lunedì 17 novembre 2014

La Stampa 17.11.14
Viaggio tra gli immigrati aggrediti a Tor Sapienza
“Perché ci odiate così?”
“Voi siete senza lavoro, è terribile. Ma la colpa non è nostra”
«Siamo in Italia per essere protetti, invece abbiamo paura»
di Domenico Quirico

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La Stampa 17.11.14
La Camera apre un’inchiesta sul trattamento dei richiedenti asilo nei centri d’accoglienza
Prima Sicilia, poi Lazio. Ecco dove finiscono i salvati da Mare Nostrum
di Francesco Grignetti


Litigano da giorni. È successo anche ieri. Il ministro Angelino Alfano, infatti, non vuol finire nel tritacarne di Tor Sapienza e lascia volentieri il cerino a Ignazio Marino: «Il luogo lo sceglie il sindaco e il Viminale gli dà i soldi. Punto. Altrimenti stiamo facendo i prestigiatori». Il sindaco alza pubblicamente gli occhi al cielo per far capire che si trova a fronteggiare scelte altrui, e si lamenta: «Possibile che qui (a Roma, ndr) debba esserci un immigrato su cinque che arrivano in Italia?».
Per capire, serve qualche punto fermo. I dati ufficiali del ministero dell’Interno, aggiornati al 31 ottobre, dicono che sono 61.238 gli immigrati - i richiedenti asilo che le navi di Mare Nostrum hanno salvato nel Mediterraneo - ospitati a spese dello Stato. Ebbene, il 23% di essi è stato sistemato in Sicilia, il 13% nel Lazio, il 10% in Puglia, l’8% in Lombardia, e così via. In effetti il Lazio deve accogliere quasi il doppio di immigrati della Lombardia, ma la Sicilia batte tutti di gran lunga: qui sì che c’è un immigrato ogni cinque.
Il tema è esplosivo. Ci si sta per mettere anche la Camera dei deputati, che oggi dovrebbe varare una commissione d’inchiesta sul «trattamento dei migranti nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e nei centri di identificazione ed espulsione». La commissione nasce da ben tre proposte-fotocopia: una del Pd (Emanuele Fiano), una di Scelta Civica (Mario Marazziti), una di Sel (Nicola Fratoianni). «Siamo tutti d’accordo, anche quei colleghi che la pensano all’opposto di me, che è bene fare luce su quanto avviene in questi centri gestiti dal ministero dell’Interno», spiega il relatore, Gennaro Migliore, ex vendoliano, ora Pd. L'idea di una commissione d’inchiesta nacque sull’onda dello scandalo di Lampedusa, quando si vide il filmato di alcuni profughi che venivano tenuti nudi in uno stanzone e lavati con il getto d’acqua. Fu uno choc perché si pensava che il trattamento rude fosse un’esclusiva dei centri per le espulsioni, non anche in quelli per i richiedenti asilo. Nel frattempo sono arrivate varie denunce su ruberie, trattamenti sotto lo standard, inefficienze. E poi si moltiplicano i casi di periferie in rivolta contro i centri per immigrati.
Dove vada a parare la nuova commissione d’inchiesta, è chiaro fin dalla legge istitutiva: «Accertare se nei centri si siano verificate condotte illegali e atti lesivi dei diritti fondamentali e della dignità umana». In tutta evidenza sul banco d’accusa ci finirà la polizia. E si spiegano così certe asperità nel dibattito parlamentare. Ignazio La Russa, FdI: «Questa è un’operazione di schifoso razzismo nei confronti degli italiani». Di contro Emanuele Fiano, Pd: «Dobbiamo dire al Paese se le condizioni di vita in quei centri sono consone alle nostre leggi, alla Costituzione, alla Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo».
Se è esploso il fenomeno dell’accoglienza per i richiedenti asilo, è divenuto invece residuale il sistema dell’identificazione ed espulsione. Era un cavallo di battaglia della destra, al punto che l’ex ministro Maroni nel 2011 volle allungare il trattenimento nei Cie (al Viminale aborrono all’idea di chiamarla detenzione, ma non è che la sostanza sia diversa) fino a un massimo di 18 mesi e progettava di aprirne tanti altri di questi centri. Nel frattempo, all’opposto, diversi Cie sono stati chiusi e attualmente ce ne sono solo 5 in funzione (Torino, Roma, Bari, Trapani, Caltanissetta) per complessivi 500 posti letto. Sono fortemente diminuiti anche i numeri. Nel 2013 erano stati trattenuti 6.016 stranieri (di cui 2.749 i rimpatriati); nei primi sei mesi di quest’anno, 2.124 (di cui 1.036 rimpatriati).
La permanenza media nei Cie è stata di 55 giorni a Bari, 24 a Caltanissetta, 32 a Roma e Torino, 50 a Trapani. Il sistema, insomma, funziona abbastanza. Non meraviglia, allora, che qualche giorno fa, con il beneplacito del ministro Alfano, il Parlamento abbia rivoluzionato le norme, imponendo un massimo di 3 mesi di trattenimento nei Cie per chi dev’essere identificato ed espulso. Quando sono ex detenuti, poi, il massimo si riduce a 1 mese, visto che vengono già identificati dall’amministrazione penitenziaria.

il Fatto 17.11.14
Cie, crimini contro “negri” e altri ospiti
di Furio Colombo


Il piccolo libro di Donatella Di Cesare, Crimini contro l'ospitalità, vita e violenza nei centri per stranieri, Il Melangolo, è uscito un po’ prima delle violente ronde notturne “per cacciare i negri” di Tor Sapienza, a Roma, e delle bravate di Matteo Salvini, che va a provocare violenza con le sue “visite” ai campi rom. E dunque non è solo una attenta e precisa descrizione di una visita a Ponte Galeria e all’infame campo detto di “Identificazione e di Espulsione” che pesa come una vergogna sull’Italia contemporanea e su tutti i governi e i politici che hanno impiantato simili campi o hanno taciuto (con la sola eccezione di pochi deputati Pd e di tutta la delegazione radicale eletta nel Pd, quando c’erano ), non è solo una raccolta di voci disperate a causa di una stupida e crudele ingiustizia che non ha leggi e regolamenti ma solo inferriate e blindati dell’esercito come presidio di questo Paese. È anche una profezia di ciò che una cultura malata e infetta (la cultura razzista della Lega Nord e la cultura fascista dei gruppi che si riformano sempre più attivi e incoraggiati dalla assenza di politica, nelle borgate) sta portando nelle zone deboli e abbandonate della vita italiana. Allora (poche settimane fa, quando è uscito il libro) è stato un annuncio. Adesso è cronaca. L’autrice si è resa conto che un luogo di assurda sofferenza e di inutile umiliazione come Ponte Galeria e tanti altri C. I.E in tutta italia ( dove Maroni, da Ministro dell'Interno, ha imposto, nel silenzio di quasi tutti, una detenzione senza motivi) avrebbe provocato una infezione pericolosa: quella di trasformare un simbolo vistoso di disumanità in un comportamento diffuso e interiorizzato.
SE LO STATO PUÒ TRATTARE gli stranieri arrivati in Italia per salvarsi da guerre e persecuzioni, come animali da tenere rinchiusi o cacciare, lo posso fare anch’io. Anzi lo devo fare, perchè, mi dicono persone come Salvini, ma anche come Grillo, che portano malattie e sono pericolosi, e mi dicono tanti politici, che portano via il lavoro e le case agli italiani. Donatella De Cesare in una prima parte racconta. Il senso del racconto è la meraviglia che un luogo come il C. I.E. di Ponte Galeria possa davvero esistere. E lo stato d’ansia che ti da, entrando, vedere il segno della bandiera italiana su blindati e trasporti militari disposti intorno al “campo”, e la garitta dove un militare italiano, vestito come se fosse in missione in Afghanistan, ti verifica i documenti. Nella seconda parte cerca di parlare il più possibile con i detenuti incolpevoli, che non sanno capire o spiegare ciò che sta loro accadendo. Come non vedere in questo piccolo nitido libro un annuncio delle rivolte in corso e di quelle che ci saranno, rivolte a rovescio, i secondini che hanno paura dei prigionieri e cercano (con i giochi lugubri dei bastoni, dei sassi, delle bombe carta) di eliminarli, tenendo testa persino alla polizia, forzata a rappresentarli più che a tenerli indietro perchè tutti, compresi giornali cauti nel narrare, sono parte della stessa cultura “Salvini”, del mondo dei “rivoltosi brava gente”?

Corriere 17.11.14
Le periferie disperate che i romani non vedono
di Pierluigi Battista


n quasi sessant’anni di vita a Roma (sia pur con corposi tradimenti milanesi) non avevo mai visto Tor Sapienza e Corcolle. Anche l’altra sera in un’animata discussione tra gente dei quartieri alti sul Babuino pedonalizzato, si è constatato che nessuno aveva messo mai piede a Tor Sapienza e Corcolle. Perciò ho letto l’ottimo reportage di Goffredo Buccini dalle trincee del degrado metropolitano di Tor Sapienza e Corcolle con lo stesso senso di stupore di una lettura dei grandi etnologi e antropologi. Mi sono specchiato come un romano baciato dal privilegio di un autobus o di una farmacia aperta che non sa nulla della vita di centinaia di migliaia di altri romani recintati nelle periferie urbane. Perché quando fa buio Roma non è una. C’è quella della grande bellezza poverina, delle esuberanze super-alcoliche di una sguaiata movida. E quella che esplode nella violenza e nella paura quotidiana. La Roma degli insider e quella degli esclusi. La Roma monumentale e quella degli invisibili. Perciò gettare la croce addosso agli esclusi, ai dannati, ai reietti non è cosa buona e giusta. Trasferiamo a Piazza di Spagna, o a Prati o ai Parioli (non ad Acilia) la bomba umana che le autorità concentrano nelle riserve degli invisibili. E poi vediamo dove va a finire il nostro argomentare beneducato.
   È appena uscito, con nuovi arrangiamenti, una raccolta meravigliosa di canzoni di Francesco De Gregori: «VivaVoce». Nella sua «Storia» canta versi che sono un inno alla dignità umana: «La storia siamo noi, siamo noi queste onde del mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare». La storia, però, non sempre è di tutti. Perché c’è un «noi» che non esiste, rinchiuso nell’incubo di una vita ingiusta e piena di pericoli, a qualche chilometro dalla cupola di San Pietro. E che rompe il silenzio, come in questi giorni, con un «rumore» che ci appare quasi insopportabile. La storia non sono «loro». Sono loro quando l’esasperazione tracima e si fa rabbia incontenibile e allora accorrono le telecamere e dal nulla, dal terrore quotidiano, gli esclusi e invisibili «esistono». Non votano più. Si sentono estranei. Senza scampo. Cosa cova lì sotto? Altro che ditini alzati, con rimproveri professorali. E non ci sono Pasolini e Walter Siti a raccontarci la vita di quelle che un tempo venivano chiamate «borgate» e oggi sono solo «periferie». E nemmeno un Carlo Levi a scrivere che «Cristo si è fermato a Tor Sapienza».

Corriere 17.11.14
L'
operazione Triton e Frontex
Bruxelles respinge la nostra Marina
di Fiorenza Sarzanini


La Marina Militare ha chiesto ai responsabili del programma europeo Frontex di affidare ai generali italiani il comando della nuova operazione Triton sul contrasto all’immigrazione irregolare. È scontro con l’Ue.
La sfida della Marina a governo e Ue: «A noi il comando dell’operazione Triton» Lettera a Bruxelles per un ruolo di primo piano come in «Mare Nostrum». Ma l’Europa dice no ROMA Ormai è un vero e proprio scontro istituzionale che coinvolge anche l’Unione europea. La Marina Militare italiana ha chiesto ufficialmente ai responsabili di Frontex di affidare ai propri generali il comando dell’operazione «Triton» sul contrasto all’immigrazione irregolare. Pur consapevoli che deve essere il dipartimento del Viminale a gestire ogni fase della missione e dopo aver cercato di ottenere una proroga di «Mare Nostrum», i vertici hanno sollecitato, dieci giorni fa, il trasferimento del coordinamento dell’operazione avviata il primo novembre scorso da Pratica di Mare, dove ha sede il centro aeronavale della Guardia di Finanza, al proprio centro operativo di Santa Rosa.
La replica di Bruxelles è stata durissima nel respingere l’istanza , ma la vicenda potrebbe non essere ancora chiusa. E ciò rischia di creare non poche conseguenze nei rapporti internazionali, anche tenendo conto che sono 17 gli Stati membri ad aver aderito con mezzi e uomini ai pattugliamenti nel Mediterraneo. Ecco perché è possibile che si renda necessaria una presa di posizione dei ministri delegati alla gestione dell’emergenza, dunque i titolari dell’Interno, Angelino Alfano, e della Difesa, Roberta Pinotti.
Gli ammiragli
La contrarietà della Marina a qualsiasi nuovo intervento nel Mediterraneo è apparsa evidente sin dalle scorse settimane, quando il governo ha prima anticipato e poi stabilito con un decreto che «Mare Nostrum» sarebbe terminata. Ancor prima che si riunisse il Consiglio dei ministri per fissare la data di chiusura, l’ammiraglio Filippo Maria Foffi — comandante in capo della flotta italiana e dunque responsabile della missione nelle acque del Mediterraneo — va a Bruxelles e dichiara: «Andiamo avanti, non abbiamo ricevuto alcun ordine ufficiale e dunque proseguiremo anche quando inizierà “Triton”, la nuova operazione Frontex nel mar Mediterraneo, per facilitare un passaggio di consegne efficace e senza problemi di sorta».
Sembra una sorta di sfida al ministro dell’Interno che invece aveva più volte manifestato la volontà di interrompere la missione. Ed evidentemente non bastano le precisazioni che arrivano il giorno dopo, né la scelta dell’esecutivo di coinvolgere anche la Marina nell’operazione «Triton» sia pur con una presenza esigua. Perché a neanche una settimana dall’avvio, le istanze si fanno ancor più decise. Con una richiesta indirizzata direttamente al direttore esecutivo di «Frontex», Gil Arias, la Marina chiede il trasferimento del Coordinamento a Santa Rosa e dunque un ruolo di comando.
Il «no» di Bruxelles
La risposta di Arias è immediata e categorica nel respingere la richiesta ribadendo che «”Triton” è stata pianificata indipendentemente da “Mare Nostrum”» e che «non esiste alcuna complementarietà tra i due interventi». Non solo. Da Bruxelles si fa notare che si tratta di un’operazione di polizia varata con un protocollo siglato da tutti gli Stati partecipanti e dunque sarebbe «necessaria, ma improponibile, una rinegoziazione del piano», soprattutto tenendo conto che mezzi e uomini hanno già cominciato l’attività. Una posizione netta, però non è scontato che basti a risolvere la questione. Anche tenendo conto dei tempi che il governo italiano si è dato per smobilitare «Mare Nostrum».
L’intervento deciso nell’ottobre 2013, dopo il naufragio davanti a Lampedusa che provocò oltre 300 morti, prevedeva l’impiego delle navi della Marina sin davanti alle coste libiche con un costo per l’Italia di circa 9 milioni di euro al mese. Nonostante le rassicurazioni iniziali, Bruxelles non ha infatti mai voluto partecipare a «Mare Nostrum», ritenendo anzi che si trattasse di una missione che rischiava di incoraggiare le partenze dall’Africa verso l’Europa e quindi non ha previsto alcun finanziamento. E questo ha certamente creato numerosi problemi con il governo italiano, fino alla scelta di procedere poi insieme sia pur con modalità completamente diverse.
Mezzi già schierati
I numeri dimostrano che in un anno sono state salvate e accolte migliaia di persone, ma il governo ha comunque ritenuto che non si trattasse di un impegno sostenibile e ha preferito inserirsi nel programma internazionale, mantenendo comunque il coordinamento delle attività anche perché si tratta di presidiare i confini italiani, ancor prima di quelli europei.
La missione — che prevede l’impiego di 25 mezzi navali e 9 aerei con una spesa mensile di 2 milioni e 900 mila euro — ha obiettivi dichiarati: pattugliare il mare a trenta miglia dalle nostre coste per contrastare la migrazione irregolare, naturalmente prevedendo anche il soccorso in caso di emergenza che deve essere gestito e coordinato dalla Guardia Costiera. Un dispositivo contro il quale la Marina Militare continua a manifestare aperta contrarietà.

La Stampa 17.11.14
Il Paese con più catastrofi in Europa
Oltre 2 mila morti negli ultimi 50 anni
A rischio 4 Comuni su 5. L’esperto: colpa di chi ha costruito negli Anni 60
di Andrea Rossi


Oggi è il 17 novembre. Nel 1929 una frana investì un casolare a Osilo (Sassari): otto morti, quattro feriti e 50 sfollati. Ieri era il 16 novembre. Nel 1991 la Toscana e l’Umbria finirono sott’acqua: quattro morti, un disperso e 200 sfollati. Ce n’è anche per la giornata di domani, 18 novembre: nel 2013 frane e inondazioni in Sardegna, 17 morti, un disperso e 2mila sfollati. In pratica non c’è giorno del calendario che non sia coperto da un disastro.
«Dopo la Grecia tocca a noi» è il mantra che sentiamo ripetere quando si ipotizza il default dell’Italia. In questo caso l’ordine andrebbe invertito: i peggiori siamo noi, i greci vengono subito dopo. Non esiste in Europa paese maggiormente colpito da ogni tipo di catastrofe naturale: terremoti, frane, inondazioni, tornado, grandine, valanghe. Frane e inondazioni - fenomeni spesso correlati - negli ultimi cinquant’anni hanno provocato 2007 morti, 87 dispersi, 2578 feriti e 423.728 sfollati. «Dal Dopoguerra a oggi non è passato anno senza un morto», rivela Fausto Guzzetti, direttore dell’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del Cnr. Il 2014, poi, sarà da ricordare: quattordici tra frane e inondazioni solo nei primi sei mesi dell’anno, con 9 morti, 12 feriti e 4856 persone evacuate.Perché? «La causa principale è il clima: è un anno particolarmente piovoso», spiega Guzzetti. «Nell’ultimo secolo si sono verificate forti oscillazioni, periodi caratterizzati da disastri (gli anni 50-60) e altri di relativa calma ( gli anni 80-90». Mai, però, abbiamo evitato i morti.
Secondo un report del ministero dell’Ambiente, datato 2008, in 6633 comuni su 8071 esistono aree a rischio. In ogni singolo comune di Calabria, Molise, Basilicata, Umbria, Valle d’Aosta e Provincia di Trento c’è almeno una zona è pericolosa. Stime che gli esperti suggeriscono di prendere con le pinze: non è semplice eseguire una mappatura completa del territorio, senza contare che di frequente sono gli stessi comuni a fornire i dati. Meglio stare ai fatti: la Protezione Civile ha individuato 134 zone di allerta sul territorio, si va da un minimo di due in Trentino–Alto Adige a un massimo di 25 in Toscana. Il Servizio geologico ha anche censito 480 mila frane. «Ma noi siamo in grado di dimostrare che ne esistono molte di più», dice Guzzetti. Un anno fa ha ispezionato due comuni delle Marche colpiti da un’alluvione, Rocca Fluvione e Arquata del Tronto: «Solo lì ne ho trovate 1600».
Mancano i soldi per trovare le altre. «A noi, come ai meteorologi, ai sismologi, chiedono di essere sempre più precisi. Ma senza spendere un euro. Ci mandano in guerra con le pistole ad acqua». Così passiamo da un disastro all’altro. Ottobre 1954: colate di fango e detriti invadono Salerno e cinque paesi accanto, 318 fra morti e dispersi, oltre 5 mila sfollati. Ottobre 1970: i fiumi Polcevera, Leiro e Bisagno valicano gli argini e inondano Genova, 35 morti e 8 dispersi. Luglio 1987, Valtellina: 35 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal monte Zandilla e precipitano nell’Adda, 49 morti e 12 dispersi. Potremmo proseguire a lungo. «In Italia questi fenomeni si verificano con particolare frequenza almeno per tre motivi», spiega Guzzetti. «Una forte densità di popolazione (60 milioni in 301 mila chilometri quadrati), un’altissima densità di abitazioni e un territorio fragile. In più gli italiani ci hanno messo del loro». Alcune regioni, vedi l’Umbria, sono coperte da frane per il 10-15% del territorio. E le frane si muovono. «È fisiologico e non sarebbe un problema se non fosse che su queste frane, sopra, sotto, accanto, dentro, si è costruito. Erano anni, soprattutto il Dopoguerra, in cui si teorizzava lo sviluppo edilizio senza limiti. E, probabilmente, mancavano le conoscenze e gli strumenti di cui disponiamo noi. È stato un errore, anche dal punto di vista economico. Ma lo possiamo dire solo ora».

Repubblica 17.11.14
Le cause del dissesto
Lo scaricabarile sulle alluvioni nell’Italia che non sa fermare il cemento
Dalla Liguria al Veneto, mezzo secolo di delirio edilizio che ha mangiato oltre 5 milioni di ettari di campagna
E mentre il Paese frana sotto la pioggia, passa la legge voluta dal governo che sblocca i nuovi cantieri
di Tomaso Montanari


LASCIA interdetti lo scaricabarile tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Liguria sulle responsabilità del dissesto del territorio italiano. E non solo perché è indecoroso mettersi a discutere mentre i cittadini e la Protezione civile lottano contro il fango: ma anche perché la questione è troppo maledettamente seria per liquidarla a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni tagliate con l’accetta.
Andrà scritta, prima o poi, la vera storia della cementificazione dell’Italia. Quella storia che oggi ci presenta un conto terribile. Andranno identificati, esaminati, valutati i giorni, le circostanze, i nomi, le leggi nazionali e regionali, i piani casa, i piani regolatori, i condoni, i grumi di interesse che — tra il 1950 e il 2000 — hanno mangiato 5 milioni di ettari di suolo agricolo. E che solo tra il 1995 e il 2006 hanno sigillato un territorio grande poco meno dell’Umbria, in un inarrestabile processo che oggi trasforma in cemento 8 metri quadrati di Italia al secondo: come ci ricorda un prezioso libretto di Domenico Finiguerra.
Per dare un titolo a questa brutta storia, negli anni Settanta Giorgio Bocca, Indro Montanelli e Antonio Cederna parlarono di “rapallizzazione”: perché Rapallo e tutta la Liguria erano il luogo simbolo della distruzione del paesaggio e della deformazione delle città. Per sapere che quella regione non ha cambiato verso, non importa leggersi le statistiche che ci dicono che, tra il 1990 ed il 2005, in Liguria si è massacrato il territorio più che in Calabria e in Campania: basta accendere la televisione.
Ma è stato tutto il Nord a pensare che lo sviluppo fosse perfettamente sinonimo di cemento. E continua a pensarlo.
Quando, nel maggio scorso, un cittadino di nome Gabriele Fedrigo ha esposto fuori dalla sua finestra due striscioni con su scritto «Basta cemento» e «Acqua e aria sane», il suo Comune lo ha diffidato, perché avrebbe attentato al decoro urbano. Il comune era Negrar, in Valpolicella: quello che ha dato origine alla parola “negrarizzazione”, che vuole dire «urbanizzazione speculativa, e al di fuori di ogni controllo» (Dizionario Treccani).
È stato l’architetto veronese Arturo Sandrini a coniare questo termine, in un articolo del 1997 in cui invitava a ribellarsi al processo che ha trasformato Negrar, la Valpolicella e tutto il Veneto «quasi in un’unica immensa area urbanizzata, dov’è difficile trovare qualche zona non interessata da quel delirium edilizio, fatto di orridi capannoni prefabbricati, naturalmente uno diverso dall’altro, di ville, villette e villone, ovviamente non quelle venete, che giacciono invece impietosamente abbandonate». Sandrini non era solo. Quando Fedrigo (che non scrive solo slogan, ma ha anche pubblicato il libro di ri- ferimento sulla Negrarizzazione. Speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga della bellezza , 2010) è stato diffidato, la Valpolicella si è riempita di identici striscioni. Ne è comparso una perfino sulla villa Serego Alighieri: la residenza che nel 1353 fu comprato dal figlio di Dante, Pietro, e che dopo ventuno generazioni è ancora di proprietà dei discendenti diretti del poeta.
Ma se questa storia diventa esemplare, se si può parlare di una “negrarizzazione” dell’Italia intera, è proprio perché la sua morale risponde in modo concreto alle domande di queste ore: di chi è la colpa? A Negrar non c’è stato un singolo mostro, l’orco speculatore. Né c’era una povertà da cui riscattarsi di colpo. E non c’è stato nemmeno l’abusivismo: non c’è un solo edificio fuori della legge, a Negrar. La Valpolicella aveva una bellezza naturale struggente, aveva la storia, aveva un vino spettacolare: un’economia solida. Ma questo non è bastato: era troppo lento. La speculazione edilizia è come una droga: tutto corre più veloce. E allora una comunità — senza che nessuno la costringesse — ha deciso di eleggere politici disposti a corrompere le leggi, perché le leggi corrotte permettessero di corrompere l’ambiente. Legalmente. Il motto del ventennio berlusconiano — “padroni in casa propria” — è stato applicato nel modo più radicale e devastante: fino a distruggere la casa stessa. E infatti il sinonimo perfetto di “negrarizzazione” è “irresponsabilità”: l’idea bestiale che non importa chi sarà a pagare il conto. Anche se saranno i nostri figli: anzi noi stessi, solo qualche anno — o qualche temporale — dopo. E non siamo usciti da questa storia: basta vedere quante resistenze, e quanto violente, sta incontrando l’ottimo Piano Paesaggistico della Regione Toscana, finalmente vicino all’approvazione.
Allora vorremmo che il Presidente del Consiglio pensasse al futuro, e non al passato. Che invece di sostituirsi ai giornali e agli storici nella ricerca delle responsabilità, egli si chiedesse cosa può e deve fare il suo governo. Che invece di pensare alle leggi regionali, pensasse a quelle che sta firmando lui.
Vezio De Lucia ha spiegato ( Nella Città dolente , 2013) che la storia del cemento cominciò davvero quando la Democrazia Cristiana rinnegò Fiorentino Sullo e la sua ottima legge urbanistica, che ci avrebbe lasciato un’Italia diversa. Era il 1963: cinquant’anni dopo il governo di Matteo Renzi fa lo stesso errore, approvando lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi, che è una legge fatta per portare a compimento la “negrarizzazione” dell’Italia. Una legge che bisognerebbe avere il coraggio di ripensare radicalmente anche se è appena uscita sulla Gazzetta Ufficiale. Anzi, una legge che bisognerebbe avere il coraggio di rottamare.

Corriere 17.11.14
Un piano speciale per ricominciare
Il disastro dovuto al maltempo era già tutto scritto
Lo scrisse Indro Montanelli, raccontando la cecità con cui stavano seppellendo la Liguria sotto il calcestruzzo
di Gian Antonio Stella

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il Fatto 17.11.14
Meglio argini e ospedali oppure le grandi opere?
di Domenico Finiguerra


Nelle montagne dell’Appennino ligure sotto le quali dovrebbe passare il tratto finale della linea ferroviaria ad alta velocità del “luminoso” corridoio Genova-Rotterdam, il cosiddetto Terzo Valico, c’è un’elevata probabilità che scavando si trovi amianto. Ma questo è solo uno dei dettagli che resta ignorato dal dibattito politico italiano.
Il Terzo Valico è un progetto lungo 53 km, di cui 39 in galleria, che accorcerà se va bene di una mezz’oretta il tempo di percorrenza dei treni dal porto di Genova a Tortona-Novi Ligure. Ma anche questo è un dettaglio che non annunciano al TG delle otto.
In compenso ci vengono quotidianamente elencate le bordate che arrivano per demolire lo stato sociale e il sistema pensionistico, le sforbiciate al trasporto pubblico locale, le carenze di posti negli asili nido, le chiusure di ospedali e di reparti di pronto soccorso.
Il tutto è motivato dalla mancanza di risorse, ovviamente. È colpa delle politiche di austerity, dei diktat della trojka, del patto di stabilità che il nostro tweetpremier Renzi pensa di poter abbattere a colpi di hashtag (se cominciasse a chiedere le dimissioni di Junker, visto che lui lo ha votato...).
Insomma, non ci sono i soldi! Ce lo ripetono in tutte le salse. Abbiamo raschiato il fondo del barile. Però, per realizzare il Terzo Valico, i 6,2 miliardi si sono trovati. Così, per chiarire un po’ meglio le cose agli italiani distratti ed ammaliati dalla retorica delle grandi opere, facciamo un piccolo esercizio matematico e compiliamo un breve elenco di cose utili che ci tolgono o ci mancano perché la priorità sono appunto le grandi opere come il Terzo Valico:
6 centimetri di Terzo Valico = 1 anno di pensione. 100 metri di Terzo Valico = 1 anno di libri di testo per 40 mila studenti delle scuole superiori. 500 metri di Terzo Valico = 7 treni pendolari completi. 1 km di Terzo Valico = 116 asili nido per un totale di 8.700 bambini. 2,5 km di Terzo Valico = 1 ospedale da 600 posti letto, 18 sale operatorie e 150 ambulatori. Tutto il Terzo Valico = 350 treni pendolari, 10 ospedali da 600 posti letto, 180 sale operatorie, 1500 ambulatori medici e 250 asili nido. Solo con questo, l’Italia sarebbe un altro paese!
E l’elenco potrebbe essere ancora più lungo se considerassimo tutte le grandi opere e i grandi eventi inutili e dannosi per il territorio.
Una stima dell’Unione delle Province ha calcolato in 5 miliardi la somma necessaria per mettere in sicurezza tutte le scuole d’Italia. Uno studio del 2012 del Ministero dell’Ambiente ha calcolato in 41 miliardi la cifra per prevenire il dissesto idrogeologico. Sarebbero queste le priorità, i capitoli con i maggiori stanziamenti. E invece, il Ministro Lupi dichiara che se fosse per lui si farebbe anche il Ponte sullo Stretto. Per ora si accontenta del Terzo Valico. E di molto altro. Tanto se gli ospedali chiudono, se piove nelle scuole e se non si realizzano argini la colpa è della Trojka.

Repubblica 17.11.14
Maltempo, le Regioni attaccano Renzi: “I condoni li hanno sempre fatti i governi”
Dalla Toscana alla Puglia: “Noi fermiamo il cemento, lui no”
E dopo le polemiche Palazzo Chigi frena: “Ora pensiamo ai danni”
di Corrado Zunino


ROMA Ho vent’anni di politica del territorio da rottamare, ha detto il premier Matteo Renzi. «Anche in regioni del centrosinistra». Con il sole che torna a scaldare la Liguria dopo cinque giorni di pioggia, il presidente della Regione Claudio Burlando è il primo a rispondergli: «Il problema del territorio è legato anche ai condoni edilizi. Non li ha fatti il premier e non li abbiamo fatti noi, sono stati fatti a Roma. Tre condoni in trent’anni». La Liguria è devastata. «Abbiamo danni per un miliardo. Come enti locali potremo arrivare a cento milioni, poi deve intervenire il Patto di stabilità». L’assessore ligure al Bilancio, Pippo Rossetti, propone a Renzi: «Deve chiedere un intervento finanziario straordinario dell’Unione europea, i trattati lo consentono. E deve chiedere di togliere dai vincoli di bilancio dello Stato cento miliardi per un piano straordinario nazionale di difesa del suolo».
È duro con il premier anche il governatore della Toscana, Enrico Rossi: «Noi abbiamo già rottamato», assicura, «abbiamo approvato la legge che blocca il nuovo consumo di suolo, fatto la legge per il divieto di costruire nelle aree a rischio idraulico, approveremo a breve il piano del paesaggio. La Toscana è un esempio, non mi sembra si possa dire altrettanto della proposta avanzata dal ministro Lupi». Rossi si riferisce al contestato Sblocca Italia che finanzia autostrade, trafori e allenta i vincoli ambientali sulle nuove opere. Il presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino, dice di non sentirsi toccato: «Sono alla guida della Regione da quattro mesi, i problemi sono parecchi e sto provando a risolverli, anche proponendo di sforare il Patto di stabilità».
I governatori leghisti non vogliono fare polemica. Luca Zaia, alla guida del Veneto: «L’Italia ha bisogno di un piano Marshall sulla tutela dal dissesto idrogeologico. In Veneto in quattro anni abbiamo messo in piedi 925 cantieri per realizzare i grandi bacini di laminazione. In un momento di emergenza servirebbero poteri speciali ed esclusivi ai governatori, più risorse ai territori». Quindi Roberto Maroni, presidente della Lombardia: «Tutti hanno responsabilità e Renzi ha un’occasione per dare una risposta concreta. Il governo deve finanziare le vasche per contenere le piene del fiume Seveso a Milano. Ci sono venti milioni della Regione e dieci del Comune, mancano gli ottanta promessi dal governo». Nichi Vendola, dalla Puglia: «Non ci sentiamo chiamati in causa dalle parole del presidente Renzi, il monitoraggio della task force di Palazzo Chigi sul rischio idrogeologico ci dava fra le regioni che avevano realizzato la quasi totalità degli interventi. Questa tipologia di lavori, molto complicata, andrebbe ripensata. Molti interventi di competenza del ministero dell’Ambiente sono bloccati e le parole di Chiamparino sono vere: gli investimenti per la messa in sicurezza del territorio dovrebbero stare fuori dal Patto di stabilità».
In serata Renzi ha voluto fermare il conflitto istituzionale, ma ha ribadito che in alcune regioni si è costruito troppo e male: «Non parlino di condoni a me che da sindaco ho fatto un piano strutturale a volumi zero». Il premier ha poi ricordato di avere appena varato l’unità di missione contro il dissesto idrogeologico: «Ora mettiamo a posto i danni e poi cambieremo le regole». Il verde Angelo Bonelli ha difeso Renzi e ricordato che il presidente della Regione Liguria, Burlando, «ha approvato un piano casa che riempie di cemento la Liguria e ridotto il limite di edificazione dai fiumi a tre metri». Beppe Grillo attacca sul suo blog: «Tra un po’ Genova scivolerà in mare e nessuno avrà alcuna responsabilità. Renzie ( come chiama il premier) e Alfano hanno morti di pioggia sulla coscienza». Oggi il sottosegretario Graziano Delrio e il prefetto Franco Gabrielli saranno a Genova, Alessandria e Milano.

il Fatto 17.11.14
Scontro con Burlando
Pure la pioggia, Renzi crolla nei sondaggi
di Stefano Feltri


Alla fine qualcosa ha dovuto dire, dal lontano G20 australiano: “Quando come primo atto di governo ho costituito un’unità di missione contro il dissesto idrogeologico mi hanno deriso. Ora spero sia chiaro il motivo: ci sono vent’anni di politiche del territorio da rottamare, anche in alcune regioni del centrosinistra”, dice il premier Matteo Renzi. Gli risponde subito Claudio Burlando, il presidente della Regione Liguria e da vent’anni ai vertici della politica ligure, che stima un miliardo di danni dovuti all’alluvione e ne attribuisce la colpa ai “condoni edilizi. Non li ha fatti il premier e non li abbiamo fatti noi, ma sono stati fatti a Roma. Tre condoni in 30 anni”. E Beppe Grillo: “Hanno i morti di pioggia sulla coscienza”.
Fin dall’alluvione di un mese fa su Genova, Renzi ha evitato le zone dei disastri (non si è visto neppure a Carrara o Chiavari). Nei prossimi giorni a fare un sopralluogo andrà, per il governo, soltanto il sottosegretario Graziano Delrio. Il premier sa che rischia di prendere soltanto fischi e uova, come nelle ultime uscite pubbliche. A palazzo Chigi il portavoce e spin doctor Filippo Sensi avrà molto lavoro da fare al rientro dall’Australia. Perché Renzi, per la prima volta nella sua carriera politica, ha un problema di immagine e di consenso. “Ora Renzi paga la crisi, fiducia giù di 10 punti: il Pd cala al 36 per cento”, titolava ieri un quotidiano solitamente positivo sul governo come Repubblica. Il dato più forte nel sondaggio curato da Ilvo Diamanti con Demos è questo: la fiducia nel premier passa dal 62 al 52 per cento in un mese, tra ottobre e novembre. Un tracollo che, come sempre nei sondaggi, si sfuma un po’ leggendo i dettagli: la fiducia è misurata come “valori percentuali di quanti esprimono una valutazione uguale o superiore a 6”. Il confronto con i picchi di consenso a giugno, dopo le elezioni europee e soprattutto dopo l’operazione 80 euro, è impietoso: allora i favorevoli su Renzi registrati da Demos erano il 69 per cento.
IL PREMIER RESTA di gran lunga il leader più forte, secondo tutti gli istituti di sondaggi è più popolare anche del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E il primo posto nelle intenzioni di voto resta saldamente del Pd: nel sondaggio di Ilvio Diamanti è al 36,3 per cento, le altre rilevazioni uscite in settimana (da Ipsos a Datamedia) lo danno un po’ sopra, tra il 38 e il 39 per cento circa. Eppure qualcosa si sta incrinando.
Ogni istituto di sondaggi ha un modo diverso di misurare la fiducia nel governo e nel premier, ma il risultato pare univoco: è in calo. Non vengono indagate nel dettaglio le ragioni, ma si possono intravedere due spiegazioni possibili: secondo l’analisi di Demos, il governo Renzi è molto popolare (tra il 71 e il 73 per cento) tra chi è convinto che nei prossimi 12 mesi la disoccupazione scenderà e l’economia migliorerà. Sono quelli che hanno fiducia nelle promesse di un miracolo renziano che nei numeri per ora non si vede: il Pil continua a scendere, -0,4 per cento è la stima sul 2014, e la disoccupazione è stabile al 12,6 per cento (scendono gli scoraggiati, che si rimettono a cercare lavoro, ma di poco). La fiducia in Renzi tra i pessimisti è molto più bassa, tra il 27 e il 30. E questo è pericoloso per il premier perché indica che il consenso è legato all’ottimismo: peggio va l’economia reale, minore sarà la fiducia. Renzi non è percepito come un crisis manager affidabile, ma come un profeta di miracoli.
SECONDO DATO: Swg ha posto questa domanda a 1000 persone: “Alcuni sostengono che bisognerebbe sgombrare tutti i campi Rom in Italia. Lei condivide questa posizione? ”. Gli intervistati non hanno dubbi, il 46 per cento condivide pienamente, il 31 in parte. Significa che il 77 per cento degli italiani è a favore degli sgomberi (per mandare i Rom dove non si sa). Posizioni così nette (e omogenee sul territorio nazionale) sono a tutto beneficio dell’ascesa di Matteo Salvini e della sua Lega (che per Swg è salita dal 6,8 per cento di maggio al 9,8 di oggi). Mentre Renzi non potrebbe cavalcare i temi della paura e della sicurezza senza compromettere il suo messaggio centrale di ottimismo e speranza.

il Fatto 17.11.14
Caro Renzi, per la Liguria fatti e non tweet
Basta grandi opere e politici logorati dagli scandali
di Ferruccio Sansa


Basta chiacchiere. Basta dichiarazioni. Basta tweet. Presidente Renzi, se vuole aiutare la Liguria servono fatti. Subito.
Lo deve a una regione che ha contribuito tra le prime all’Unità d’Italia. Che ha conquistato la medaglia d’Oro per la Resistenza. Lo deve a due milioni di persone che pagano le tasse allo Stato, ma che soprattutto si sentono ancora italiani nel profondo.
Per salvare la Liguria servono grandi investimenti: un miliardo per mettere in sicurezza il territorio di tutta la regione. Per scongiurare altre tragedie. Per salvare attività economiche e posti di lavoro. Non solo: perché prevenire costerebbe comunque molto meno che rimediare ai danni catastrofici.
I soldi ci sono: il Governo nelle scorse settimane ha deciso di spendere quattrocento milioni per il Terzo Valico, un’opera di dubbia utilità, che per certo riempirebbe soltanto le tasche di banche e imprese. Ancora: il Tav ha visto lievitare i costi del 160 per cento, arrivando ormai oltre i 7 miliardi. Per non parlare dell’autostrada Mestre-Orte da dieci e passa miliardi, voluta dall’imprenditore Vito Bonsignore, politico di centrodestra, ben conosciuto da tanti esponenti del centrosinistra.
Prima di investire in queste grandi opere il Governo deve salvare la Liguria (investendo un ventesimo). Se non lo farà, non avrà scuse. Il resto sono balle.
Non solo: Presidente, se Lei vuole ancora essere creduto, ci tolga immediatamente dai piedi questa classe dirigente che guida la Liguria da decenni e che oggi sventola la bandiera renziana. Parliamo prima di tutto del presidente della Regione, Claudio Burlando: mentre i liguri affondavano nel fango, dovevano anche leggere le intercettazioni di un imprenditore, Gino Mamo-ne, accusato di aver pagato mazzette e mignotte per assicurarsi gli appalti post alluvione. Lo stesso imprenditore confida ai suoi amici, sono parole dei pm, di poter ricattare Burlando per i loro passati rapporti. I liguri non possono vivere con il dubbio di essere guidati da un uomo legato a chi è accusato di rubare sugli appalti delle alluvioni.
Dov’era il Pd ligure mentre tanti suoi esponenti coltivavano rapporti alla luce del sole con i Mamone? Dov’erano i suoi ministri liguri Pinotti e Orlando, mentre si cementificava ogni centimetro quadrato libero e si realizzavano centri commerciali perfino nelle zone a rischio alluvione? Dov’erano? Tacevano, nella migliore delle ipotesi.
Presidente Renzi, se vuole essere creduto salvi la Liguria e ci liberi da questa classe dirigente. Il resto sono balle.

La Stampa 17.11.14
“Bisogna sapersi scusare ma no allo scaricabarile. Lo Stato faccia la sua parte”
Rossi (Toscana): “Più poteri commissariali alle Regioni
di Alessandro Barbera


Presidente Rossi, il premier vi attacca, dice che le Regioni hanno grandi responsabilità nel dissesto del territorio. Cosa risponde?
«Che ha ragione. Bisogna assumersi le proprie responsabilità fino in fondo, saper chiedere scusa ai cittadini. Io ad esempio l’ho dovuto fare per quanto accaduto a Carrara. Ma ricordo che qui ce ne è per tutti: Comuni, Province, Regioni, Parlamento. Sennò diventa uno scaricabarile».
La Regione che lei guida, la Toscana, è l’unica che ha subito adottato alcuni poteri commissariali concessi dal decreto sblocca-Italia. Se la sente di consigliare ai suoi colleghi di rimboccarsi le maniche?
«Consiglio a tutti di rimboccarsi le maniche, sfidare l’impopolarità e dire basta al consumo del suolo. Però, e torno al punto di prima, il governo deve fare la sua parte».
Ovvero?
«Primo: deve riconoscere fino in fondo ai presidenti di Regione i poteri di commissario di governo. Faccio un esempio: se devo fare un intervento di prevenzione e le Ferrovie o l’Anas mi ignorano, io non ho il potere di intervenire. Stessa cosa dicasi se un Comune non approva una variante urbanistica. Secondo: gli interventi ambientali devono essere fuori del Patto di stabilità interno. Se non ricordo male il sindaco Renzi lo chiamava Patto di stupidità. Non si parla di miliardi, in Toscana basterebbe sforare di un centinaio di milioni di euro. Terzo: costringere i Comuni ad adottare subito le norme contro il consumo del suolo, perché altrimenti restano lettera morta». 
Dica la verità: si stava meglio con la Protezione civile di Bertolaso. 
«No. Quello era uno Stato parallelo senza controlli. Il problema è che in Italia il pendolo oscilla sempre paurosamente: siamo passati da quella struttura lì ad una che non ha né soldi né poteri. In ogni caso: sono d’accordo perché le Regioni facciano fino in fondo il loro dovere, fino al punto di dare al governo il potere di commissariare quelle inadempienti».
A giudicare dai casi emersi c’è anche una grande responsabilità delle burocrazie.
«Questo è uno strano Paese. Quando ci sono le alluvioni tutti si alzano e cercano un capro espiatorio. Passa una settimana e ti arriva la richiesta di derogare alle regole, di concedere la lottizzazione dove non si può. Capita che la burocrazia blocchi, ma capita anche che la burocrazia faccia il suo lavoro, dicendo dei sacrosanti no. La sinistra dovrebbe riappropriarsi della cultura della legalità e del governo del territorio, in questi anni non è stata all’altezza di una elaborazione culturale». 
Ma come, Renzi dice che occorre sbloccare e liberare, lei chiede più regole? Di questi tempi, con la crescita che langue il messaggio non è controproducente? Se si vieta di costruire che ne sarà dell’edilizia privata?
«Ci vuole equilibrio. Noi ad esempio abbiamo reso più semplici le regole per la ristrutturazione urbana. E poi ristrutturazione e riuso possono essere una grand spinta alla crescita tanto quanto le nuove costruzioni».
Lei diceva che occorre dire basta al consumo di suolo. Ma non lo aveva già fatto il governo Monti?
«Quella legge si limitava all’uso di suolo agricolo. Qui bisogna avere il coraggio di dire basta a nuove aree urbane e alle costruzioni nelle aree a rischio. Dopo Sarno una norma la si era scritta, ma sa come funziona in Italia: fatta la legge si trova l’inganno».

Repubblica 17.11.14
“Governo in calo? Sfidiamo l’impopolarità”
Dai dati Demos la prima “crisi di fiducia” per Palazzo Chigi e Pd
Guerini: toccati punti nevralgici, ma i conti si fanno a medio-termine
di Giovanna Casadio e Carmelo Lopapa


ROMA Calo di fiducia nel premier e nel Pd, il centrodestra che lievita alle spalle soffiando sulle paure e sulla crisi. Al Nazareno il campanello d’allarme è già suonato, stanno in guardia ma senza panico. È anche il messaggio che Renzi recapita dall’Australia, del resto. «Il premier sceso nella popolarità? Ma è sempre oltre il 50 per cento, tenuto conto che Hollande ha il 18... « tagliano corto dalla segreteria.
Alla rilevazione Demos, i Democratici contrappongono altri numeri, ma sanno che il momento è critico. Il vicesegretario Pd, Lorenzo Guerini, prova allora a ragionare: «La linea politica di un governo non può essere condizionata dai sondaggi del giorno, ma deve muoversi nell’orizzonte e nell’interesse del paese e le scelte possono anche avere qualche elemento di impopolarità ma nel medio termine i cittadini prendono coraggio e saranno contenti delle decisioni». Un governo e il partito di maggioranza devono sapere anche «sfidare l’impopolarità». Perché, ragiona sempre Guerini, «il governo sta lavorando su partite delicate con scelte che hanno determinato resistenze. Su alcune di queste scelte ci possono essere valutazioni differenti da parte degli elettori». Per la sinistra dem la minimizzazione è del tutto fuoriluogo. Pippo Civati dice che «i sondaggi cominciano a dire che c’è qualcosa che non va, ma si vedeva, il Palazzo si è staccato dalla politica e se il Pd diventa il Partito della Nazione farò altro». L’ex segretario Bersani bacchetta: «Nella società c’è un sacco di disagio e la politica finisce con l’essere comunicazione».
A destra, quello stesso sondaggio galvanizza gli animi, rianima i sostenitori del dialogo Fi-Ncd. Due partiti che, con la Lega di Salvini e i Fratelli d’Italia, raggiungerebbero percentuali non lontane dal Pd (finora) “tritatutto” di Renzi. Berlusconi ha già avviato le manovre di abbordaggio. Alfano frena, non vuol dare l’impressione che il «ritorno a casa» sia cosa fatta e semplice, non tutti i suoi lo vogliono, per altro. Intervistato da Maria Latella a Sky prende tempo: «Non sarà un percorso breve, sempre che ci siano le condizioni per rimettere insieme i cocci nel nome del Ppe. Ma Salvini e le sue brillanti idee si collocano in una destra estrema e non hanno nulla a che fare con il centrodestra. Lui è un problema per il centrodestra del futuro, perché lavora per una Lega forte ed un centrodestra perdente. Spero vada a sbattere». Una dichiarazione di guerra alla quale l’eurodeputato risponde a modo suo: «Ma chi è Alfano?». Messa così, la riunificazione ha poche chance, sebbene Roberto Maroni provi a spronare Berlusconi: «Nei sondaggi Salvini sta tallonando Renzi, il futuro passa dalla Lega». Il leader leghista ha chiaro che dall’abbraccio Berlusconi-Alfano lui e la sua potenziale leadership di coalizione resterebbero stritolati. Ma il dialogo tra Arcore e i vertici Ncd è ripreso. L’ex premier ha sentito Lupi e la De Girolamo sia prima che dopo l’incontro con Renzi sull’Italicum. Come pure si è riaperto un canale tra Alfano, Ghedini e Toti. In settimana Quagliariello tornerà a vedere l’ambasciatore forzista per le Regionali 2015, Altero Matteoli. E il viceministro Ncd alla Giustizia, Enrico Costa — il quale ha riaperto il capitolo della modifica della legge Severino sulla retroattività tanto cara a Berlusconi — ammette che «c’è molto da lavorare, ma un processo di distensione è in atto». «Che aspettiamo? Siamo a meno di due punti dal Pd», rilancia Paolo Romani. Ma unire tutti, al momento, resta una chimera.

Corriere 17.11.14
Jobs act, regge l’accordo nel Pd
Civati si arrende: in pochi diremo no
Tsipras: è barbarie, resistete
Renzi: non basta più una piazza per la crisi di governo
di Alessandro Trocino


ROMA Anche Pippo Civati pare rassegnato: «Temo che la partita sia chiusa. Ci sarà qualche no, il mio di sicuro, spero quello di Cuperlo, Fassina e altri». Ma il Jobs act ha la strada spianata. Ieri è cominciato l’esame in commissione Lavoro della Camera dei 480 emendamenti: l’obiettivo è chiudere entro giovedì e arrivare in Aula venerdì. Matteo Renzi non recede e da Sydney incalza: «Basta con la filosofia del piagnisteo». Sulle proteste spiega: «Rispetto chi scende in piazza pacificamente, ma non sono più i tempi in cui bastava fare una manifestazione per mettere in crisi un governo. La realtà convincerà anche i più scettici ad arrendersi». Il premier accelera anche sulla legge elettorale e ironizza: «Se per eleggere il Papa fosse stata usata la legge elettorale del 2013, a San Pietro sarebbero usciti in quattro vestiti di bianco dicendo: ho vinto io».
L’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, dopo le dure critiche dei giorni scorsi, chiarisce la rotta: «La fiducia si vota, non possiamo pensare che questo Paese possa andare in una fase di instabilità». Quanto all’opposizione, spiega, «non bisogna immaginare queste aree come una falange, è un’iniziativa in costruzione». Naturalmente la minoranza dem non ha intenzione di smobilitare, come dimostrano gli attacchi di Civati: «Non voto cose che ammiccano a destra, all’elettorato di Berlusconi». A dar manforte alla sinistra pd arriva anche Alexis Tsipras, leader del partito greco Syriza, che nel suo intervento a Firenze alla giornata di incontri della sinistra, attacca il segretario italiano: «Ue e Italia sono in pericolo a causa di un dogmatismo dovuto all’austerità che può essere un suicidio, e sono messe in pericolo dal fatto che il vostro premier è tornato indietro, mettendo nell’agenda neoliberista i rapporti di lavoro». Tsipras invita all’unità e alla lotta: «Radicalizzazione a sinistra vuol dire far proprio un programma politico di resistenze contro la barbarie neoliberista. Questo lo vediamo in Spagna, Grecia, Irlanda e anche in Italia, con le proteste come lo sciopero generale della Cgil».
Ma, intanto, si procede con il Jobs act alla Camera. Cesare Damiano, presidente pd della commissione, tra i protagonisti della mediazione, è ottimista: «Se tutto fila liscio, si va spediti». Quanto ad altri aggiustamenti: «Se c’è qualcosa che non mette in discussione l’impianto della delega, si fa». Terreno minato, perché l’Ncd sembra intenzionato a resistere, come spiega il capogruppo in commissione Sergio Pizzolante: «I contenuti dell’articolo 18 sono quelli concordati tra il ministro Poletti e il senatore Sacconi e non quelli interni al Pd. Le modifiche al testo del Senato possono riguardare solo limitatissimi casi assimilabili ai licenziamenti discriminatori». Riferimento alla novità (rispetto al Senato) del reintegro per i licenziamenti disciplinari. Fattispecie che sarà dettagliata solo nei decreti delegati (emanati dal governo, dopo il via libera dato dal Parlamento con la legge delega).
Ieri è stato respinto un emendamento M5S che chiedeva la soppressione della delega, con 23 voti contrari e 15 a favore. In commissione, il governo conta su una maggioranza di 26 membri su 46 (21 pd, 2 ncd e 3 centristi). I 5 Stelle hanno contestato la maggioranza: Claudio Cominardi ha definito i parlamentari «burattini nelle mani di Renzi».

Repubblica 17.11.14
Sui licenziamenti disciplinari
Jobs Act, il Pd unito in commissione
di A. Cuz.


ROMA  Lo ha firmato tutto il Pd in commissione Lavoro, l’emendamento 1.538 al Jobs Act: quello che prevede che il reintegro per il licenziamento senza giusta causa non valga solo per i licenziamenti discriminatori, ma anche per alcune fattispecie di disciplinari. La tipizzazione è rimandata ai decreti attuativi, ma il punto politico (cui tiene molto il presidente della Commissione Cesare Damiano) è che - su questo - tutte le anime del Pd hanno tenuto. Ci sarà da battagliare ancora con l’Ncd, che vorrebbe che la legge uscita dal Senato non si cambiasse quasi per nulla, mentre l’impostazione di Damiano rimane quella di fare quanti più miglioramenti possibili. I tempi sono stretti: l’esame degli emendamenti (530, di cui 78 respinti, ma 18 riammessi) è cominciato ieri pomeriggio. Si andrà avanti a votarli fino a giovedì. Venerdì, la legge delega dovrebbe arrivare in aula (probabile fiducia sul testo della Commissione) per poi tornare al Senato.

il Fatto 17.11.14
“Il Nazareno aiuta Mediaset”. Bersani ha ragione a metà
di Carlo Tecce


Pier Luigi Bersani non è un esperto di mercati, ma ha notato che, il giorno dell'ultimo incontro tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, mercoledì 12 novembre, il titolo Mediaset ha allungato a +6,06 per cento mentre la Borsa italiana chiudeva a -2,8. Non sappiamo se la ritrovata sintonia tra i fondatori del patto del Nazareno abbia influito, senz’altro in favore di Cologno Monzese ha giocato la comunicazione agli investitori di una previsione di utile per quest’anno, nonostante una perdita di 46,8 milioni di euro nei primi nove mesi. In Spagna cresce la raccolta pubblicitaria di Mediaset e l’ingresso di Telefonica in Premium rafforza la l'offerta a pagamento, da sempre in sofferenza rispetto a Sky. Bersani non è un analista finanziario, ma spesso, e gli archivi testimoniano a suo supporto, un pranzo o una cena tra il giovane rampante e l’anziano claudicante hanno coinciso con una buona prestazione di Mediaset in piazza Affari, sebbene da inizio anno il titolo abbia perso il quasi il 15 per cento del suo valore.
I FACCIA A FACCIA tra il fiorentino e l'ex Cavaliere di Arcore sono otto, il primo avvenne il 18 gennaio al Nazareno, sede di quel partito democratico che sosteneva il governo di Enrico Letta. Il 18 era un sabato, dunque la reazione da rintracciare è di lunedì 20: -0,45%, una piccola oscillazione con tendenza al ribasso. Replica il 19 febbraio, timido aumento (+0,23), ma l’indomani è un crollo (-4,95%). Il 14 aprile si vedono a cena, il governo è instradato e le riforme accelerano e rallentano: il lunedì inaugura la settimana con un -0,46%, poi il martedì la discesa diventa spaventosa (-6,09%). Matteo & Silvio non avranno più contatti di persona sino al 3 luglio, in mezzo ci sono le elezioni europee. Quel giorno, un giovedì, Mediaset lievita grazia a un +3,87%, il venerdì termina la settimana con -1,44%. Ancora due ore a palazzo Chigi, il 6 agosto, e Mediaset non festeggia (-3%), lieve recupero giovedì 7 (+1,14%).
Al ritorno dalle vacanze, Renzi e Berlusconi si danno appuntamento il 17 settembre, un mercoledì, Mediaset va spedita con un +1,78%, il giorno seguente cede un punto e mezzo. A ottobre nulla. A novembre, due volte: il 5, di nuovo un mercoledì, è festa per il Biscione (+3,51%) seppur le propaganda provi a mettere a rischio il Patto: il 6 c'è un assestamento con un -0,6%, niente di grave. Mercoledì scorso (da notare che spesso, per caso, le agende sono sgombre il mercoledì), ecco il fragoroso +6 “segnalato” da Pier Luigi Bersani. Quando l’ex segretario era in campagna elettorale, febbraio 2013, proprio contro Berlusconi, un'azione Mediaset valeva circa 2 euro. Con Enrico Letta a palazzo Chigi, il Biscione ha sfiorato i 4 euro. Adesso procede verso i 3. Forse Bersani ha ragione a metà.

Repubblica 17.11.14
Matteo contro Matteo vincenti da telequiz
Adesso Renzi e Salvini si contendono l’Italia
Il leader leghista, secondo Demos, è il politico più gradito dopo il premier
Diversi eppure uguali, l’estremismo del lumbard rafforza il segretario dem
di Filippo Ceccarelli


PROVVIDA o improvvida che sia risuonata la designazione, giusto un anno fa, Bobo Maroni proclamò Salvini «il nostro Renzi». Entrambi divennero segretari nello stesso dicembre 2013. A distanza di quasi un anno, con un occhio ai sondaggi si può azzardare che nell’Italia populista del marketing e della post-politica quello dei due Mattei è un inedito caso di concordanza asimmetrica o asimmetria concorde. Nel senso che più il Matteo leghista conquista attenzione, più il Matteo democratico acquista un potenziale consenso.
E siccome nei giochi del potere a volte non è nemmeno necessario incontrarsi e fare patti, si può anche dire che più Salvini strilla in tv, gira minaccioso per campi rom, soffia sul fuoco della xenofobia, si contorna di fanatici, insomma più viene pompato dai media come l’unica alternativa a Renzi, più questi ha tempo, modo e opportunità di presentarsi come un premier riformatore sì, ma moderato, prudente, ragionevole e buono, addirittura.
L’inconfessabile spartizione dell’immaginario è quindi completa, a beneficio dei due omonimi leader e a discapito di tutti gli altri. Così il Matteo neo-lepenista si becca l’esclusiva del cattivismo; mentre al Matteo pseudo-blairiano si rivolgeranno, senza fare tanto gli schizzinosi, quanti hanno paura dei barbari alle porte (come in Francia nel 2002, quando Chirac vinse per paura della vittoria del Front National) Poi sì, certo, è difficile che i protagonisti siano disposti ad ammetterlo. Ma una volta inseriti in un quadro di manicheismo consensuale, oltre al nome di battesimo e alla data di esordio Salvini e Renzi mostrano diverse altre cosette in comune.
L’appartenenza alla medesima generazione: 41 anni il Matteo verde e nero, 39 il Matteo bianco-rosa. Poi un comune imprinting da vincenti in telequiz (l’evocativo “Doppio slalom” e la machiavellica “Ruota della fortuna”). Quindi una assai scarsa esperienza di lavoro, una modesta militanza di base e una rapida promozione nei ranghi alti del partito e degli enti locali. Tutti e due leggeri come i tempi postideologici in cui si sono forgiati. Perciò la distanza fra La Pira e il Jobs Act corrisponde a quella fra il separatismo di Pontida e l’alleanza con i giovani “nazionali” di Forza nuova. Si può aggiungere che Renzi e Salvini non paiono aver molto coltivato letture e studi, storici e umanistici meno che meno; e che anzi entrambi diffidano di intellettuali, studiosi, professori, spiriti critici e bastian contrari. La loro è una cultura eminentemente televisiva, legata alle immagini, influenzata dalla pubblicità e dai consumi, molto, ma molto calcistica nel senso di identità tifosa. Comune predisposizione alla musica, canzonette, fumetti, cartoni.
Se la cavano magnificamente con i social media: rapide sintesi, brillanti pensieri un po’ corti, qualche inciampo narcisistico. E come vengono bene in tv! Grande empatia, grande chiacchiera, ma nell’uno né l’altro ammetterebbero mai di avere grandi doti di attori; né di voler sembrare l’un l’altro più ostili di quello che sono. In realtà i due Mattei si bastano, e poco o nulla avanza in una contrapposizione così ben congegnata da risultare vantaggiosa per entrambi.

Corriere 17.11.14
«Senza corpi intermedi, un’Italia spaccata tra ribelli e caporali»
di Luciano Violante

ex presidente della Camera

Gli scontri di piazza tra polizia e manifestanti stanno diventando un prevedibile epilogo di quasi tutte le manifestazioni di protesta. Si denunciano le responsabilità della polizia o quelle dei manifestanti, a seconda della collocazione politica di chi parla. Ma la ragione di fondo è quella individuata da Giuseppe De Rita nel suo articolo di ieri. La crisi dei corpi intermedi, e gli attacchi a volte pregiudiziali ai quali essi sono sottoposti da qualche tempo, producono l’assenza di mediazione sociale e conseguentemente scontri sempre più duri.
Le responsabilità di sindacati e partiti politici negli ultimi anni sono gravi perché frutto di una visione più corporativa che propulsiva. Bisogna correggerne i difetti; ma si sta rivelando dannoso liquidare il loro ruolo nella società italiana. De Rita cita, a ragione, la funzione positiva dei sindacalisti di reparto, dei dirigenti delle rappresentanze datoriali, dei quadri di partito. Il loro lento inabissamento acuisce i conflitti e non risolve i problemi. Rischiamo di trovarci tra non molto in un Paese diviso tra ribelli e caporali. Il ribellismo, che a differenza della opposizione, è privo di un credibile progetto di governo, rischia di monopolizzare le piazze e le Camere. La caporalizzazione del sistema politico, nudo comando, secco e brutale, invece che etica della persuasione, appare come l’unica risposta possibile per superare i ribellismi. E si riproduce sino alla periferia del sistema, anche quando è dettato non dalla necessità, ma dalla comodità. De Rita connette correttamente l’indebolimento dei corpi intermedi alla crisi della rappresentanza. Ci sono difficoltà oggettive a rappresentare in modo propositivo una società spezzettata, che fa franare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa. Tuttavia riaccorpare gli spezzoni di società anche attraverso una loro efficace rappresentanza politica e sindacale fa parte del processo di civilizzazione del Paese. Un’autoriforma di sindacati e partiti in questa direzione converrebbe anche al governo. Le riforme costituzionali devono facilitare il referendum abrogativo, obbligare il Parlamento a decidere entro un termine fisso sulle proposte di iniziativa popolare, così come propone la riforma del Regolamento della Camera, non ancora all’esame dell’Aula, prevedere con tutte le cautele necessarie, forme di referendum propositivo.
Del tutto coerente con questa impostazione è una legge elettorale che dia ai cittadini elettori la possibilità effettiva di scegliere i propri rappresentanti anche in Parlamento, come già avviene per i Comuni, le Regioni e il Parlamento europeo. Questa esigenza era minore quando i partiti erano capaci di dirigere e di mediare. Oggi è cruciale per il superamento della distanza tra cittadini e politica, che non può essere affidato solo alla personalità, per quanto forte e indiscussa, di un unico leader.

Repubblica 17.11.14
Landini: “Renzi e i suoi non rispettano i lavoratori e così perdono elettori. Ma io non farò il politico”
Il leader Fiom: “Non manco di riguardo alle Camere, come dice il ministro Poletti. Semmai lo fa il governo che chiede di votare una legge delega in bianco per la riforma dei licenziamenti. Nessuno era arrivato a tanto”
“I parlamentari rappresentano il loro partito, non possono sostituirsi al sindacato, anche se ex-sindacalisti
Condanno le minacce a Taddei, ma non accetto lezioni da chi per primo non rispetta la democrazia”
intervista di Luisa Grion


ROMA A chi gli chiede di entrare in politica risponde che lui, segretario generale della Fiom, fa il sindacalista, ma «di un sindacato che rivendica un ruolo politico». E a chi lo accusa di non rispettare il lavoro del Parlamento così replica: «Non sono io, Maurizio Landini, a non rispettarlo. E’ il governo che non lo rispetta chiedendo di votare una delega in bianco sulla riforma del lavoro: nessun altro esecutivo era mai arrivato a tanto». In lui molti vedono la figura di riferimento della sinistra critica e la rilevazione Demos pubblicata da Repubblica assicura che mentre la popolarità del premier Renzi è in calo, la sua aumenta.
Landini, i sondaggi sono dalla sua parte, quando accetterà l’invito di chi la vuole in politica?
«Precisando che i sondaggi possono anche sbagliare - si è visto cosa hanno combinato sulle elezioni - rispondo che io non mi chiamo Matteo e non mi candido. Il mio mestiere è nel sindacato, un sindacato che il governo vorrebbe sminuire e confinare nelle aziende, ma che invece ha un ruolo politico e deve poter dire la sua, sul lavoro e non solo».
Non crede che, arrivati ad un certo punto, non ci si possa più tirare indietro? In lei molti vedono l’erede di Cofferati, che in politica ci è entrato.
«Abbiamo le nostre regole: chi ha fatto il segretario generale nella Cgil, nel sindacato non può più avere altri incarichi. Io sono segretario della Fiom, la mia strada non è finita».
Si sta proponendo come leader della Cgil?
«Io non mi propongo per nulla, non mi sono mai proposto, semmai ho accettato. La mia preoccupazione non è per cosa farò io fra tre anni, ma per cosa il governo sta facendo a questo Paese».
Qui secondo il ministro Poletti lei esagera, dice che non ha rispetto per il latrattare voro che il Parlamento ha fatto sul Jobs act.
«Non sono io a non avere rispetto. Siamo in presenza di un governo che chiede una delega in bianco di dubbia costituzionalità e che di fatto esenta il Parlamento del suo ruolo. Un governo che vuole cambiare il lavoro senza discuterne con le organizzazioni sindacali che rappresentano milioni di lavoratori, e senza tener conto di chi ha scioperato. Un governo che non è stato eletto dal popolo su questo programma, e un partito di maggioranza che non ha ancora capito che chi lo ha votato ora è contro di lui».
Fra chi la critica, c’è anche quella minoranza del Pd che il 25 ottobre era in piazza con Fiom e Cgil e che ora ha trovato una mediazione sulla riforma del lavoro. Non vi hanno rappresentato bene?
«Il punto è questo: il Parlamento non può per noi. I parlamentari rappresentano il loro partito, non possono sostituirsi al sindacato, anche se ex-sin dacalisti. E mi dispiace che non abbiano ancora capito che votando una delega in bianco, votano contro il Parlamento stesso. Noi invece rappresentiamo i lavoratori e lo dimostra il fatto che in piazza con noi e a scioperare con noi non c’erano solo gli iscritti e i simpatizzanti della Fiom e della Cgil: rifiutarci il confronto vuol dire ledere un principio della Costituzione».
Il premier non vi ha già risposto dicendo che il governo ascolta tutti e poi decide da solo?
«Renzi non solo non ascolta e non discute, ma non ha nemmeno capito che non ha più il consenso di chi lo ha votato. La verità e chi fa politica non capisce più cosa stia succedendo nel Paese: come non preoccuparsi del fatto che la metà degli italiani non vota più? Se metà del sindacato non sciopera io mi preoccupo».
Ecco parliamo di sciopero: stasera, sulla pubblica amministrazione, ci sarà un confronto a Palazzo Chigi fra governo e sindacati. Anche se riferita agli statali c’è stata un’apertura, non potevate aspettare l’esito dell’incontro prima di indicare la data del 5 dicembre?
«Qui si parla di un voto di fiducia sul Jobs act ancora prima che sulla legge di Stabilità, abbiano aspettato anche troppo».
Perché ha detto che la mediazione sull’articolo 18 è una presa in giro?
«Perché spiega alle imprese per filo e per segno, facendo gli esempi, come licenziare in modo ingiusto senza rischiare il reintegro e cavandosela con pochi soldi».
Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, e fra gli ideatori di quella mediazione, è sotto tutela. Che effetto le fa?
«Purtroppo in questo Paese c’è sempre un ritorno fra confitto sociale e minacce terroristiche. Condanno qualsiasi forma di violenza che leda la libertà di esprimersi e la democrazia e ricordo il ruolo che i lavoratori hanno avuto nella lotta al terrorismo. Ma non accetto lezioni da chi per primo questa democrazia non la rispetta, rifiutando il confronto e non lasciando spazio al conflitto di esprimersi».

Repubblica 17.11.14
Matteo Richetti
“In Emilia tanti non voteranno perché manca un progetto”
intervista di Andrea Chiarini


BOLOGNA. Matteo Richetti, renziano dalla prima Leopolda, nei giorni dell’assedio della Finanza alla Regione Emilia Romagna, sulle spese pazze, era il presidente dell’assemblea. E anche lui è finito nelle registrazioni fatte di nascosto dal grillino Andrea Defranceschi che “spiava” colleghi e dirigenti pubblici durante le riunioni – dice lui per cautelarsi in tanto caos - e che ha provocato un terremoto a 7 giorni dal voto per le regionali.
Richetti, un bel clima in quel finale di 2012.
«Ho letto come tutti i giornali e per quanto mi riguarda dicevo in privato le stesse cose che affermavo in pubblico: un impegno costante per la riduzione dei costi».
Non la pensavano tutti così, c’erano delle resistenze?
«C’era una pressante richiesta dei pm di avere tutti i rendiconti. Io invitavo alla trasparenza, a pubblicare ogni singolo scontrino. Da parte dei gruppi consiliari, c’erano atteggiamenti diversificati...».
Nell’inchiesta è finito pure lei che ha sempre avuto fama di tagliatore di spese.
«Non nascondo sia un bel contrappasso. Eliminai l’auto a disposizione del mio ufficio risparmiando 50mila euro l’anno, mi contestano 5-6 mila euro, in venti mesi, di trasporti, pranzi e due alberghi. Sia chiaro: giusto così, ho già spiegato ai magistrati. Il lavoro della Procura è accurato, sono fiducioso. Sono sicuro che emergeranno le singole responsabilità tra chi ha contenuto le spese e chi ha esagerato».
Nell’audio “rubato”, l’allora capogruppo Pd Marco Monari attacca i colleghi consiglieri, «nel mio partito - dice - ci sono molti idioti». Ora ha scelto di autospendersi.
«La scelta di autosospendersi è la consapevole conseguenza del fatto che quelle frasi, pur dette in un contesto particolare, erano insostenibili».
A sette giorni dal voto, di certo non aiuta.
«Ecco, vorrei evitare proprio questo: l’alibi del giorno dopo. Non vorrei che qualcuno commentasse a urne chiuse la prevedibile bassa affluenza legandola all’inchiesta sui gruppi consiliari. Sappiamo che non è così».
E che cosa è allora?
«Il problema è più complesso. L’Emilia è sempre stata terra di partecipazione, nella consapevolezza che ogni elettore portasse un mattoncino per un’opera più grande. Se mi chiede se c’è questa spinta oggi, rispondo: incontro molta gente che non riesce a finire la frase “vado a votare perché...”. Forse è mancato un progetto e per questo mancherà anche il voto».
Non è un bel complimento per il candidato Pd Bonaccini.
«Il problema è di tutti. Di tutto il Pd che dovrà sviluppare nei prossimi cinque anni non solo una esperienza di governo ma una nuova visione di Emilia Romagna. Dovremo aprirci di più alle tante competenze che ci sono all’esterno».

Repubblica 17.11.14
Spranghe e bastoni assalto ai tifosi della squadra di sinistra
Roma, terrore durante una partita di terza categoria Nel mirino l’Ardita. Si sospetta una matrice neofascista
di Lorenzo D’Albergo e Viola Giannoli


ROMA. Quaranta persone, forse settanta, il volto coperto da caschi integrali, fazzoletti e maschere, armati di spranghe, bastoni, picconi e tubi. Dall’altra parte una trentina di tifosi sugli spalti della tribuna del piccolo campo sportivo di Magliano, in provincia di Roma, per sostenere anche in trasferta l’Asd Ardita, squadra di calcio popolare di terza categoria fondata tre anni fa da un gruppo di ragazzi del quartiere San Paolo. Una mattinata di botte e terrore alle porte di Roma con un’aggressione che in molti sospettano nasconda una matrice neofascista.
«La partita era iniziata da mezz’ora — racconta un testimone sugli spalti — quando un ragazzo in cima alla tribuna si è accorto che qualcosa non andava: “Sono arrivate delle macchine, sono scesi dei tizi, hanno caschi e bastoni, che facciamo?”». Nessuno immagina però ancora una violenza così brutale e la preoccupazione corre alle bandiere, ai vessilli da salvare per evitare che vengano rubati, l’umiliazione più grave per un gruppo ultras.
Sulla tribuna della squadra ospite, la formazione di San Paolo, si scatena invece l’inferno. «Gli aggressori si sono divisi in due gruppi: uno è entrato in campo per menare, l’altro aspettava fuori». Ma da quegli spalti non riesce a “evadere” nessuno: «È stata una mattanza — raccontano i tifosi — Alzavano e abbassavano le mazze senza pietà, picchiavano sulla testa, sulle braccia, senza dire una parola. Poi allo stesso modo sono scappati via».
Un silenzio irreale durato pochissimi minuti e rotto solo dalle urla dei tifosi aggrediti. In sei hanno avuto la peggio: un supporter giallonero è stato trasportato in codice rosso all’ospedale di Monterotondo, altri cinque in codice giallo. Tre hanno le braccia rotte, uno di loro si dovrà sottoporre ad intervento chirurgico per ridurre la frattura scomposta. Tutti gli altri sono terrorizzati, sotto shock, sconvolti per quella domenica in trasferta che si è trasformata in un incubo.
I carabinieri di Bracciano sono arrivati quando tutto era finito ma in serata hanno fermato due auto, identificato e rilasciato i passeggeri: tra loro potrebbero esserci gli autori del raid. «E’ stato un agguato premeditato: sapevano che oggi eravamo in pochi, in trasferta, di domenica mattina» concordano i ragazzi. È difficile non pensare che dietro l’aggressione possano esserci motivazioni politiche. L’Ardita raccoglie molti ragazzi di sinistra, qualcuno viene dai movimenti romani, anche se da sempre la squadra rifiuta ogni etichetta politica e per scelta né giocatori né fan hanno mai manifestato il proprio schieramento sui campi di calcio. Ma c’è anche chi tira fuori l’antipatia legata al diffondersi dello sport popolare. «Questi fatti ci lasciano attoniti, non comprendiamo le motivazioni alla base di tale gesto. Questo attacco è da considerarsi rivolto non soltanto a noi bensì a tutte le società che promuovono un modello differente di sport e a tutte quelle realtà sociali che operano nei territori di Roma e limitrofi» scrivono su Facebook.
E sconvolto è anche Giovanni Zaccardini, 53 anni, presidente del Magliano Romano. «Sulla tribuna c’erano una trentina di nostri sostenitori, un pubblico composto da mamme, bambini, ragazzi, ma non li hanno toccati: sapevano chi colpire. Conosciamo i tifosi dell’Ardita: eravamo contenti di ospitare la partita perché su ogni campo da San Paolo portano un tifo caloroso ma pulito. Da dove siano venuti questi picchiatori proprio non me lo spiego, certo non sono di Magliano. Ci giurerei, il paese è piccolo, ci conosciamo tutti». Centinaia i messaggi di solidarietà in rete per la squadra, tra cui quello di Luca di Bartolomei, figlio di Agostino, capitano della Roma anni ‘80. E il vice sindaco della capitale Luigi Nieri dice: «Un fatto estremamente grave, vanno trovati i responsabili di questo vile gesto».

Repubblica 17.11.14
“Gridavamo di smetterla dal campo sentivamo i colpi sui nostri amici”
intervista di Luca Monaco


ROMA. «Ce la volevano far pagare, non so per cosa, ma è così». Damiano Vannicola, 24enne centrocampista centrale dell’Ardita, era in marcatura sull’avversario quando al 20esimo del primo tempo un gruppo di teppisti è entrato sugli spalti è ha iniziato a pestare i sostenitori della sua squadra.
Vannicola, come si spiega quest’aggressione?
«Non me la spiego. La partita stava scorrendo tranquilla, il risultato era ancora sullo 0-0. A un certo punto abbiamo visto decine di ragazzi con i caschi in testa e il volto coperto entrare sugli spalti e picchiare i nostri tifosi senza dire una parola. Non hanno urlato uno slogan, anche se supponiamo che siano neofascisti. C’era un silenzio surreale, si sentivano solo i tonfi delle mazzate. Il tutto sarà durato un paio di minuti, poi sono fuggiti. I compari li aspettavano all’esterno del campo con le macchine accese».
Avevate ricevuto delle minacce?
«Assolutamente no. Sono tre anni che gioco nell’Ardita e non abbiamo mai avuto problemi. Per sposare il progetto dell’azionariato popolare ho rinunciato ai 300 euro che guadagnavo in Eccellenza. Ovunque andiamo a giocare riceviamo applausi e pacche sulle spalle. Le altre squadre ci ammirano per il nostro tifo pulito».
Durante il pestaggio nessuno dei giocatori è intervenuto.
«Qualcuno gridava di smetter- la, il portiere avversario si è affacciato alla rete ma non ha potuto fare altro. Gli incappucciati erano almeno una quarantina. La gente non è riuscita a scappare perché il campo ha un solo ingresso, si sono tutti ammassati nell’angolo della tribunetta in tufo e hanno cercato di proteggersi, ma non ce l’hanno fatta».
Continuerà a giocare a calcio?
«Nonostante la paura che ho avuto oggi, sì. È il mio sport. Anche se usare la cassetta di pronto soccorso per medicare le ferite alla testa riportate dai tifosi fa ribrezzo. Ho ancora i brividi. Servirà un gol per tornare a sorridere».

il Fatto 17.11.14
Dura vita sulle linee minori
Al Terzo Valico i soldi ai pendolari, le frane
di Teresa Tacchella


Sorvegliata speciale, come tante altre in questi ultimi tempi, preoccupa la frana che scivola sul greto del torrente Scrivia, in Piemonte. Tanto che viene monitorata 24 ore su 24, dopo le ultime piogge che hanno inzuppato un terreno già fragile. Siamo nella zona di Libarna, a pochi passi dal sito archeologico testimone della città romana che sorgeva sulla via Postumia, nel comune di Serravalle Scrivia, provincia di Alessandria. Quella che passa da qui è la storica “sabauda”, la linea Torino-Genova-Roma, costruita ancor prima dell’unità d’Italia. Lungo il suo percorso, tra Liguria e Basso Piemonte, sono almeno una decina le frane che incombono sui binari, secondo il rapporto di Rfi, Rete ferroviaria italiana. Ma con le ultime piogge sono aumentate anche le criticità legate all’inarrestabile dissesto. Il bollettino dei treni che deragliano o si fermano appena in tempo, tra Piemonte e Liguria, è lungo e inquietante. Il 2014 è iniziato male nel ponente ligure, ad Andora, lungo la martoriata linea che collega Milano e Genova con la Francia che in queste ore registra nuovi disagi. Indimenticabile l’immagine di quell’Intercity appeso sulla scogliera. Pochi secondi e la frana avrebbe colpito in pieno il convoglio facendolo precipitare in mare. Tragedia sfiorata. A bordo 200 passeggeri rimasti illesi. Feriti in modo lieve i due macchinisti e il capotreno. Ma quel treno si sarebbe dovuto trovare in galleria, e non su quell’unico binario lungo il litorale, se i tempi per ultimare il raddoppio della Genova-Ventimiglia fossero stati rispettati. Invece, nonostante gli annunci, molto resta sulla carta. E mentre si va in Francia ad un binario, cade, con le frane, nel solito dimenticatoio. Eppure trova tutti d’accordo. Anzi, il raddoppio viene sostenuto anche dagli ambientalisti, con qualche modifica di percorso, per un maggiore utilizzo delle tratte esistenti ed “evitare ulteriore consumo di suolo e offese al territorio”. Da ponente a levante, la linea costiera sembra un percorso ad ostacoli. E le interruzioni improvvise, come le frane e gli allagamenti, non si contano in questo anno di piogge intense. A Zoagli come a Chiavari, alle Cinque Terre come a Nervi e in tante altre località. Eppure, spesso sono poche righe in cronaca a parlare di interruzioni. Così, anche linee importanti spezzate in due diventano piccole tratte con piccoli disagi. Senza contare inesattezze, approssimazioni e confusione nelle informazioni. Quanto alle cosiddette linee “minori”, sembrano avere un destino segnato, denunciano i pendolari. Sono la Ventimiglia-Cuneo, la Savona-Torino via Valbormida, la “Pontremolese” tra La Spezia e Parma, e la Genova-Acqui Terme. Su quest’ultima, le cui interruzioni sono all’ordine del giorno, gravano 13 movimenti franosi, secondo il rapporto di Rfi che conta in Liguria e Basso Piemonte 44 punti a “rischio elevato di dissesto idrogeologico ” e si annunciano investimenti per 23 milioni di euro entro il 2015. Sono 2.900 le criticità individuate sull’intera rete ferroviaria e 250 i milioni previsti nel “piano di interventi e vigilanza dei punti sensibili”. Inoltre, c’è un “piano straordinario per contrastare il dissesto, spiegano a Rfi, per un miliardo e 700 milioni gli investimenti a livello nazionale”. Mentre per manutenzione e sicurezza della rete ligure-piemontese, Rfi spende 200 milioni. Intanto, le criticità crescono vertiginosamente: raddoppiate in poco più di un anno. “Servono più risorse”, chiedono da tempo sindacati e pendolari. Con l’alluvione di Genova, il 10 ottobre, è deragliato a Trasta, in Valpolcevera, il Frecciabianca 9764, ma la notizia non ha avuto una grande eco, neanche sui media locali. Eppure ci sarebbe qualcosa da dire. Andare oltre quella “prima ricognizione ” delle Ferrovie che escludeva qualsiasi collegamento con i cantieri per il Terzo valico ferroviario dei Giovi. Si, perché la frana finita sui binari della storica “direttissima”, poteva essere, come denunciato con tanto di foto dai ferrovieri dei sindacati di base Cub e dai comitati di cittadini, la conseguenza del disboscamento della collina per fare spazio a uno dei cantieri della futura linea ad alta velocità-alta capacità. Committente Rfi, realizzatore il Cociv, consorzio che fa capo a Salini–Impregilo, il gruppo che regalerà il progetto definitivo della copertura del Bisagno. Il tracciato del Terzo valico è cambiato più volte e i costi sono lievitati raggiungendo cifre da capogiro: 6 miliardi e mezzo, pubblici naturalmente. Per poche decine di chilometri. Una galleria che buca l’Appennino per raccordarsi, dopo Arquata, con le linee esistenti, verso Novi, Alessandria e Torino e verso Tortona e Milano. Dopo oltre 20 anni, siamo al progetto esecutivo del primo dei sei lotti costruttivi e non funzionali. E pare che, anche qui come per la Lione –Torino, i costi siano destinati ancora a salire. Fragilità del territorio e dissesto lungo il tracciato, si intrecciano con i problemi delle linee storiche, usate dai pendolari e sottoutilizzate dalle merci. La frana di Trasta, sulla quale sono in corso l’indagine interna di Rfi e l’inchiesta della magistratura, ha riacceso le polemiche. “Chi avrà ancora il coraggio di dire che le priorità di Genova sono le grandi opere e l’inutilissimo e costosissimo Tav-Terzo Valico? - Si chiedono Antonello Brunetti e Mario Bavastro dell’AFA, amici delle ferrovie e dell’ambiente. “L’unica grande opera urgente, aggiungono, è quella di difesa del suolo: tante opere di prevenzione del dissesto, di manutenzione e miglioramento delle linee esistenti. Anche le imprese avrebbero maggiore lavoro, più qualificato e duraturo. Senza devastare ulteriormente l’ambiente”. E proprio a Libarna, dove la scarpata ferroviaria scivola sulla Scrivia (i binari sono finiti nuovamente sott’acqua sabato) è previsto uno dei cantieri per le opere viarie funzionali al Terzo valico. “Tutte le strade verso i cantieri del Terzo valico sono gravemente compromesse”, ha detto la neo presidente della Provincia e sindaco di Alessandria Rita Rossa, alle prese con quella che ha definito una “catastrofe”. “L’alta velocità non marcia assieme al rilancio delle ferrovie – sottolinea Gianni Alioti, sindacalista Fim-Cisl - ma segna il loro irreversibile declino, pagato dai pendolari che sono circa l’80 per cento dei passeggeri quotidiani, alle prese con tagli e soppressioni. Anche il sindacato deve aprire una discussione vera, aggiunge, non solo convegni con i pochi interessati all’affare. Prima che nuovo cemento e ferrovie che franano ci facciano perdere il treno”.

Corriere 17.11.14
Un convegno a Roma
La lupara e l’aspersorio. Quanti boss finti devoti
di Alberto Melloni


In Calabria papa Francesco ha parlato di scomunica per i mafiosi, con un salto di qualità nella teologia della liberazione dalla mafia avviata da Paolo VI. Anche la ricerca ha fatto la sua parte in questi anni, dagli studi di Salvatore Lupo a una recente puntata de Il tempo e la storia di Massimo Bernardini. Tuttavia il convegno «L’immaginario devoto tra organizzazioni mafiose e lotta alla mafia», che si tiene il 20-21 novembre alla Casa della memoria e della storia di Roma per iniziativa di Lucia Ceci e Tommaso Caliò, segna uno sforzo inedito e una svolta.
Studiosi di mezza Europa (Alessandra Dino, Deborah Puccio-Den, Federico Ruozzi, Francesca Sbardella e molti altri, fra cui don Luigi Ciotti) esplorano le fonti in cerca di domande nuove: dal primo Novecento al processo di beatificazione di don Puglisi, dalle omelie bergogliane alla narrativa delle vittime di mafia, dalla morale familista all’esproprio mafioso delle feste popolari.
Un lavoro scientifico, non esaustivo: in futuro si dovrà toccare la relazione diocesi-latifondo, originaria nel legame con le famiglie; o la politica democristiana, che si trova in casa l’indulgenza di Andreotti e l’intransigenza di Scotti.
Il convegno di Roma è un segno di speranza e di responsabilità degli studiosi. Oggi, sotto la superfice degli affari, nelle proteste che agitano il mondo desindacalizzato, perfino nella quiete che avvolge le grandi capitali mafiose, si sente il rumore sordo di chi ridisegna reclutamenti strategici, che la noncuranza dei pubblici poteri rende ancor più inquietante.

La Stampa 17.11.14
Fondo per salvare la memoria di Auschwitz. L’Italia grande assente tra i Paesi donatori
La denuncia di un quotidiano spagnolo: «Roma e Madrid non hanno versato nulla»

Trentun Paesi hanno versato finora 102 milioni. L’obiettivo è fissato a 120 milioni
qui

Corriere 17.11.14
Il Califfo a Roma? Non è uno scherzo
di Angelo Panebianco


Sembra che una gran parte, forse la parte maggioritaria, dell’Italia pubblica soffra di un blocco cognitivo. Pare incapace di prendere atto dei radicali, irreversibili, cambiamenti intervenuti in Europa e in Medio Oriente, ha l’aria di non rendersi conto che violenza e crescenti rischi di violenza si diffondono intorno a noi, sembra non capire che di fronte alla violenza non si può altro che assumere una posizione intransigente o anche, se la situazione lo esige, fare uso della forza. Un tempo si credeva che la propensione italiana a pensare alla politica internazionale in termini irenici, come a un luogo in cui tutto possa essere risolto con il «dialogo», fosse solo una conseguenza della Seconda guerra mondiale. Le potenze sconfitte, Germania, Giappone, Italia — si disse — sostituirono nel dopoguerra il «commercio» alla «spada», cominciarono a pensare alla politica internazionale molto più in termini di affari che di deterrenza e di minacce armate. E il «dialogo», sicuramente, aiuta gli affari più della deterrenza. Pur facendo parte di alleanze militari quei tre Paesi furono ben lieti di delegare ai soli Stati Uniti il compito di agitare periodicamente il bastone.
Ma forse, nel caso italiano c’è di più. A causa della sua cultura politica sembra che l’Italia, pur con qualche meritoria eccezione, non riesca proprio a fare a meno di agire nell’arena internazionale ispirandosi a una sorta di wishful thinking , un’irresistibile tendenza a scambiare i propri sogni per realtà.
Prendiamo due delle più gravi crisi in atto. In Ucraina, con l’annessione russa della Crimea e l’azione tuttora in corso dei militari russi a sostegno dei secessionisti delle regioni orientali, i rapporti fra Russia e Occidente sono irreversibilmente (e sottolineo: irreversibilmente) cambiati. Sono cambiati perché non un piccolo Stato (una Serbia o una Croazia) ma una grande potenza, la Russia, ha violato la regola su cui si fonda la pace in Europa: nessun mutamento territoriale può avvenire se non in modo consensuale. Chi dice che la Crimea era russa, e che dunque non c’è nulla di male nel fatto che la Russia se la sia ripresa, non coglie il punto. Tra Prima e Seconda guerra mondiale tantissimi Stati europei (Italia compresa) hanno perduto territori che erano appartenuti, magari anche per secoli, a quegli Stati. La pace in Europa c’è perché chi ha perso territori non se li va a riprendere con la forza. La Russia, una grande potenza che avrebbe dovuto contribuire, insieme alle altre grandi potenze, a mantenere la pace e l’ordine, ha violato quella regola.
Pensare che questo non muti irreversibilmente i rapporti in Europa è segno di cecità politica. E difatti le relazioni fra mondo occidentale e Russia sono sempre più conflittuali, come si è dimostrato anche in occasione del G20 appena concluso. Ma l’Italia fa eccezione, ha scelto di mantenere aperto in ogni modo il «dialogo» con Putin, dando l’impressione di ignorare il cambiamento avvenuto (come hanno ben documentato Massimo Gaggi e Marco Galluzzo sul Corriere di ieri), di ignorare soprattutto il riposizionamento strategico della Russia per la quale, ora, gli occidentali sono di nuovo potenziali nemici. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, nella sua intervista al Corriere , dice che occorre garantire sia l’autonomia ucraina che il ruolo della Russia. Gentiloni è un politico solido e competente (e pensiamo sia un bene che guidi la Farnesina in un momento così delicato) ma nel caso ucraino la sua ricetta, sfortunatamente, appare un po’ astratta e fuori tempo massimo.
Più in generale, sembra che in questa crisi la classe politica italiana (Renzi e il suo governo, Berlusconi) sia in Europa la più restia di tutte a prendere atto del fatto che, in politica internazionale, non contano solo gli affari.
E veniamo al caso per noi più inquietante di tutti, quello dello Stato islamico. Ormai continuamente il Califfo ripete che prima o poi arriverà a conquistare Roma, e il fotomontaggio di una Roma in cui sventolano le bandiere nere dello Stato islamico circola da mesi in Rete. Chi fa spallucce, chi pensa che si tratti solo di una sbruffonata, ha capito ben poco. Mai come in questo caso è lecito dire che l’ignoranza uccide. Già, perché il Califfo non sta facendo una sbruffonata a caso: sta citando, nientemeno, il Profeta, sta citando il detto attribuito a Maometto secondo cui arriverà un giorno in cui Roma, il centro della cristianità occidentale, cadrà in mani islamiche. Tanti musulmani, di tendenze pacifiche, hanno sempre pensato a quella profezia proiettandola in un futuro lontano e indefinito. Invece, lo Stato islamico sta dicendo ai musulmani di tutto il mondo che il momento di prendere Roma si avvicina e che questo verrà fatto con le armi. Diciamo che fischiettare o fare spallucce di fronte a una dichiarazione di guerra non sono gesti appropriati.
L’Italia pubblica è per lo più in preda al wishful thinking ma ci sono, fortunatamente, delle eccezioni. A cominciare dal presidente della Repubblica. Il suo discorso del 4 novembre sui pericoli che stiamo correndo richiedeva una discussione meditata, non solo applausi di circostanza.
E ha ragione il ministro della Difesa Roberta Pinotti quando, proprio appellandosi alle cose dette da Napolitano, invita la classe politica a non trattare le forze armate come se fossero un qualunque settore di spesa pubblica improduttiva: da sottoporre a tagli anche a costo di indebolirne le capacità operative. Le nuove minacce, dallo Stato islamico al caos libico (minacce, peraltro, strettamente connesse) richiedono che non si facciano scelte miopi e autolesioniste in un così delicato settore.
C’è uno scollamento preoccupante fra la realtà e le «narrazioni» pubbliche su di essa. Ridurre il divario fra il mondo come è e la nostra rappresentazione del mondo è essenziale per la nostra sicurezza.

Corriere 17.11.14
“Io sono Malala”. Ritorno alla vita
Il Nobel, i troppi compiti e il papà «femminista»
«Il mio mondo è cambiato ma io no»
di Malala Yousafzai


È trascorso un anno dall’uscita del mio libro e due da quella mattina di ottobre in cui i talebani mi spararono, mentre tornavo a casa dalle lezioni su un autobus. La mia famiglia ha affrontato molti cambiamenti. Siamo stati prelevati dalla nostra vallata di montagna nello Swat, in Pakistan, e trasportati in una casa di mattoni a Birmingham, in Inghilterra. A volte sembra così incredibile che mi viene voglia di darmi un pizzicotto.
Ora ho diciassette anni, ma una cosa che non è cambiata è la mia riluttanza ad alzarmi al mattino. La cosa stupefacente, invece, è che adesso è la voce di mio padre a svegliarmi. E’ il primo ad alzarsi e prepara la colazione per me, mia madre e i miei fratelli, Atal e Kushal. Ovviamente non lascia che il suo impegno passi inosservato, e ci tiene a far notare come spreme le arance fresche, come frigge le uova, scalda il pane e prende il miele dall’armadietto. «È solo la colazione!» lo prendo in giro. Per la prima volta nella sua vita fa pure la spesa, anche se lo odia. L’uomo che non sapeva il prezzo di un litro di latte va tanto spesso al supermercato da conoscere la posizione di tutti gli articoli sugli scaffali! «Sono diventato come una donna, un vero “femminista”!» dice, e io per scherzo gli tiro dietro qualche oggetto.
Poi io e i miei fratelli usciamo per correre ognuno in una scuola diversa. E lo stesso fa nostra madre Toor Pekai: questo è uno dei cambiamenti maggiori. Per cinque giorni alla settimana va in una scuola di lingue per imparare a leggere e a scrivere, e anche a parlare inglese. Mia madre non ha ricevuto alcuna istruzione, e forse è questo il motivo per cui ci ha sempre incoraggiati ad andare a scuola.
Un anno fa pensavo che non ci saremmo mai ambientati, invece comincio a sentirmi a casa a Birmingham. Non sarà mai come lo Swat, che mi manca ogni giorno, ma quando faccio un viaggio e poi torno, mi sento a casa mia. Ho persino smesso di pensare alla pioggia costante, però mi viene da ridere quando le mie amiche di qui si lamentano del caldo appena il termometro tocca i 20-25 gradi. A me sembra primavera. Alla scuola nuova sto facendo amicizie, anche se la mia migliore amica resta Moniba; stiamo ore su Skype a raccontarci tutto. Quando mi parla delle feste nello Swat, vorrei tanto essere là. A volte parlo con Shazia e Kainat, le altre due ragazze ferite sull’autobus, che ora stanno in Galles all’Atlantic College. È difficile per loro vivere in una cultura così diversa, ma sanno che è una grande opportunità di realizzare il loro sogno, quello di aiutare la loro comunità d’origine.
Il sistema scolastico qui è molto diverso da quello del Pakistan. Nella mia vecchia scuola ero «quella brava». Qui in Gran Bretagna, gli insegnanti si aspettano di più dagli studenti. In Pakistan scrivevamo lunghe risposte ai quesiti. Si poteva scrivere quello che si voleva; a volte i professori si stufavano e non leggevano fino in fondo, ma davano ugualmente voti alti! Può darsi che le aspettative fossero più basse perché il solo fatto di andare a scuola era una sfida. A casa mia ero considerata un’amante dei libri perché ne avevo letti otto o nove. Ma nel Regno Unito ho conosciuto ragazze che hanno letto centinaia di libri. Adesso mi rendo conto di non avere letto quasi nulla. L’anno prossimo farò la maturità e spero di andare all’università a studiare Scienze politiche e Filosofia.
Ho ancora la speranza di tornare nello Swat. Sono certa che un giorno sarà possibile. Sogno di poter essere un personaggio influente nella vita politica pachistana, un giorno. Purtroppo Maulana Fazlullah, il capo dei talebani dello Swat che mi hanno sparato, ora è il capo dei talebani di tutto il Pakistan. Questo ha reso ancora più rischioso il ritorno in patria. Ora la mia salute è buona. I dottori dicono che ora il recupero del mio nervo facciale è al 96%. L’impianto cocleare ha migliorato il mio udito. Non soffro più di mal di testa e posso fare sport, purché gli altri stiano attenti a non tirarmi una palla in testa!
Quando ricevo un premio mando il denaro nello Swat: spero di aiutare i bambini ad andare a scuola o gli adulti ad avviare piccole attività, come un negozio o un taxi, con cui guadagnare soldi per la famiglia. Con il Malala Fund, ho avviato progetti in Giordania, Pakistan, Kenya e Nigeria. Come dice mio padre, siamo gli esuli trattati meglio al mondo, in una bella casa, eppure daremmo qualsiasi cosa per la nostra patria. Nell’ultimo anno sono cambiate tante cose, ma in realtà io sono ancora quella Malala che andava a scuola nello Swat. La mia vita è cambiata, ma io no. Se lo chiedeste a mia madre, risponderebbe: «Sì, forse Malala è diventata più saggia, ma a casa è sempre la stessa ragazzina litigiosa che getta la camicia di qua e i pantaloni di là, la stessa ragazzina disordinata che strilla sempre: “Non ho fatto i compiti!”». Certe cose, anche se sono piccole, restano sempre uguali.
Birmingham, luglio 2014

La Stampa 17.11.14
Gran Bretagna, agghiacciante indagine su deputati-pedofili, stupratori e killer
Scotland Yard: almeno tre casi negli anni ’70 e ’80

qui

Corriere 17.11.14
Motociclisti olandesi e veterani americani
I «patrioti» filocurdi
di Davide Frattini


GERUSALEMME Tutti addormentati nel profondo, profondissimo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe (George Orwell, «Omaggio alla Catalogna»).
Le guerrigliere curde sono raggruppate nella milizia YJA Star (l’Unione delle donne libere) che ricorda le Mujeres Libres della Spagna di Orwell, se non fosse per quella stella, un riferimento a Ishtar, antica dea della Mesopotamia. Gli occidentali che vanno a combattere nel Nord delle Siria proclamano le stesse motivazioni dello scrittore britannico: i fondamentalisti dello Stato Islamico, come alla fine degli anni Trenta i fascisti, vanno fermati qui, prima che il conflitto diventi mondiale.
Le brigate internazionali postmoderne mettono insieme bande di motociclisti olandesi, veterani americani delle guerre che non finiscono, soldatesse in congedo dello Tsahal israeliano. Jordan Matson, 28 anni, prima non era mai rimasto coinvolto in uno scontro a fuoco: 24 mesi nell’esercito, nessuna missione fuori dagli Stati Uniti, un lavoro da impacchettatore di surgelati nel Wisconsin. Adesso zoppica per i frammenti di un proiettile di mortaio, è arrivato nel Levante dopo aver visto le immagini della caduta di Mosul in Iraq e aver contattato i gruppi curdi su Facebook, dove prova a convincere altri ex militari canadesi, europei, australiani, americani, «patrioti che non vogliono restare seduti in poltrona».
Jeremy Woodward in Afghanistan e Iraq c’è stato, non poteva rimanere in Missouri — racconta lo zio — mentre quello per cui ha combattuto viene distrutto. E’ quello che pensa il generale Buford Blount, l’uomo che guidò la presa di Bagdad nel 2003: «Qualsiasi aiuto ai curdi è positivo, i fondamentalisti vanno eliminati». E’ quello che pensa David Graeber, anarchico e docente di Antropologia alla London School of Economics: «Nel 1937 mio padre partì come volontario in difesa della Repubblica spagnola. La regione autonoma controllata dai curdi è uno dei pochi esperimenti democratici emersi dalla ribellione contro il regime di Bashar Assad e va protetta».
Sono le ragioni che hanno spinto i gruppi radicali femministi turchi a passare il confine o i no global italiani come Tommaso Cacciari, nipote del filosofo, a esportare solidarietà e sostegno. Gill Rosenberg — di origine canadese, istruttrice nell’esercito israeliano, tre anni di prigione per truffa — ha lasciato Tel Aviv per la Siria accompagnata dal motto in ebraico ripetuto dai comandanti di Tsahal: « Aharai , seguitemi. Facciamo vedere ai fondamentalisti quel che vuol dire».

Corriere 17.11.14
Unamuno e Bobbio
Prospettive umanistiche dell’Europa


Per Miguel de Unamuno, che la Spagna non partecipasse alla Prima guerra mondiale non era frutto di lodevole saggezza. Era la dimostrazione di un’arretratezza economica e civile. L’esiguo sviluppo industriale vietava di partecipare a una grande «guerra industrializzata» il cui esito, più che dalle armi, dipendeva «dalla conversione bellica delle arti e delle industrie pacifiche». Inoltre, si legge nel libro L’agonia dell’Europa (Medusa, pp. 126, e 14,50), governo e conservatori temevano gli effetti rivoluzionari della guerra. Temevano che nella guerra si giocasse anche «il futuro interno del Paese». Si trattava di una neutralità, quindi, «forzata e vergognosa». Quella guerra, secondo Unamuno, opponeva il militarismo aggressivo dei regimi autoritari e conservatori, l’imperialismo di «popoli predatori», che conservavano lo spirito brutale dei popoli barbarici, alle democrazie e ai loro eserciti non di professionisti, ma di «un popolo civile in armi».
Il nazionalismo domina, in effetti, l’orizzonte politico di Unamuno, che ne distingue due tipi assai diversi: quello che rivendica un diritto nazionale, riconosce e rispetta il diritto internazionale ed esclude lo spirito di conquista, e quello che si trasforma in aperto imperialismo, disconosce il diritto nazionale e il diritto internazionale e si nutre dello spirito di dominio. Questo nazionalismo imperiale è da lui respinto anche nella tradizione spagnola dell’Inquisizione, dei conquistadores , della monarchia assolutista. La stessa Società delle Nazioni non lo soddisfa: essa si limita ad associare nazioni esclusiviste, chiuse nei loro confini, facili al protezionismo. In ultimo, la sua visione esprime un nero pessimismo: «La guerra ha distrutto molto — uomini, sentimenti, valori... — e la pace non sembra in grado di ricostruire granché; anzi, forse non ricostruirà proprio niente, o quasi».
Pessimismo giustificato. Norberto Bobbio registrava nel 1984 con amarezza il verificarsi dei rischi adombrati da Unamuno. Nel 1945, diceva, «l’Europa era distrutta. Si era da se stessa distrutta». Solo in seguito si era scoperto che, «nonostante tutto, era sopravvissuta». E ciò grazie ai suoi «intellettuali migliori che ne avevano serbato la memoria, ne avevano ricostruito la storia, ne avevano mantenuto vivo lo spirito». Ne era stata rafforzata la spinta all’unità europea mentre, con la «guerra fredda», l’Europa era di nuovo divisa in due campi. Umberto Campagnolo, fondatore della Società europea di cultura, ritenne allora necessario «salvaguardare l’unità spirituale dell’Europa» con una pratica assidua del dialogo e che «questo fosse il compito specifico degli uomini di cultura», il loro «compito “politico”».
Con Campagnolo Bobbio consentì appieno. L’Europa doveva, per lui, riprendere «coscienza della sua più profonda vocazione che l’ha portata a esplorare la terra, a prendere contatto coi mondi in sé chiusi di altre civiltà e che sola può rendere possibile l’unificazione del mondo verso la quale sembra sia fatalmente orientato il destino dell’uomo»: unificazione intesa come «un’opera morale nel senso più rigoroso del termine» e condotta nel segno dell’«idea universale dell’uomo». E in questo senso valeva «il concetto dell’Europa come civiltà dell’universale».
Così, la guerra del 1914 aveva lasciato Unamuno scettico e sfiduciato, buon profeta di nuove sciagure dell’Europa, che si erano puntualmente verificate. La guerra del 1939 aveva, invece, convinto Bobbio circa un rinnovato destino «universale» dell’Europa, rimesso soprattutto all’«Europa della cultura», autonoma e diversa da quella politica degli Stati e dei partiti.
Astrattezza utopistica? Forse, ma certo più aperta alla vita e alla storia di quanto non fosse la delusione di Unamuno per l’inconcludenza della «Grande guerra».

il Fatto 17.11.14
Anche senza gene campi 110 anni
di Laura Berardi


Spegnere 110 candeline non è una questione di genetica, per lo meno non di un solo gene. Non esisterebbe, infatti, una particolare mutazione capace di aumentare la probabilità di diventare ultracentenari. A dirlo è uno studio della Stanford University, pubblicato su PLoS One, basato proprio sull’analisi genetica di 17 persone che hanno superato il centodecimo anno di età. Oggi, in tutto il mondo sono appena 74 le persone ancora in vita dopo aver raggiunto questo incredibile traguardo: circa 1 ogni 100 milioni di abitanti del pianeta Terra. Come ci si può aspettare, gli ultracentenari sono in qualche modo più capaci rispetto al resto della popolazione di evitare le malattie. Tra di loro, ad esempio, la percentuale di individui che nella vita hanno sviluppato cancro è appena il 19%, contro il 49% del resto della popolazione mondiale. Allo stesso modo, queste persone hanno in generale una incidenza più bassa di malattie cardiovascolari e ictus. Questa scarsa “propensione alla malattia” aveva suggerito agli scienziati di poter scoprire i segreti della longevità tramite l'analisi del loro Dna. Ma così non è stato: “Non abbiamo trovato nessuna evidenza di mutazioni nel Dna (capaci di portare a variazioni nel corredo genetico o proteico), associate in modo significativo ad una longevità estrema come quella di queste persone”, ha spiegato Hinco Gierman, a capo del team che ha lavorato allo studio. “In altre parole, è estremamente improbabile che esista un singolo gene della longevità”. Anzi, una di queste pazienti, incredibilmente, presentava una mutazione del Dna nota perché fattore di rischio per la cardiomiopatia ventricolare destra aritmogena (Arvc), una patologia genetica potenzialmente fatale, che tuttavia non ha precluso alla signora di raggiungere il ragguardevole status di ultracentenaria. Sicuramente, spiegano gli autori, un limite di questo studio è il limitato campione, proprio per la rarità delle persone che lo compongono. Per permettere a chi volesse continuare ad indagare sulle cause della longevità estrema di aggirare almeno in parte questo problema, gli scienziati dell’ateneo statunitense hanno pubblicato il genoma di questi diciassette individui, mettendolo a disposizione anche di altri ricercatori.

La Stampa 17.11.14
Proust, alla ricerca della jeune fille perduta
Dai Cahiersi n corso di pubblicazione affiora una misteriosa “ragazza con le rose rosse” il cui ricordo ossessionò a lungo lo scrittore
La francesista Mariolina Bertini ne ha seguito le tracce
di Gabriella Bosco


Occhi brillanti, lunghe ciglia, incarnato purpureo. Con una scollatura di saporosa dolcezza messa in risalto da alcune rose rosse abilmente appuntate, la giovane donna andò verso di lui fingendo di volersi avvicinare al buffet e approfittò della calca per premergli addosso i seni. Il turbamento che il narratore della Recherche provò fu tale da ossessionarlo a lungo. «Volevo vivere soltanto per ritrovare quella ragazza, per conoscere la sua vita, la sua anima ignota, per entrare a farne parte».
Un episodio fugace, ma indelebile. Eppure non ne avremmo saputo niente se gli studiosi non fossero andati a cercare negli appunti preliminari, quelle lunghe note spesso frammentarie, discontinue, interrotte da considerazioni sull’opportunità di un certo passo strutturato in un modo invece che in un altro, per mettere a disposizione dei lettori anche il laboratorio della Recherche, cantiere che si protrae per ben 75 Cahiers: i quaderni sui quali Marcel Proust scriveva a penna, disteso a letto, gli avantesti del livre à venir. Un’infinità di pagine manoscritte, miniera inesauribile di elementi preziosi. Alcune parti erano già leggibili nell’edizione del capolavoro proustiano diretta da Jean-Yves Tadié per la «Bibliothèque de la Pléiade» Gallimard, ora di tutti i Cahiers è in corso l’edizione diplomatica per Brepols, affidata alle cure di un’équipe di eminenti specialisti. E Mariolina Bertini, la più attenta studiosa italiana di Proust, che in quel mare di pagine gode a trovare svelamenti, concordanze, inediti indizi, si è divertita a inseguire a sua volta, di cahier in cahier, le tracce persistenti della giovane donna. Ne è risultato un delizioso volumetto, La ragazza con le rose rosse, pubblicato dalla parmense Nuova Editrice Berti. Il libro raccoglie i brani dei quaderni in cui quelle tracce appaiono, tradotti in italiano dalla stessa curatrice.
L’immagine e l’audace avance della giovane misteriosa riaffiorano a più riprese nei quaderni. L’ossessione del narratore al ricordo di quella eccitante pressione s’incarna in almeno quattro momenti, varianti, evoluzioni. Con la sua «lussuosa carne di fiore», la donna attira su una scia profumata i passi desideranti del narratore in una sempre più assidua smania. Di quell’insistente episodio, nulla rimane nella versione finale della Recherche. Lascia però di sé un’impronta profonda, di cui solo oggi possiamo cogliere a pieno le radici lontane.
Sì, perché la proterva e seducente ciclista Albertine dalle guance color geranio, che spicca nel gruppo marino delle fanciulle in fiore offrendosi allo sguardo del protagonista in villeggiatura sulla spiaggia normanna di Balbec, ne è in qualche modo l’incarnazione d’arrivo. Albertine, scrive la curatrice, «destinata a diventare, insieme al barone di Charlus, la creatura di Proust più conosciuta e più amata. Infantile e misteriosa, ostinata e passiva, docile e sfuggente, apriva senza saperlo una lunga schiera di eroine novecentesche con le stesse caratteristiche, da Lolita, come lei prigioniera e fuggitiva, all’indolente Cecilia della Noia di Moravia». Un suggerimento critico illuminante.
Sin dal 1971 Maurice Bardèche, continuando l’esplorazione dei manoscritti proustiani iniziata vent’anni prima da Bernard de Fallois, aveva cominciato a tentare la ricostruzione della «preistoria» di Albertine e aveva notato come l’attrazione esercitata sul protagonista dalle jeunes filles fosse tra i temi originari dell’opera. Già nei primi abbozzi del 1909 il narratore è attratto e incuriosito a Querqueville (come all’epoca si chiamava la futura Balbec) da quella che gli appare come «una massa amorfa e deliziosa di bimbe, sorta di vaga costellazione, d’indistinta via lattea». Più avanti, spiega Mariolina Bertini, nella versione ancora lacunosa della Recherche che i proustiani chiamano «il romanzo del 1912», sono due le figure femminili oggetto di desiderio che s’impongono al centro dell’intreccio: da un lato la cameriera della baronessa Picpus (nel testo definitivo il nome diventerà Putbus) e dall’altro proprio lei, la «ragazza con le rose rosse» che sfiora con il seno sfrontato il narratore e poi scompare dalla sua vita come fosse stata un sogno. Entrambe svaniranno nel nulla quando prenderà corpo il personaggio ben più consistente di Albertine, ma a loro sarà spettato un ruolo capitale: quello d’introdurre nel mondo del narratore la tentazione più terribile e violenta, il desiderio erotico.
Bionda, alta e insolente con gli occhi azzurri e il corpo sinuoso la cameriera, proveniente da un passato di «contadinella viziosa» trascorso vicino a Combray dove si abbandonava a giochi proibiti con i ragazzini del luogo, personaggio a tutto tondo, dotato di una precisa storia personale; immagine momentanea, folgorante e inafferrabile al contrario la ragazza con le rose appuntate al seno. Ai poli opposti, le due, nell’estetica proustiana. Eppure intrecciate ad alimentarsi e annullarsi reciprocamente nella ricerca affannosa del protagonista. Tanto da assumere via via identità diverse, nelle fasi successive dei quaderni. Figure sfuggenti, certo, a monte delle quali, a furia di scavare, gli specialisti hanno creduto di poter riconoscere una ragazza in carne e ossa. Una jeune fille
cui tra il marzo e il giugno del 1908, come rivela la corrispondenza, Proust desiderava insistentemente esser presentato. La presentazione avvenne poi, il 22 giugno, nella cornice del salotto Impero della principessa Murat. E l’incontro reale, era inevitabile, fu deludente. La «ragazza più bella» che avesse mai visto, scrisse Proust all’amico Albufera, «da vicino non mi è sembrata così bella: è un po’ irritante quando parla, e più civetta che amabile».
Ma questa, inutile dirlo, è un’altra storia.

Corriere 17.11.14
Lo scienziato italiano che scopre i falsi dei colleghi
Risultati e articoli inattendibili. La caccia alle manipolazioni nei laboratori
di Elena Tebano


Enrico Bucci la chiama la «wikileaks della scienza». È un sito scarno, incomprensibile ai non specialisti: battezzato Pub-peer ( pubpeer.com ), contiene segnalazioni anonime su articoli scientifici ritenuti «sospetti». Bucci, biologo napoletano ed ex ricercatore del Cnr, è partito da lì per indagare la correttezza della scienza italiana. E insieme cercare il possibile antidoto a un problema che preoccupa la comunità dei ricercatori (non solo in Italia): il diffondersi crescente di frodi scientifiche. «Ho analizzato circa 3.500 lavori biomedici segnalati su Pubpeer — denuncia —, quelli firmati da italiani sono 565: l’Italia è il secondo Paese dopo gli Usa in termini assoluti, ma il primo in percentuale sulla produzione scientifica. E l’università con la maggior percentuale di segnalazioni è la Federico II di Napoli» (dove Bucci si è formato).
Il luminare suicida
Il fenomeno però è globale: ad agosto uno scandalo su dati falsi ha indotto al suicidio il luminare giapponese dell’embriologia Yoshiki Sasai, 52 anni, che non ha retto la «profonda vergogna» di aver co-firmato senza adeguati controlli il lavoro di una ricercatrice che usava risultati inattendibili.
«Le carriere scientifiche e l’assegnazione dei fondi di ricerca si decidono in base al numero di articoli pubblicati su riviste specializzate — spiega Bucci —. E c’è chi pur di pubblicare falsifica i risultati degli esperimenti. Ma è molto pericoloso: su quei dati si decide se investire, per esempio, per sviluppare farmaci».
«Le frodi riguardano tra il 3 e il 5% delle ricerche, salgono al 20% circa se si considerano altre forme di violazione di standard scientifici, come la lettura troppo favorevole dei dati — conferma Gerry Melino, professore di biologia all’Università di Roma Tor Vergata e fondatore della rivista Cell Death and Differentiation —. A me è successo di scoprire articoli manipolati come editore e come direttore di dipartimento». L’ultimo caso è dell’anno scorso.
Il lavoro ritrattato
«Ricercatori del mio dipartimento avevano pubblicato un lavoro su Bmc Physiology , una rivista inglese. Gli editori o i lettori si sono accorti che qualcosa non tornava e ci hanno chiesto verifiche», racconta Melino (l’articolo è segnalato come sospetto anche su Pub-peer). «Abbiamo chiesto gli originali degli esperimenti ed è risultato che i problemi riguardavano i dati di una sola ricercatrice, Gabriella Marfe: le figure riscontrate in laboratorio non corrispondevano a quelle pubblicate. Le abbiamo chiesto conto e non ha saputo giustificare le divergenze: è stato molto triste. Era una ricercatrice esterna venuta da noi per una collaborazione di un anno e le abbiamo revocato l’ospitalità».
Da allora Melino ha iniziato a interrogarsi sulle misure da adottare per evitare manipolazioni. Anche perché a differenza di altri Paesi europei come la Germania (che lo ha introdotto circa 15 anni fa quando due scienziati sono stati scoperti ad aver falsificato dati in 94 articoli) l’Italia non ha un codice deontologico per le università, né leggi specifiche.
Le indagini penali
In alcuni casi interviene la magistratura, anche in Italia. In Umbria nel 2012 c’è stato il primo processo penale per una frode scientifica: il professore di gastroenterologia dell’Università di Perugia Stefano Fiorucci è stato rinviato a giudizio per peculato e truffa con l’accusa di aver manipolato le immagini di una quindicina di articoli pubblicati tra 2001 e 2005 e di aver abusato dei fondi pubblici di ricerca (Fiorucci si è sempre detto innocente).
Al momento c’è un’indagine su otto pubblicazioni prodotte fra il 2001 e il 2012 dal gruppo di lavoro del professor Alfredo Fusco, professore ordinario alla Federico II di Napoli (ne ha scritto Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera del 16 ottobre 2013). Fusco e il suo team, che studia i meccanismi cellulari all’origine dei tumori, sono accusati di aver usato immagini di proteine o di geni «scattate» in tutt’altri test e opportunamente duplicate, ribaltate o manipolate per legittimare i loro risultati. La Procura ipotizza che, falsificando i dati, si siano appropriati indebitamente di fondi per la ricerca.
La vicenda ha attirato l’attenzione di Nature , che a dicembre in un editoriale intitolato «Chiamate la polizia» ha proposto di far tesoro dell’«esempio italiano» e riflettere sulla possibilità di coinvolgere la polizia nelle indagini sui risultati scientifici. Ma i poliziotti, che non sono medici o biologi, hanno la formazione adatta per accertare le manipolazioni su lastre di laboratorio e vetrini cellulari? E cosa dovrebbero fare: controlli a tappeto su tutti gli articoli pubblicati dalle università italiane?
Il sistema di controllo
Una possibile soluzione arriva proprio da Bucci, che è anche l’autore dell’esposto da cui sono partite le indagini della magistratura su Fusco. Con la sua società Biodigitalvalley Bucci vende infatti analisi dei dati biomedici e per assicurarsi di usare sempre informazioni corrette ha sviluppato un apposito software. Il programma, chiamato Imagecheck, analizza le immagini contenute negli articoli scientifici e segnala quelle che potrebbero essere manipolate (in biologia le immagini sono di fatto i «dati» con cui si lavora). «Ho verificato che il 70% delle segnalazioni su Pubpeer corrispondono agli errori rilevati con la mia procedura. Un 30% è “borderline”», spiega.
Il software è stato chiesto da alcune importanti riviste scientifiche internazionali, che lo stanno usando per vagliare i lavori da pubblicare. Ma Bucci vorrebbe che fosse impiegato in modo sistematico. «Non può essere solo la mia piccola azienda a fare i controlli — dice —. Sarei felice di affidare la mia procedura a un’istituzione internazionale che si faccia carico delle spese per “ripulire” la letteratura scientifica».
L’appello di Cattaneo
A chiedere a gran voce un «codice deontologico nazionale per la ricerca» c’è Elena Cattaneo, senatrice a vita e direttore del Centro di ricerca sulle cellule staminali dell’Università di Milano. «Parte della comunità scientifica si sta muovendo per risolvere il problema — assicura —. E sono orgogliosa che questa discussione si sia aperta in Italia». Secondo lei bisogna agire su tre livelli: «Maggiore autoregolamentazione e controlli più stretti a livello di singoli laboratori, dipartimenti e università, che possono prendere le prime sanzioni sui ricercatori scorretti — dice —. Chi guida i laboratori ha sempre la responsabilità di mantenere l’integrità etica della ricerca. Se poi i falsi condizionano l’assegnazione di fondi o la carriera è giusto invece che intervenga la polizia. Infine, serve una verifica centrale sui laboratori pubblici».
Alcune istituzioni, come l’Ue, la prevedono già e mandano spesso i loro ispettori a controllare cosa fanno i laboratori a cui hanno assegnato fondi. «È urgente prendere provvedimenti — avverte Cattaneo —: la scienza è per definizione ricerca della verità. Se qualcuno manipola i dati mina le sue fondamenta e deve essere messo fuori dalla comunità scientifica. Succede già molto spesso: facciamo in modo che succeda sempre».

Repubblica 17.11.14
Il giorno in cui ho smesso di credere in Dio
L’educazione cattolica, la violenza negli anni della guerra, la lotta contro la malattia Umberto Veronesi racconta com’è diventato agnostico senza perdere la fede nella vita
Per me il cancro è divenuto una prova della non esistenza del Signore
Ho scelto medicina per capire l’origine di quel male che la religione non poteva spiegare
“Fu il mio amico parroco a farmi capire che ci può essere anche una carità laica” “Soprattutto il chirurgo oncologo ha un rapporto speciale con il dolore”
di Umberto Veronesi


Esce domani per Einaudi (160 pagine, 18,50 euro) Il mestiere di uomo di Umberto Veronesi. Ne pubblichiamo un estratto

DON Giovanni frequentava spesso la nostra cascina, arrivava da noi in bicicletta. Partiva dalla parrocchia del Redentore, che si trovava alla periferia di Milano in zona Loreto e pedalava fino alla campagna per poi fermarsi a conversare o, a volte, a mangiare con me e i miei genitori. Ma era in primavera, in occasione della Festa degli Asparagi, che don Giovanni diventava il nostro ospite d’onore e la festa si concludeva sempre con un grande pranzo. Per me e per i miei fratelli, cinque maschi e una femmina, precocemente rimasti orfani di padre, era molto più che «il Don»: era un confidente, un consigliere affettuoso e un amico capace di risolvere anche le piccole infelicità dei bambini.
Don Giovanni era molto fiero di me: da bambino non perdevo mai una messa né un rosario, ero un inappuntabile chierichetto ed ero persino stato elevato al grado di «paggetto», una vera e propria onorificenza nella Chiesa di allora. Per questo fu lui, forse, a soffrire di più quando, molti anni dopo, gli rivelai che avevo perso la fede.
Glielo dissi un giorno di primavera. Dopo un lungo periodo di silenzio in cui non ci eravamo più né visti né sentiti, don Giovanni si presentò all’Istituto nazionale tumori di Milano dove lavoravo come assistente. Aveva un tumore del colon in stadio piuttosto avanzato e mi fece promettere che l’avrei operato personalmente. Così feci e l’intervento andò benissimo. Il giorno delle dimissioni, sulla porta d’uscita dell’ospedale, mi strappò però una seconda promessa: sarei andato a trovarlo una volta ogni quattro mesi nella sua nuova parrocchia (in un paesino di campagna) per regalarci un po’ di tempo solo per noi. Iniziò così un periodo di conversazioni e di scambio intellettuale sul senso della vita, della scienza e della fede, che segnò per sempre il mio pensiero. [...] Dopo due, o forse tre anni che ci eravamo ritrovati, ci fu una svolta dolorosa: visitandolo, gli trovai una massa dura e voluminosa nell’addome. Non ci fu bisogno di troppe parole per spiegargli che aveva una metastasi epatica e che (all’epoca era così) i mezzi per trattarla erano molto limitati. Gli feci allora la terza promessa: «Non dovrai soffrire, Giovanni, te lo prometto». Mi fu molto grato per questo, perché non faceva parte di quei credenti che ritengono che il dolore avvicini a Dio. La nostra ultima sera insieme mi disse: «Ti ringrazio per la carità che dimostri, anche senza fede. C’è tanta fede senza carità». La promessa che non mi chiese mai di fargli fu quella di riavvicinarmi alla fede, e di questo sono io a essergli profondamente grato. [...] Non saprei dire qual è stato il mio primo giorno senza Dio. Sicuramente dopo l’esperienza della guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima. Durante il liceo fui bocciato due volte, ero un discolo in senso letterale: non andavo bene a scuola. Ero il tipico ragazzo di periferia, i miei atteggiamenti erano spavaldi, avevo sempre bisogno di mettermi in mostra: era l’unico modo che conoscevo per vincere la timidezza e affermare la mia personalità. Di fatto, sono sempre stato anticonformista, ribelle ai luoghi comuni e alle convenzioni accettate acriticamente, e questa mia natura mal si conciliava con l’integralismo della dottrina cattolica che era stata il fondamento della mia educazione di bambino [...]. Poi arrivò la guerra e i miei interrogativi si fecero più drammatici. A diciotto anni non volevo andare a combattere, ma finii in una retata e mi ritrovai con indosso un’uniforme che non aveva per me alcun valore e fui ben armato per uccidere altri ragazzi, in tutto e per tutto uguali a me, salvo per il fatto che indossavano una divisa diversa.
Ho vissuto in pieno, soprattutto nel lungo periodo di clandestinità (legata alla Resistenza), la violenza dissennata della Seconda guerra mondiale, fui gravemente ferito e sono uno dei pochi sopravvissuti allo scoppio di una mina, su cui saltai mentre scappavo da un’imboscata nemica. Oltre alle stragi dei combattimenti, ho toccato con mano anche la follia del nazismo e non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo: «Dov’era Dio ad Auschwitz?». [...] La scelta di fare il medico è, profondamente legata in me alla ricerca dell’origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora più inspiegabile della guerra, il cancro, e sfidando la rassegnazione che allora imperava, decisi di indagare se attraverso la conoscenza e il sapere si potesse vincere quell’immenso e assurdo dolore. [...] Per chi il male non è un’idea astratta, ma è qualcosa che si vede, si tocca e, nel mio caso, ha un nome, tumore, diventa molto difficile identificarlo come una manifestazione del volere di Dio. Ho pensato spesso che il chirurgo, e soprattutto il chirurgo oncologo, abbia in effetti un rapporto speciale con il male. Il bisturi che affonda nel corpo di una donna o di un uomo lo tiene lontano dalla metafisica del dolore. In sala operatoria, quando il paziente si addormenta per l’anestesia, è a te, chirurgo, che affida la sua vita. L’ultimo sguardo di paura o fiducia è per te. E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l’operazione, quando in pochi istanti devi decidere che cosa fare, quanto asportare, come fermare un’emorragia.
Ci sei solo tu in quei momenti, solo con la tua capacità, la tua concentrazione, la tua lucidità, la tua esperienza, i tuoi studi, il tuo amore (o anche con la tua carità come la chiamava don Giovanni) per la persona malata, sia questa il prete che ha consolato le tue lacrime quando eri bambino, o la mamma che sta per avere un figlio che voleva allattare proprio con quel seno che tu le hai appena tolto, o un paziente sconosciuto che da te si aspettava soltanto la guarigione, che non è arrivata. Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato una prova della non esistenza di Dio. Ho sviluppato questa convinzione soprattutto all’Istituto nazionale tumori di Milano, dove ogni tanto frequentavo il reparto di pediatria. Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del «non so». Perché accade – e per i bambini oggi succede sempre più spesso – che il dubbio diventi concreta speranza e poi guarigione, e quando questo avviene, è pura gioia.