanna
Melandri non ha detto tutta la verità sullo stipendio ricevuto dal
Ma-xxi per il 2013. Il ministro il 21 novembre del 2013, dopo che i
giornali pubblicarono la notizia che sarebbe stata pagata dal Maxxi per
il suo ruolo di presidente, disse al Messaggero: “Avrò uno stipendio
sobrio: guadagnerò 45 mila euro netti all’anno”.
Il consiglio di
amministrazione della Fondazione Maxxi, di cui Giovanna Melandri è
presidente aveva approvato solo due settimane prima, il 6 novembre 2013
una delibera che non solo concedeva al presidente uno stipendio fisso di
91 mila e 500 euro lordi (più di 45 mila euro netti) ma anche un premio
di produzione variabile. La delibera non è mai stata pubblicata sul
sito e la notizia di questo premio è stata divulgata dal Fatto il 24
dicembre del 2014. In quell’articolo però, ingenuamente, scrivevamo che
Giovanna Melandri avrebbe preso il premio a partire da quest’anno per
l’eventuale aumento nel 2014 degli incassi dei biglietti e degli altri
proventi e contributi.
POICHÉ la delibera portava la data del 6
novembre 2013, ci sembrava ovvio che il presidente Melandri avrebbe
atteso l’anno 2014 per far scattare il meccanismo. Invece ci
sbagliavamo. Giovanna Melandri è già passata all’incasso. La Fondazione
Maxxi è un soggetto formalmente privato ma gestisce in gran parte soldi
pubblici e non dovrebbe attribuire un premio di produttività al suo
presidente a novembre 2013 per il periodo gennaio-dicembre dello stesso
anno. Qualcuno potrebbe sospettare infatti che, a 55 giorni dalla fine
dell’anno, l’ammontare delle voci prescelte dal consiglio per premiare
il suo presidente fosse già prevedibile.
Giovanna Melandri ha
incassato 24 mila euro per il 2013, quasi il bonus massimo previsto.
Nella delibera del 6 novembre del consiglio di amministrazione
presieduto da Giovanna Melandri (che si astiene) si prevede oltre al
compenso fisso di 91 mila e 500 euro lordi “un ulteriore ammontare quale
componente variabile (premio) da determinarsi in ‘misura fissa’ come
sintetizzato nella tabella che segue”. Il bonus in questo caso è al
netto delle tasse ed è in funzione dell’incremento “rispetto al
precedente esercizio della sommatoria delle voci di proventi quali: I)
biglietteria; II) Contributi di gestione; III) Sponsorizzazioni; IV)
Altri ricavi e proventi”. Segue la tabella: se l’incremento va dal 5 al
15 per cento, il premio è di 12 mila euro (netti) se raggiunge la
forchetta 15-20 arriva a 18 mila euro; se si pone tra il 25 e il 30 per
cento il presidente prende un premio di 24 mila euro nette. Esattamente
quello che Giovanna Melandri ha incassato. Quasi il massimo. Solo se
l’incremento delle quattro voci avesse sfondato il tetto del 30 per
cento, il premio sarebbe stato “quanto deliberato dal Cda”.
Come ha
fatto Giovanna Melandri a ottenere questi risultati? Sul bilancio 2013
della Fondazione Maxxi si scopre che i proventi da biglietti sono scesi
nel 2013 nella gestione Melandri dai 912 mila euro del 2012 a 905 mila
euro. La voce ‘altri ricavi e proventi’ è invece salita da 2 milioni e
50 mila euro del 2012 a 2 milioni e 238 mila euro del 2013, comunque un
incremento inferiore al 10 per cento e ben lontano dalla forchetta 25-30
che fa scattare il premio da 24 mila euro. Le sponsorizzazioni nella
relazione del bilancio 2012 sono valorizzate 985 mila euro mentre nel
2013 con Giovanna Melandri salgono a 1 milione 216 mila euro. Infine la
voce ‘contributi di gestione’ sale da 3 milioni e 972 mila euro a 4
milioni e 786 mila euro, un incremento che si aggira sul 20 per cento. A
leggere la delibera e il bilancio si ha la netta sensazione che i
contributi di gestione siano stati determinanti per l’incremento e
quindi per il premio. I contributi di gestione, secondo la relazione al
bilancio, sono quelli pagati dal Ministero dei beni culturali per 4
milioni e 286 mila euro e dalla Regione Lazio: mezzo milione. Se fosse
così, Giovanna Melandri avrebbe preso il premio grazie alla generosità
del ministero e della Regione, non grazie alla sua abilità (che pure
emerge dal bilancio) nel reperire fondi privati per il Maxxi.
Al
Fatto però Giovanna Melandri replica: “il premio approvato dal cda è
collegato unicamente agli incrementi di risorse private che siamo stati
capaci di raccogliere, quali sponsorizzazioni, cena di Fund raising, il
programma di individual and Corpo-rate Friends”. Dunque il premio
sarebbe stato connesso a un’altra voce, indeterminata e non evidente nel
bilancio, invece che alla voce indicata nella delibera del 6 novembre:
‘contributi di gestione’. Ci sarebbe quindi una delibera firmata
Melandri del 6 novembre 2013 che indica un parametro (i contributi dello
Stato) presente nel bilancio firmato da Melandri per attribuire un
premio a Giovanna Melandri. Che dice di avere preso a riferimento un
parametro diverso per il suo premio. Comunque, alla fine della fiera,
quanto guadagna Giovanna Melandri?
IL FISSO di 91 mila e 500 lordi
dovrebbe essere pari a un reddito annuo netto superiore ai 45 mila euro
di cui il presidente del Maxxi ha parlato nelle interviste. Nel 2013,
per esempio, Giovanna Melandri dichiarava un reddito imponibile di 75
mila euro lordi e pagava un’imposta lorda di 25 mila euro per un netto
di 50 mila euro. Il reddito lordo superiore di 91 mila e 500 euro
previsto nella delibera dovrebbe portarle in tasca molto più dei 45 mila
euro dichiarati a cui si aggiungono i 24 mila di cui non ha mai detto
nulla a nessuno. Alla fine lo stipendio mensile, tra parte variabile e
parte fissa, dovrebbe superare i 6 mila euro al mese. Comunque meno
dello stipendio di parlamentare. Il 19 ottobre del 2012 Melandri si
dimise da deputato per dirigere la Fondazione del museo di arte
contemporanea. Se non avesse detto: “Prenderò 90 euro all’anno” allora e
se avesse detto oggi: “guadagno un fisso di 50 mila e un variabile di
24 mila euro netti”, nessuno avrebbe avuto motivo di contestarle il suo
Maxxi stipendio e Maxxi premio.
il Fatto 13.2.15
Di Stefano (M5S): ”Pd nazisti del XXI secolo”
“QUESTO
PD versione Matteo Renzi è la rappresentazione del nazismo formato XXI
secolo!”. Lo scrive su Facebook il deputato del M5S Manlio Di Stefano,
facendo il punto sulle riforme in discussione a Montecitorio. “Giusto
per chiarire - scrive Di Stefano, che posta un fotomontaggio con Benito
Mussolino con la spilletta del Pd sul petto - Dopo un’estenuante
battaglia, udite bene, per poter dialogare sulle riforme costituzionali
dato che il Pd non accetta nemmeno confronto, siamo arrivati a chiedere
una sola modifica a fronte delle 2.000 che avevamo presentato. Chiediamo
una cosa che era, addirittura , nel programma elettorale del Pd ovvero
il referendum propositivo senza quorum. La risposta del Pd? Nein!
Nemmeno Mussolini fece tanto”. Ribatte il relatore del Pd Emanuele
Fiano: “Avere un’insalata russa in testa invece che storia diventa un
pericolo per tutti quando sei un legislatore”.
il Fatto 13.2.15
Il Pd salva la Chil, l'azienda di Tiziano Renzi
di Dav.Ve.
L'aula
del consiglio regionale della Toscana ha bocciato la risoluzione
proposta dall'opposizione per impegnare la giunta guidata da Enrico
Rossi ad attivarsi anche in sede legale per recuperare “le somme
irregolarmente riscosse” da Chil Post, l'azienda del padre di Matteo
Renzi, nella quale il premier è stato dirigente per dieci anni, dal 2004
al 2014.
La vicenda è nota. L'azienda di famiglia ha beneficiato del
fondo per le Pmi attraverso Fidi Toscana, la finanziaria della Regione,
a garanzia di un mutuo da 496 mila euro acceso nel 2009 con la banca
Cooperativa di Pontassieve. La proprietà di Chil poi passa di mano due
volte. E cambia anche sede, lasciando la Toscana e trasferendosi a
Genova. Comunicazioni che non sono state fornite a Fidi e per questo,
stando da quanto la stessa finanziaria ha accertato, avrebbe perso i
benefici della garanzia. Ma quando nel 2013 viene dichiarata fallita
(Tiziano Renzi è indagato per bancarotta fraudolenta) la banca batte
cassa e ottiene da Fidi il versamento di 263.114,70 euro. Fidi a sua
volta si rivolge al Tesoro che stanzia dal fondo centrale di garanzia
236 mila euro. Ma come ha ricostruito a gennaio il Fatto Chil non aveva i
requisiti. Lo stesso avvocato di Fidi ha inviato alla Regione un
documento in cui invita la giunta “ad agire” per recuperare i fondi. Il
capogruppo di Fratelli d'Italia e candidato governatore, Giovanni
Donzelli, ha fatto sua la causa e presentato la risoluzione in consiglio
regionale che però è stata bocciata dai consiglieri del Pd: 17 voti
contrari. Eppure l'assessore al credito e al lavoro Gianfranco Simoncini
ha annunciato di aver scritto a Fidi affinché sia la finanziaria a
valutare cosa fare. Quasi scontato il commento di Donzelli, che
annuncia: “Ognuno deve assumersi la responsabilità delle scelte che
compie: invieremo il dossier Fidi-Chil alla Corte dei Conti, comprese le
singole votazioni di ogni consigliere”.
il Fatto 13.2.15
Popolari, chi ci ha guadagnato?
La Procura indaga sui movimenti anomali dei titoli a ridosso del sì al decreto
di Valeria Pacelli
Alexis
Tsipras sembra accerchiato da tutti i governi europei e quindi dai loro
paesi. Però la solidarietà e la vicinanza che ha raccolto da quando ha
preso la guida della Grecia non è trascurabile. Soprattutto se proviene
dalla Germania.
L’appello La Grecia una chance per l’Europa, non una
minaccia reca come prima firma quella di Reiner Hoffmann, presidente
della Confederazione sindacale tedesca, la Dgb: “Il terremoto politico
avvenuto in Grecia – si legge – è un’opportunità non solo per questo
Paese afflitto dalla crisi, ma anche per ripensare e rivedere in modo
sostanziale la politica economica e sociale dell’Unione europea”.
Il
testo è siglato anche dalle sigle sindacali di categoria, molto
importanti anch’esse negli equilibri politico-sociali della Germania: il
sindacato dei Servizi, Ver. di, il più grande d’Europa, quello delle
Costruzioni, Agricoltura e Ambiente, Ig. Bau, il sindacato dei
Trasporti, Evg, dell’Alimentazione, Ngg, dell’Educazione, Gew e quello
della metallurgia, IgMetall.
“I miliardi che sono confluiti verso la
Grecia sono stati utilizzati soprattutto per la stabilizzazione del
settore finanziario”, scrivono i sindacati tedeschi ricordando che “il
Paese è stato spinto da una brutale politica di austerità verso la più
profonda recessione”.
“NESSUNO DEI PROBLEMI strutturali del Paese è
stato risolto, continua il documento che propone di “negoziare
seriamente e senza ricatti con il nuovo governo greco per aprire nuove
prospettive economiche e sociali per il Paese che vadano oltre la
fallimentare politica di austerità”. Anche perché “la sconfitta alle
urne dei responsabili delle politiche adottate finora in Grecia è una
decisione democratica che va rispettata a livello europeo”.
Dunque,
“bisogna dare una chance al nuovo governo e la continuazione del
cosiddetto percorso di ‘riforme’ adottato finora, significa negare di
fatto al popolo greco il diritto ad attuare nel proprio Paese un
cambiamento di rotta della politica che è stato democraticamente
legittimato”.
Una presa di posizione molto rilevante se si considera
il ruolo e il peso del sindacato nella società tedesca. Con oltre 6
milioni di iscritti la Dgb svolge ancora un ruolo importante negli
equilibri della Spd, la socialdemocrazia che è in calo da tempo ma che
governa il paese nella coalizione con Angela Merkel.
Il sindacato,
inoltre, gode della Mitbestimmung, il modello di cogestione che consente
alle organizzazioni dei lavoratori di sedere nei Consigli di
sorveglianza delle grandi aziende e di avere, quindi, una forte
superficie di contatto con il mondo imprenditoriale.
Reiner Hoffmann
ha preso parola subito dopo le proposte avanzate dal ministro
dell’Economia greco Yanis Varoufakis, giudicando positivamente
l’intenzione di non chiedere più il semplice annullamento del debito ma
di optare per un’opzione più ragionevole come il legame tra il tasso di
interesse e la crescita economica del paese. Ma il presidente della Dgb
apre anche all’ipotesi di una Conferenza europea sul debito in modo “da
ristabilirne la sostenibilità e conseguentemente stabilizzare la zona
euro”.
La Dgb non si è mossa in solitudine perché sulla strada del
sostegno alla Grecia si è incamminata anche la Confederazione europea
dei sindacati (Ces). La sua presidente, Bernadette Segol, si è
pronunciata in questo senso la scorsa settimana: “È vitale per la
democrazia in Europa che sia rispettata la volontà chiaramente espressa
dal popolo greco di mettere fine all’austerità”. In questo contesto si
comprende meglio anche la decisione dell’italiana Cgil di schierarsi
apertamente dalla parte di Tsipras e di fare propria la manifestazione
che si svolgerà sabato prossimo a Roma in solidarietà
con la Grecia.
LA
LISTA DEGLI AMICI di Syriza quindi si allunga anche se si distingue per
la sua eterogeneità. Ieri, ad esempio, Beppe Grillo ha proposto alla
stessa Syriza e alla spagnola Podemos di farsi promotori di una mozione
al Parlamento europeo per una Conferenza internazionale sul debito.
Ipotizzando anche l’adesione di forze di destra come la Lega Nord e il
Front national di Marine Le Pen. La quale, alla vigilia delle elezioni
greche, si era pronunciata a favore di Tsipras. Ma la Grecia può contare
anche sui buoni auspici di Barack Obama che dal giorno della vittoria
della sinistra greca sta spingendo l’Europa per offrire un compromesso
accettabile. E poi c’è la Russia. Lo scambio di cortesie è stato molto
visibile ieri, proprio durante la riunione dell’Eurogruppo. Il ministro
degli Esteri russo ha aperto alla possibilità di “aiuti finanziari”
diretti mentre la Grecia si è opposta alle sanzioni contro Mosca sulla
vicenda ucraina.
il Fatto 13.2.15
Dagli annunci agli acquisti in Borsa: cronostoria di Vegas
NELLA
MEMORIA consegnata mercoledì in Commissione dopo l’audizione del
presidente Giuseppe Vegas in Commissione alla Camera, la Consob
ricostruisce la tempistica della diffusione delle informazioni relative
al decreto sulle Popolari.
3 Gennaio: l’agenzia Ansa riporta l’indiscrezione relativa alla possibile riforma delle banche Popolari allo studio del governo.
6
Gennaio: un articolo di Libero riporta indiscrezioni relative a un
dossier allo studio del governo, finalizzato ad abolire il voto
capitario negli istituti popolari quotati per consentire il
consolidamento del sistema bancario.
16 Gennaio: a mercati chiusi, dunque dopo le 17.30, il Presidente del Consiglio annuncia la riforma delle banche popolari.
17-18
Gennaio: i giornali danno ampio risalto all’annuncio, anticipando le
innovazioni principali contenute nella bozza della riforma. “Non è
tuttavia risultato subito chiaro – sottolinea la Consob - quale fosse
l’esatto perimetro degli istituti di credito interessati, mentre si
affermava che il provvedimento, prelevato dal disegno di legge sulla
concorrenza in fase di stesura al ministero dello Sviluppo Economico,
sarebbe stato oggetto di discussione nel Consiglio dei Ministri,
convocato per martedì 20 gennaio nell’ambito del cosiddetto Investment
compact”.
19 Gennaio: Renzi conferma che le misure sarebbero state
oggetto di discussione nel Consiglio dei Ministri convocato per
l’indomani. In serata si tiene un vertice tra premier, ministro dello
Sviluppo Economico e ministro dell’Economia per rifinire i dettagli
della bozza del provvedimento.
20 Gennaio: il Consiglio dei Ministri
discute il provvedimento e nel pomeriggio lo approva ma già dalla
mattina circolano notizie più precise circa gli istituti interessati:
sarebbero state le banche popolari di maggiori dimensioni (con soglia
minima pari ad 8 miliardi di attivo). Ebbene, dal 3 gennaio al 9
febbraio 2015 i titoli delle Popolari sono saliti da un minimo dell’8%
per Ubi a un massimo del 57% per Banca Etruria, a fronte di una crescita
dell’indice del settore bancario dell’8% e con volumi consistenti.
il Fatto 13.2.15
Cdm? “La Boschi in Aula non c’era”
Dal resoconto dei lavori parlamentari risulta che non s’è vista né alla Camera né al Senato
Lei aveva detto il contrario
di Davide Vecchi
Dove
era Maria Elena Boschi il 20 gennaio, mentre il Consiglio dei ministri
approvava la trasformazione delle banche popolari in società per azioni?
Non ai lavori della Camera né a quelli del Senato, come risulta dai
resoconti stenografici delle rispettive aule.
Il decreto approvato
durante la riunione dell'esecutivo, va ricordato, ha coinvolto la banca
dell'Etruria di cui il ministro è azionista, il padre Pier Luigi è
vicepresidente e il fratello Emanuele è dipendente. Nei giorni
precedenti l'approvazione del decreto, le popolari e in particolar modo
l'Etruria furono interessate da forti acquisti anche dall'estero. Con
plusvalenze potenziali quantificate dal presidente Consob Giuseppe Vegas
in 10 milioni di euro che hanno spinto l’autorità che vigila sulla
Borsa e la Procura di Roma ad aprire un’indagine.
IL FATTO diede
notizia degli acquisti anomali che interessarono le popolari, sollevò il
dubbio che qualcuno dai Palazzi avesse confidato all'esterno
l'approssimarsi del via libera del governo al decreto e sottolineò il
possibile conflitto di interessi di Boschi. Dopo aver più volte tentato
di contattare il ministro, il 27 gennaio abbiamo ricevuto e pubblicato
una sua lettera: “Caro direttore, il suo quotidiano si rammarica del
fatto che io non mi sia astenuta durante il voto in Cdm sul decreto
legge che riguarda la trasformazione delle Banche Popolari in Spa. Non
mi sono astenuta, è vero, ma prima di gridare allo scandalo basterebbe
capire il perché: non mi sono astenuta semplicemente perché non ero
presente a quella riunione. E non ho partecipato perché ero impegnata in
Parlamento nel percorso di riforme costituzionali e sulla legge
elettorale”.
Nel frattempo Camera e Senato hanno pubblicato i
resoconti stenografici dei lavori del 20 gennaio 2015. A Montecitorio il
ministro Boschi non si è vista. Tanto che alcuni deputati di
opposizione si lamentarono dell'assenza. Arturo Scotto, capogruppo dei
deputati di Sinistra ecologia e libertà, commentò: “Il governo ci dica,
visto che sono due giorni che non vediamo da queste parti Boschi, se si
stia già ragionando sul Renzi-bis”. Erano giorni in cui il patto del
Nazareno traballava, ma si rinsaldò rapidamente visto che proprio grazie
ai voti di Forza Italia passarono alcuni emendamenti all'Italicum.
E
Palazzo Madama? La seduta si è aperta alle 16:31 e, sempre da quanto
risulta dal resoconto stenografico pubblicato sul sito, è stata
immediatamente sospesa dalle 16:34 e aggiornata alle 17:34. Boschi è
intervenuta pochi minuti dopo l'apertura, intorno alle 17:40. Nel
frattempo il Consiglio dei ministri, che si è svolto a Palazzo Chigi, a
breve distanza dal Senato, si è aperto alle 15:45 e chiuso alle 17:20.
Il
ministro era sicuramente impegnato in altre riunioni. Nel primo
pomeriggio, a quanto riportato dalle agenzie di stampa, si trovava a
Palazzo Madama insieme al premier Matteo Renzi per incontrare i
parlamentari del Pd in vista del voto sull'Italicum. Poi ha rilasciato
due brevi interviste a Sky e a Rai News.
Contattata telefonicamente
dal Fatto, per conto del ministro ieri ha risposto il suo portavoce che
ha confermato che nonostante non fosse in aula Boschi era comunque in
una stanza di Palazzo Madama e qui è rimasta fino alla ripresa dei
lavori. Dunque non ha preso parte al Consiglio dei ministri.
Il
commissariamento della popolare dell'Etruria – deciso mercoledì da Banca
d'Italia per il “grave deterioramento del patrimonio” dell'istituto di
credito che vede ai vertici Pier Luigi Boschi – ha legittimato ulteriori
dubbi: il provvedimento, che ha preso la forma del decreto legge
soltanto pochi giorni prima del Consiglio dei ministri, può rivelarsi
infatti un aiuto prezioso per la popolare.
FRATELLI d'Italia ha
chiesto le dimissioni del ministro, Forza Italia minaccia barricate, i
deputati della Lega Nord hanno presentato un'interrogazione chiedendo di
conoscere con urgenza “le ragioni del commissariamento, anche in
funzione di possibili incompatibilità, o conflitti di interesse, che
esistevano, per questioni parentali, tra un componente del consiglio di
amministrazione di Banca Etruria e un componente del governo”. Insomma:
sarebbe utile rendere noto il verbale delle presenze al Cdm del 20
gennaio così da cancellare ogni dubbio sulla totale estraneità del
ministro Boschi. Verbale che finora non è stato reso pubblico.
il Fatto 13.2.15
“Sul Banco 3,5 milioni”. Effetto Serra?
di Carlo Di Foggia
Dalle
Cayman, passando per Ginevra, fino alle banche popolari. Da due anni,
la cartina di tornasole dell’“effetto Serra”, inteso come Davide,
finanziere, amico e sostenitore di Matteo Renzi si tinge spesso di
rosso-imbarazzo. Non c’è solo la pista che porta al manager del fondo
Algebris che emerge dalle carte della Consob (l’organismo che vigila
sulla Borsa) sulle operazioni sospette a ridosso della riforma bancaria
varata dal governo. Gli imbarazzi sono partiti molto prima: dal 19
ottobre 2012 – albori dell'ascesa dell'uomo di Rignano sull'Arno –
quando Pier Luigi Bersani salutò così la prima cena di finanziamento del
sindaco di Firenze (organizzata da Serra): “Non parlo con chi ha base
alle Cayman (dove ha sede un fondo di Algebris, ndr) ”. “Lo querelo”,
rispose lo squalo della City, finanziatore generoso (175 mila euro alla
renziana fondazione Open). Poi Bersani smentì.
Nell’ottobre scorso,
alla Leopolda, l’ex capo della ricerca globale sulla finanza di Morgan
Stanley ha creato non pochi imbarazzi all'amico illustre, proponendo
l'abolizione del diritto di sciopero (“è un costo”), salvo poi
correggersi: “Va limitato a un solo giorno per tutti”. Si ricorda anche
una proposta non del tutto disinteressata agli amici del governo: una
“norma a costo zero” che consenta alle banche di recuperare in tre anni
una casa con un mutuo non pagato. Il tutto, poco prima di lanciarsi nel
mercato dei crediti deteriorati (nel mirino ci sono i pacchetti in
vendita del Montepaschi), con tanto di apposito fondo e apertura di una
sede milanese. Giusto in tempo per approfittare del progetto governativo
di una bad bank di cui si discute ora.
Sposato con Anna Barrasi,
quattro figli, londinese da 18 anni, ieri il suo nome è finito di nuovo
alla ribalta: è uno dei 7.499 italiani della Lista Falciani, quella dei
correnti della banca Hsbc di Ginevra che da anni rimbalza tra procure,
servizi segreti e Finanza. Interpellato dall’Espresso, Serra ha
confermato di essere titolare di un conto “in totale trasparenza e in
accordo con il sistema fiscale inglese”.
Renzi si è innamorato di
questo guru finanziario, (“sono considerato uno dei migliori analisti
bancari nel mondo”), per i buoni uffici dell'amico in comune Marco
Carrai (era tra gli invitati al suo matrimonio), ma le polemiche degli
ultimi giorni si sono intensificate. Serra ha confermato di aver
investito nelle popolari dal marzo del 2014, poco dopo l'ingresso di
Renzi a Palazzo Chigi, e oltre dieci mesi prima del varo della riforma
che abolisce il voto capitario per dieci grandi istituti. La Consob di
Giuseppe Vegas ha confermato i “movimenti anomali” che hanno travolto i
titoli delle popolari, con rialzi a doppia cifra, prima e dopo
l'annuncio. Sotto i riflettori è finita la concentrazione di acquisti
partita da Londra, dove - secondo indiscrezioni - si sarebbe svolto un
workshop organizzato dal finanziere a ridosso dell’annuncio ufficiale
del premier sulla trasformazione in spa, il 16 gennaio. Serra ha
smentito tutto, ma confermato “una posizione importante, inferiore al 2%
in una banca popolare in aumento di capitale”, cioè il Banco popolare.
LA
CONSOB CERCHERÀ di capire se lui o altri intermediari hanno
approfittato di informazioni privilegiate (con lo spettro di insider
trading) o fiutato l'affare da esperti broker. Gli acquisti si sono
concentrati tra il 2 e il 16 gennaio, il 19 è partita la cavalcata in
Borsa. Le “operazioni sospette” hanno fruttato “10 milioni”. La parte
del leone, scrive la Consob, l'ha fatta un “intermediario estero” sul
Banco Popolare: “3,5 milioni di euro” di guadagni. Ieri Algebris ha
spiegato “di non avere comprato titoli delle popolari dal 1 al 19
gennaio. Unica operazione di rilievo nel periodo è stata la dismissione
di 5,2 milioni di azioni del Banco Popolare a un prezzo medio di 9,72
euro, acquistate nel 2014 a un prezzo medio di 13,76 euro, realizzando
così una perdita”.
il Fatto 13.2.15
Monte Paschi, a luglio Renzi avrà una banca
di Camilla Conti
Milano
A luglio Matteo Renzi potrà dire: “Abbiamo una banca”. Perché se il
Monte dei Paschi non trova un socio strategico prima dell’estate, il
ministero del Tesoro – ovvero lo Stato - diventerà azionista del gruppo
senese con il 10%. Mps ha infatti dovuto alzare l’asticella dell’aumento
di capitale a 3 miliardi dopo aver registrato nel 2014 oltre 5 miliardi
di perdite. Ergo, entro il primo luglio deve trovare i contanti per
ripagare allo Stato gli interessi dei Monti bond, altrimenti saranno
girati al Tesoro in forma di azioni. L’unica speranza per evitare una
semi-nazionalizzazione è che Mps trovi in fretta un cavaliere bianco sul
mercato da far entrare con l’aumento di capitale. Una missione cui si
starebbero dedicando soprattutto i soci sudamericani Btg e Fintech che
non intendono restare impantanati nelle sabbie mobili senesi. Quanto
alla Fondazione Mps, alleata dei due fondi nel patto che controlla il 9%
della banca, dovrà decidere se mettere sul piatto 75 milioni per
aderire all’aumento a fronte di un tesoretto di liquidità di 400
milioni. Nel frattempo, in una recente intervista, il presidente della
Fondazione Mps, Marcello Clarich, ha dichiarato che l’ente ha deciso di
affidare “la gestione dell’area finanza a una società esterna”. Secondo
quanto rivelano fonti al Fatto si tratterebbe della stessa sgr Quaestio
alla quale il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, ha affidato in
gestione la partecipazione in Intesa per tutelare gli affari della sua
Cariplo, diversificare il patrimonio e alienare i rischi finanziari
della quota di cui comunque mantiene dividendo e voto. Per Siena sarebbe
stata dunque trovata una soluzione simile per proteggere gli
investimenti dell’ente. Basterà? Chissà. Ieri, intanto, a Piazza Affari
il possibile ingresso del Tesoro è stato apprezzato: il titolo Mps ha
guadagnato il 13% a 0,48 euro.
il Fatto 13.2.15
L’emendamento “porcata” del Pd che salva l’Ilva
di Giorgio Meletti
È
stata la giovane senatrice marchigiana Camilla Fabbri, renziana di
ferro con più di un pensiero alla candidatura per la presidenza della
regione alle elezioni di primavera, a risolvere al governo lo spinoso
problema. È lei infatti la prima firmataria dell'emendamento al decreto
sull'Ilva che chiarisce l'incerto articolo 2, formulato da estensori
poco avvezzi alla scrittura di leggi. E adesso, dopo che la commissione
Industria del Senato ha approvato l’emendamento Fabbri, i senatori M5S
notano che “il governo ha ottenuto l'avallo all'ennesima porcata”.
Il
testo originario del decreto diceva che il piano di prescrizioni
ambientali per la grande acciaieria inquinante di Taranto “si intende
attuato se entro il 31 luglio 2015 sono realizzate, almeno nella misura
dell'80 per cento, le prescrizioni in scadenza a quella data”. Non si
capiva l’80 per cento di che cosa, visto che le prescrizioni dell'Aia
(Autorizzazione integrata ambientale) sono oltre 400, ma solo alcune
delle quali decisive, complesse e costose.
L'EMENDAMENTO Fabbri
aggiunge la parola “numero”, così è chiaro che si intende l'80 per cento
di prescrizioni delle quali una vale l’altra. L'Ilva potrà attuare l'80
per cento delle prescrizioni scegliendo quelle meno rilevanti e
lasciando indietro quelle più importanti e costose. “Apporre un cartello
di pericolo diventa equivalente a coprire i parchi dei minerali”,
dicono i senatori grillini. Per farsi un'idea basterà sapere che coprire
i parchi minerali (quelli da cui si diffondono le polveri cancerogene
che stanno martoriando Taranto) costerebbe almeno un miliardo di euro.
In pratica, con l'emendamento approvato due sere fa, l'attuazione delle
prescrizioni ambientali dell'Aia diventa per l'Ilva sostanzialmente
facoltativa, e questo indica con precisione in che modo il governo vuole
perseguire la compatibilità tra siderurgia e ambiente, lavoro e salute.
L'altro
nodo delicato del decreto Ilva è quello delle fattura non pagate alle
imprese dell'indotto. Si tratta, solo per l'area tarantina, di circa 150
milioni di euro che stanno mettendo in ginocchio decine di imprese e in
pericolo 4-5 mila posti di lavoro.
CON LA PARTENZA
dell'amministrazione straordinaria, scattata lo scorso 21 gennaio, i
crediti vengono tutti congelati nella cosiddetta procedura concorsuale,
cioè nello stato d'insolvenza gestito sotto la supervisione del
Tribunale di Milano. In questo modo i crediti delle aziende dell'indotto
saranno forse pagati tra qualche anno. Questa è la regola fissata dalla
legge Marzano a cui si è fatto ricorso, e adesso si cerca un modo per
concedere alle imprese dell'indotto una sorta di deroga che eviti il
loro quasi automatico fallimento.
Tra i più arrabbiati ci sono gli
autotrasportatori di Taranto, che vantano crediti per 15 milioni di euro
e sono decisivi per la vita dell'Ilva visto che con i loro camion
consegnano circa un terzo della produzione ai clienti dell’azienda.
Indietro di sei mesi con i pagamenti e con la prospettiva di non essere
pagati per anni, gli autotrasportatori sbarcano oggi a Roma per una
rumorosa protesta a piedi davanti a palazzo Chigi, visto il prevedibile
divieto di presentarsi nella capitale al volante dei loro Tir. La
speranza degli autotrasportatori di Taranto è di essere ricevuti da
Matteo Renzi. Vedremo.
La Stampa 13.2.15Israele. Elezioni politiche il 17 marzo
L’ultima parola sul voto spetta al giudice arabo che rifiuta di cantare l’inno nazionale
Salim Joubran conterà i voti ed annuncerà i risultati, sarà lui a dirimere eventuali contese
di Maurizio Molinari
qui
il manifesto 13.2.15
Israel Prize. Netanyahu versus Grossman
Il
premio letterario a rischio dopo le interferenze del premier che ha
rimosso due accademici in giuria, giudicati troppo estremisti e
favorevoli allo scrittore di sinistra
qui
Repubblica 13.2.15
Israele
Polemica con Netanyahu Grossman rinuncia al premio
Gerusalemme
David Grossman ha ritirato la sua candidatura dal Premio Israele di
letteratura. L’ingerenza del premier Netanyahu ha prodotto l’effetto
dell’autoesclusione di uno degli scrittori israeliani più noti al mondo.
Grossman,
probabile vincitore del premio, si è ritirato per protesta contro il
recente intervento dell’ufficio del premier sulla composizione della
giuria, con l’esclusione di due giurati giudicati «estremisti» con idee
pericolose.
«La mossa di Netanyahu», ha detto lo scrittore in tv, «è
un sotterfugio cinico e distruttivo che viola la libertà di spirito, il
pensiero e la creatività di Israele. Io rifiuto di cooperare con tutto
ciò». Anche vari giudici si sono dimessi per protesta, mentre lo
scrittore Abraham Yehoshua ha condannato come «stupido e non necessario»
l’intervento di Netanyahu.
New York Times 12.2.15
Obama Signs Suicide Prevention for Veterans Act Into Law
by Peter Baker
qui, segnalazione di Marcella Matrone
Barbadillo 13.2.15
Idee. Heidegger e le epifanie metafisiche nella cultura europea del ‘900
di Giovanni Balducci
qui
La Stampa 13.2.15
Perdere il lavoro spinge a togliersi la vita
Uno
studio in 63 Paesi della rivista scientifica The Lancet Psychiatry: la
disoccupazione è responsabile di un quinto dei suicidi
di Paolo Mastrolilli
qui
Corriere 13.2.15
Beccaria, l’Adam Smith italiano al crocevia tra diritto e mercato
di Sergio Bocconi
Di
Cesare Beccaria tutti sanno che è stato il nonno di Alessandro Manzoni e
conoscono Dei delitti e delle pene , l’opera scritta a 25 anni che gli
ha dato fama universale in un mondo allora più globale di quel che oggi
si pensi. Meno note invece sono le sue «fatiche» di economista e civil
servant. A questi capitoli poco esplorati Carlo Scognamiglio Pasini ha
dedicato il libro L’arte della ricchezza. Cesare Beccaria economista
(Mondadori Università, pagine 328, e 22). Professore emerito alla Luiss
di Roma, già presidente del Senato e ministro della Difesa, Scognamiglio
riesce in un’impresa tutt’altro che semplice: quasi con lo stile di un
romanzo intreccia vicende umane ed evoluzione professionale e del
pensiero di Beccaria. Il risultato fa giustizia di una evidente
sottovalutazione ed è un affresco della Milano dei Lumi, tra le prove e i
tormenti della sua élite, le tipicità sociali, il rapporto con il
«dominatore» austriaco.
«Quest’oblio merita una riflessione. Nel
campo dell’economia è difficile per noi italiani poter contare più di un
autore per secolo che abbia raggiunto una posizione di massimo rilievo
sul piano internazionale», scrive Scognamiglio, che sottolinea come la
ricostruzione della figura di Beccaria sia stata resa possibile grazie
in particolare all’edizione completa delle sue opere promossa da
Mediobanca. E sull’oblio occorre meditare, tanto più se si considera che
Joseph Schumpeter definisce Beccaria «l’Adam Smith italiano»: «Le
somiglianze fra questi due uomini e i loro risultati sono
impressionanti». E in effetti il suo libro Elementi di economia pubblica
, dato alle stampe nel 1804, 10 anni dopo la morte dell’autore e 35
dopo le lezioni di Economia a Milano, che rappresentano il periodo in
cui sarebbe stato scritto, presenta grande sintonia con La ricchezza
delle nazioni di Smith.
Scrive Scognamiglio che in entrambi i campi,
giustizia ed economia, il pensiero di Beccaria risulta «eversivo».
Laicizza la giustizia penale, introducendo la distinzione fra «peccati» e
«crimini» che sarà fondamentale per il pensiero illuminista. In
economia sostiene che la fonte della ricchezza delle nazioni non è
costituita da risorse naturali e agricoltura, come affermava la scuola
di pensiero dominante nel Settecento, ma dal lavoro umano. E ritiene che
«l’economia pubblica sarà l’arte di fornire con pace e sicurezza non
solamente le cose necessarie, ma ancora le comode, alla moltitudine
riunita». Annota l’autore che questa base del pensiero, elaborata da
Beccaria dalle sue lezioni nel 1768, si troverà nell’incipit della
Ricchezza delle nazioni , pubblicato nel 1776. In entrambi i casi viene
disegnata la svolta che rivoluziona il sapere economico e recide il
fondamento della rendita che sosteneva i ceti dominanti: aristocratici e
proprietari terrieri.
Beccaria, eclettico tra mercantilismo e
fisiocrazia, sostegno al libero mercato e anticipazioni del moderno
welfare, lascia però incompiuto il capolavoro economico. Forse lo frena
anche il carattere (che gli farà scrivere, come propria immaginaria
epigrafe: «Visse la vita tranquillamente, con poca ambizione»). Incline
alla depressione, Beccaria si reca su invito a Parigi nei salotti
illuministi, ma mal sostiene l’ira dei fratelli Verri; rifiuta
l’incarico di consigliere di Caterina II di Russia, coltivando la
promessa di una cattedra di Economia «creata» per lui; lascia
l’insegnamento guardato con sospetto di «eversione» ed entra nella
pubblica amministrazione; si muove insomma con una prudenza non sempre
in linea con il suo «genio». Ma non può che destare stupore
l’originalità dei suoi atti di governo: i documenti redatti in 23 anni
sono oltre 6 mila. La sua azione di riforma ha basi liberiste ma
anticipa il keynesismo: abolisce le corporazioni; dà vita al Monte delle
sete, primo istituto di credito industriale; propone rimedi alla
disoccupazione, da una sorta di cassa integrazione alla spesa in lavori
pubblici; prefigura l’introduzione di un sistema metrico decimale di
misure e pesi; porta a una riforma monetaria ammirata in Europa. Anche
questi provvedimenti restano in ombra per lungo tempo. Il racconto di
Scognamiglio diventa dunque un tributo più che dovuto al «nostro Adam
Smith».
Repubblica 13.5.15
Quando la guerra tra i credenti è soprattutto il trionfo dei bigotti
di Nicholas Kristof
NEL
North Carolina, tre giovani musulmani attivi in opere di solidarietà
sono stati uccisi da un uomo che si è definito ateo e ha espresso
ostilità verso l’Islam e le altre religioni. La polizia sta indagando
per capire se si sia trattato di un crimine d’odio, mentre su Twitter è
stata lanciata una campagna con l’hashtag #MuslimLivesMatter. In Alabama
vediamo dei giudici che si rifiutano di approvare i matrimoni «di ogni
genere», perché altrimenti dovrebbero approvare anche i matrimoni
omosessuali. In un sondaggio condotto l’anno scorso, il 59% dei
cittadini dell’Alabama si è detto contrario ai matrimoni gay. In qualche
modo ci si richiama a un Dio d’amore per impedire di unirsi a delle
coppie di innamorati.
Sono notizie molto diverse. Ma mi chiedo se si
possa trarre da entrambe una lezione sull’importanza di resistere alla
bigotteria, di combattere l’intolleranza che può infettare persone di
qualsiasi fede — o prive di fede. Non credo che i musulmani debbano
sentirsi in dovere di chiedere scusa per gli attacchi terroristici al
Charlie Hebdo. Né credo che gli atei debbano scusarsi per l’uccisione
dei tre musulmani. Ma forse è utile che ognuno rifletta sulla nostra
capacità di “alterizzare” persone diverse per fede, razza, nazionalità o
sessualità — e di trasformare questa alterità in una minaccia. Questo è
ciò che l’Is fa nei nostri confronti. E, a volte, questo è quello che
facciamo anche noi.
Alcuni di voi starà protestando: questa è una
falsa equivalenza. È vero, c’è una grande differenza tra bruciare viva
una persona e il non concedere una licenza matrimoniale. Ma, ripeto, non
è molto più che uno slogan dire «siamo meglio dell’Is!». C’è stato un
pugnace atteggiamento difensivo tra i cristiani conservatori nei
confronti di eventuali parallelismi tra gli eccessi cristiani e quelli
islamici, come si è visto nella reazione indignata di fronte alla
recente ammissione di Obama che anche l’Occidente ha molto da
rimproverarsi. Obama ha perfettamente ragione: come possiamo chiedere ai
leader islamici di combattere l’estremismo nella loro fede, se non
riconosciamo l’estremismo cristiano, dalle Crociate a Srebrenica?
Abbiamo
già esortato i musulmani a riflettere sull’intolleranza nel loro campo,
e questa è un’occasione in cui i cristiani, gli atei e gli altri
possono fare lo stesso. Anche il dramma legale in Alabama rievoca la
fede, perché è un modo di affermare, battendosi i pugni sul petto, “sono
più santo di te”. Trovo strano che tanti cristiani conservatori siano
ossessionati dall’omosessualità, di cui Gesù non parla mai, mentre
sembra non si preoccupino di problemi che Gesù sottolinea, invece, come
la povertà e la sofferenza. Nel 2012, un sondaggio tra gli americani tra
i 18 e i 24 anni ha rilevato che la metà descrive il cristianesimo
attuale come «ipocrita», «moralista » e «anti-gay». E ancora di più sono
quelli che considerano più immorale guardare la pornografia che avere
rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso. L’Alabama, ancora
una volta, è dalla parte sbagliata della storia.
Papa Francesco è
stato come una boccata d’aria fresca per cattolici e non cattolici,
perché sembra meno moralista ed è più disposto a tendere una mano per
aiutare. Dopo la tragedia nel North Carolina e il caos legale in
Alabama, forse è un buon esempio per tutti noi. © The New York Times (
traduzione di Luis E. Moriones)
Repubblica 13.2.15
Il satirico nell’imbarazzo
di Guido Ceronetti
SE
MI fosse domandato di definire che tipo di scrittore sono, o sono
stato, naturalmente risponderei: «Uno scrittore satirico». Ma la Satira,
Dea di ogni tempo — occorre dirlo? — non ha che incidentalmente il fine
di colpire persone del potere o genericamente la politica di un’epoca o
di uno Stato (anche Città-Stato, esempio luminoso Atene). Bevendo latte
di Graecia capta la scrittura arcaica romana adotta fin dal principio
il meraviglioso dramma satirico plautino, che istruisce il popolo tra le
risate, e annuncia le vette satiriche di Molière e dei suoi comici. La
straordinaria libertà del linguaggio plautino è figlio della commedia
antica di Aristofane. Creazione, come la tragedia della democrazia
ateniese, non certo così estesa e liberale come le nostre, repubblicane.
La
lettura erudita, esoterica, dell’immenso Gulliver di Swift, ha rivelato
un segreto ordito di allusioni politiche legate ai costumi del tempo e a
storie di Corte, di cui in realtà ai lettori di trecento anni dopo non
può importare niente. Sono le tappe di quei fantastici viaggi ad
attrarci, scopertamente, e là tutte le acuminate frecce satiriche del
Decano hanno per unico bersaglio l’uomo, la vanità dell’esistenza e
della storia umana. In questo fu ineguagliabile e rimane solo. Io credo
di aver scoperto la mia vocazione satirica traducendo integralmente gli
Epigrammi di Valerio Marziale e soprattutto le sedici Satire di Giunio
Giovenale, il più cupo dei latini, il più prossimo in visione repulsiva
del genere umano, di Swift, Bosch, Hogarth... La satira oraziana non dà
ombre a Mecenate, e quella di Montale non inquietò Scelba; ma Giovenale
scrisse il suo libro sotto Traiano, per poter alludere senza grane al
precedente, nordcoreano, regime di Domiziano. Ne avrebbe oggi, da noi,
democrazia liberale, ma butterata dalla sua degenerazione, in libertà di
stampa condizionata. Giovenale avendo graffiato un poco, e con stile,
le donne, gli omosessuali, i mores invisi ai Romani degli Ebrei,
verrebbe denunciato per omofobia e antisemitismo, deplorato duramente
dai comitati di difesa, dalle associazioni, dagli editorialisti,
uscirebbe dai dibattiti con qualche osso fracassato. A Hogarth, che
dipinge a tinte fosche i bevitori di gin (Gin Street) e loda le pance
gonfie di birra (Beer Street) farebbero causa agli spacciatori di
superacolici e manderebbero botti ogni capodanno delle loro schiume i
birrai. Immane, violento, chiaroscurale satiro di avvocati, magistrati,
predicatori politici, Honoré Daumier sarebbe perseguitato, al punto di
dover emigrare in America, dalle loro corporazioni di unghioni lunghi.
Una mia raccolta di testi satirici, che scherzava con un po’ d’acido su
Andreotti e Moro (ovviamente, prima del rapimento), “La Musa Ulcerosa”,
sparì invenduta dopo pochissimo tempo e oggi è venduta all’asta sulla
Rete. Gheddafi, il compianto colonnello di Giarabub, minacciò di far
saltare “La Stampa” per una elegante canzonatura negli anni di Arrigo
Levi, autori Fruttero e Lucentini.
— Cosa vuoi?, mi diceva un grande
satirico come Ennio Flaiano, non si può più fare satira su niente, ti
querelano subito, io ho una causa coi marziani di Roma! — Gli risposi
che poco mancò io ne ricevessi una dai pizzaioli per aver scritto che la
dieta italiana, fondata sulla pizza (e adesso associata all’indigesto
kebab) è un cibo che fa ammalare. E adesso, dopo una redazione
massacrata a Parigi, vuoi ancora scrivere satire, pover’uomo? Ahimè! La
nostra Musa è più che mai ulcerosa ( the cankered Muse la chiama
Alexander Pope), e la libertà di esserne devoti è molto incerta, dove
prevale il cretino.
Charlie Hébdo , con troppa facilità e rimozione
di paura ne siamo sgusciati via, e Papa Francesco, col suo parallelo
degli insulti alla mamma ne ha rimpicciolito le dimensioni
catastrofiche. Un guerrasantista d’oggi non esiterebbe, a un
comandamento divino come quello che fa ad Abramo alzare il coltello sul
suo Isacchino, a sacrificare sua madre. E se un pugno è un pugno,
Santità, un kalashnikov è un kalashnikov, una macchinetta per
sterminare, e chi lo impugna per vendicare una negazione d’immagine,
appartiene a una specie rara di psicopatia criminale. Ma per lo più non
abbiamo definizioni che calzino davvero, queste apparizioni che si vanno
riproducendo dappertutto scherniscono le nostre limitatissime
percezioni razionaliste del Male. Altro freno, altre manette per il
satirico che non sappia oltrepassare quei limiti. Posso dire, nel mio
recinto d’impotenza, che confortava vedere alla marcia di Parigi la
nobile barba del capo della Grande Moschea che c’è dietro al Jardin des
Plantes.
Come direttore del settimanale non avrei pubblicato quelle
vignette, per la loro bruttezza e volgarità essenzialmente, ma anche per
consapevolezza responsabile dei rischi. Mettere così, ciecamente, la
testa sul ceppo non è saggio né responsabile. Un vero satiro è un uomo
avveduto, e il suo fine non è di sfidare un potere occulto che ignoriamo
ma di castigare ridendo mores . Alla marcia avrei partecipato,
conservando il diritto di riserve critiche di fondo.
Repubblica 13.2.15
Le metamorfosi esistenziali di Elias Canetti
La forza e l’attualità dello scrittore in una raccolta di aforismi inediti
di Franco Marcoaldi
FA
un certo effetto pensare a Elias Canetti — così duro, determinato,
tutto preso dal titanico progetto di «afferrare il secolo alla gola» —
mentre se ne sta intento a preparare con delicatezza un libretto fatto a
mano per la sua amica-amante, la pittrice Marie Louise von Motesiczky,
in occasione del suo compleanno: il 24 ottobre del 1942. Quel
manoscritto, dalla grafia minuta e chiara, in inchiostro blu, con pagine
legate insieme da un cordoncino dorato, fu ritrovato tra le carte della
pittrice dopo la morte ed esce ora per Adelphi nella traduzione di Ada
Vigliani: Aforismi per Marie Louise ( pagg. 101, euro 12).
IL LIBRO
È
un piccolo, quanto significativo tassello da aggiungere a quello
strepitoso libro parallelo di appunti e aforismi , La provincia
dell’uomo , che Canetti andò scrivendo per decenni nel dichiarato
intento di allontanarsi almeno un poco dal claustrofobico impegno di
Massa e potere — l’indefinibile “poema scientifico” che lo consacrerà
come uno dei pensatori più originali e acuti del Novecento, e che ora
sta per essere ripubblicato da Adelphi. Siamo in piena guerra e Canetti
vede intorno a sé soltanto orrore e distruzione, ragione in più per
affondare la lama del pensiero nella «mostruosa struttura » del potere,
il cui primario intento è procurare la morte e allontanarla da sé: «La
confusione, che ebbe origine allora, si chiama storia». Da qui dovrebbe
prendere le mosse il vero illuminismo, e da qui, anche, dovrebbe partire
un’indagine sulla proliferazione della massa e la sua supina ossessione
nei confronti del potere. A maggior ragione nel Novecento, secolo in
cui la morte ha rivestito «una forza di contagio che non ebbe mai prima»
— assurgendo a figura onnipotente, «nocciolo stesso di ogni schiavitù».
Leggendo
questi Aforismi per Marie-Louise si intravede già, in filigrana, la
successiva, tenace trama che intercorre tra la morte, il potere e la
massa — quella dell’uomo eretto e vivo di fronte all’uomo morto, a
terra.
Perché l’individuo non crede mai del tutto alla morte finché
non l’ha sperimentata in quella altrui. Superata, nella scomparsa
altrui. Quando poi il senso di questa dissimulata soddisfazione diventa
una passione insaziabile, colui che ne sarà invaso, «non più appagato
dagli sparsi momenti di sopravvivenza offertigli dall’esistenza
quotidiana », conoscerà finalmente il segreto del potente — che,
nell’azzardo di Canetti influenzato dalla presenza terrificante di
Hitler, va strettamente apparentato allo psicopatico, al paranoico.
«L’idea di essere l’unico, unico tra i cadaveri, è decisiva sia per la
psicologia del paranoico sia per quella del potente, che in tal modo
spinge all’estremo il suo potere». Sorge da qui una domanda bruciante,
vera e propria «quadratura morale del cerchio ». Se vincere è
sopravvivere, come si può continuare a vivere senza essere vincitori?
Solo facendosi “custode della metamorfosi”, suggerisce lui. Ovvero
immedesimandosi in tutte le creature: comprese le più picco- le,
ingenue, impotenti. Ecco perché, già in questi Aforismi, assumono un
peso decisivo gli animali — continuamente offesi, eppure capaci di
imprevedibili, illuminanti insegnamenti.
Per questo Canetti invita a
diffidare di «tutte le filosofie che cercano di ricondurre la vita a un
unico principio». Perché si tratta sempre di una riduzione, un
impoverimento, un raggelamento. Mentre il suo obiettivo, al contrario, è
quello di intensificare la circolazione del flusso vitale. «Nei passi
forti della Bibbia troviamo questo grandioso battere e pulsare, e
perfino quando l’uomo dorme e sogna, il suo sangue non conosce sosta».
Chi
si trova a vivere nell’inferno bellico — per quanto cerchi di rimanere
ragionevole — deve per forza ricorrere al sogno, alla visione,
all’immaginazione più sfrenata. A maggior ragione se, come Canetti, è
impegnato anima e corpo nell’allucinato tentativo di «bandire la morte»,
con ogni mezzo. Ivi incluso l’ascolto attento e costante delle voci dei
morti — che scuotono e incalzano e tormentano i vivi.
C’è una pagina
particolarmente toccante di questi Aforismi per Marie Louise , in cui
l’autore di Massa e potere suggerisce una singolare modalità per tenere
in vita, il più a lungo possibile, l’anima del morto. Evitate di
parlarne bene a tutti i costi, ammonisce. Piuttosto litigate con lui e
la sua memoria, mettete in luce aspetti sorprendenti del suo carattere —
anche quelli più maligni, se necessario. Non ricorrete alla pietà,
contrassegno del malcelato desiderio di renderlo inoffensivo: «Affinché
il morto, nella sua impalpabi-lità, continui a vivere, bisogna
consentirgli di muoversi». Per essere anche lui passibile di
trasformazione, e quindi di metamorfosi.
* Aforismi per Marie-Louise di Elias Canetti (Adelphi)
Repubblica 13.2.15
Nella prossima guerra non ci saranno armi potremo solo morderci
di Elias Canetti
COMBATTONO
tra le dita dei piedi, nell’ombelico, dentro le narici, combattono nel
didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c’è luogo
nascosto, non c’è palmo, non c’è poro, nelle cui profondità non
combattano l’uno contro l’altro all’ultimo sangue.
Si aboliscono tutte le armi, e durante la prossima guerra non sarà consentito altro che mordere.
Troppo poco abbiamo studiato i cani: sono la quintessenza dell’”umano”, e quanto disumano è questo.
Chi
adora il successo è comunque perduto: se lo ottiene, finisce per
assomigliargli; se non lo ottiene, si strugge nel più falso degli
aneliti.
La meraviglia vive del caso. Nella legge soffoca. Ormai
riesce a ridere solo tra gli animali. Cercò di restare ragionevole
all’inferno. La birra non ha più, per lui, il buon gusto di una volta:
dal boccale sbircia la guerra.
In ciascuno di noi l’anima abita
luoghi diversi: quest’uno ce l’ha nei polmoni, quell’altro nelle
viscere; quest’una nel cuore e quell’altra nel sesso; in me si sente a
suo agio nelle orecchie, più che da qualsiasi altra parte.
Gli
attacchi di panico giungono con una regolarità che li rende sospetti: ci
sono attacchi mensili, attacchi settimanali, attacchi diurni e
notturni.
Si annunciano, come esistessero semplicemente per segnare il tempo.
Testi tratti da Aforismi per Marie-Louise (Adelphi)