Corriere 14.11.14
A Tor Sapienza una ritirata che assomiglia a una fuga
La scelta di arrendersi
di Goffredo Buccini
Il Comune a Tor Sapienza ha scelto lo sgombero. Per ragioni comprensibili: evitare altri giorni terribili a Roma. Ma la decisione è pericolosa e non è un caso che il Viminale abbia convocato questore e prefetto.
C’è qualcosa di ulteriormente angoscioso nell’epilogo della tre giorni di tafferugli a Tor Sapienza. Dopo gli scontri, le bombe carta, i poliziotti feriti, gli assalti dei residenti mescolati a picchiatori fascisti contro il centro d’accoglienza «Un Sorriso», ieri s’è deciso uno sgombero «di sicurezza».
Per primi, via i trentasei ragazzini venuti da Libia, Egitto e Siria e, in quanto minorenni, tecnicamente posti sotto la tutela del sindaco Marino. Oggi andranno via anche gli adulti. Dove? Si vedrà. Per il Comune di Roma, il palazzone di viale Morandi 153 sarebbe «inagibile» proprio per effetto degli attacchi subiti. Si tratterebbe insomma di dare una ripulita alle stanze e alle scale (l’edificio è gigantesco) per poi riaprire. Tutti sappiamo che non è così. E che la precipitosa decisione presa da Ignazio Marino ha, come comprensibile ragione, il desiderio di evitare altre giornate terribili alla strada, al quartiere, a Roma.
Per quanto — ripetiamo — comprensibili, queste ragioni a noi sembrano non condivisibili, sbagliate e pericolose. E forse — chissà — anche al ministro dell’Interno Alfano, che ieri ha convocato prefetto e questore.
Nessuno pretende che lo Stato si arrocchi nella sede del centro sociale come a Fort Alamo, resistendo a oltranza agli assalti dei facinorosi. Ma, perbacco, questa ritirata repentina assomiglia a una fuga: e lo Stato — o il Comune di Roma che qui lo Stato rappresenta — non può far decidere a quattro teppisti incappucciati e nerovestiti tempi e modi della propria politica di accoglienza.
Saggiamente, il vicepresidente del comitato di quartiere, Roberto Torre, coglie poi l’altro punto, non di principio ma pratico: «Il rischio è l’effetto domino». Se tirando quattro bombe carta al grido di «viva il duce!» il risultato è questo, perché mai la scena non dovrebbe replicarsi nella ventina di analoghe situazioni di crisi sparse per la periferia romana?
La Stampa 14.11.14
“Si parla solo di sbarchi
Nessuno affronta il problema integrazione”
di Francesca Paci
Marzio Barbagli è un sociologo esperto di malessere contemporaneo. Da anni indaga negli angoli più remoti delle nostre città dove, a lungo invisibili, covano le contraddizioni: l’immigrazione, la criminalità, il disagio della classe media.
Cosa sta succedendo in Italia, il cittadino medio è diventato di colpo razzista?
«I dati a nostra disposizione ci dicono che negli ultimi 3 anni, in Italia e nel resto d’Europa, c’è stata un’inversione di tendenza nel fenomeno criminalità e nel contributo dato dagli immigrati. Vale a dire che certi reati contro il patrimonio, come furti in appartamento, rapine in strada e borseggi, sono tornati ad aumentare mentre da tempo diminuivano. Inoltre, è ripresa a crescere la percentuale di stranieri sul numero dei denunciati per questi reati, parliamo di circa il 50% su una popolazione che rappresenta il 10% del totale».
La responsabilità di questo malessere, reale o percepito, ricade sulla crisi economica?
«Sì e no. È interessante notare che la crisi ha colpito maggiormente il Sud del Centro-nord. Eppure l’aumento dei reati in questione è tangibile soprattutto al Centro-nord, dove la percentuale di stranieri è nettamente maggiore. Un dato che fa pensare a una relazione tra la consistenza della popolazione migrante e il tipo di crimini che generano insofferenza».
A che punto di criticità siamo se a scendere in piazza sono le famiglie medie?
«Ecco il punto. La crisi economica c’entra ma c’è di più. Da anni i media e la classe politica si sono concentrati sull’economia e sui flussi migratori intesi come sbarchi, ma si sono dimenticati dei costi sociali dell’immigrazione. Il tema è scomparso ma questo non significa che non esista più. Prima, seppure in modo strumentale, era la Lega a farsi portavoce di questo problema rispondendo a una richiesta della popolazione. Oggi questa domanda non ha più risposta, la stessa Lega ha perso importanza e se questo per certi versi è un bene, perché depotenzia le istanze xenofobe, per altri lascia un vuoto. La classe media si sente dentro un mondo di cui nessuna forza politica, nè la destra nè tantomeno la sinistra, si interessa».
A lamentarsi non sono solo gli italiani. La sicurezza è un tema anche per gli stranieri che vivono e lavorano qui. Un segno paradossale d’integrazione nella difficoltà?
«Gli immigrati inseriti sono i primi a sentire il disagio per quelli che sono elemento di disordine e hanno l’urgenza di dissociarsene. Ma soprattutto certi temi, intercettati a suo tempo giustamente dalla Lega e poi affrontati con risposte abominevoli, sono trasversali. Penso alla scuola, dove l’alta percentuale di stranieri può effettivamente rallentare il rendimento degli altri studenti. L’America ha un sistema flessibile che integra i nuovi senza svantaggiare i vecchi, l’Italia no. È chiaro che alla lunga questa situazione crea malcontento. Il guaio è che qui non sono state trovate le risposte a una società che è cambiata e in cui l’immigrazione, almeno al Centro-nord, è ormai vicina ai tassi tedeschi. Nell’ultimo anno, nonostante la crisi, sono arrivati 500 mila stranieri in più».
il Fatto 14.11.14
La piazza dei fascioleghisti
Lo Stato si arrende ai fascisti
Nessun monito dai vertici delle istituzioni
di Tommaso Rodano
Dopo le violente proteste aizzate da Casa Pound e Lega Nord, il Comune di Roma sgombera il centro per rifugiati di Tor Sapienza. Il Viminale lancia l’allarme: “Così si rischia di far esplodere altri focolai”.
Intanto stampa e tv regalano passerelle a Salvini & C. Nessun monito dai vertici delle istituzioni
IERI GIORGIA MELONI, OGGI BORGHEZIO, FRA QUALCHE GIORNO MATTEO SALVINI CASA POUND IN PRESIDIO FISSO. VIMINALE IN ALLARME: “LO STATO SI È PIEGATO”
La destra ha scoperto Tor Sapienza. Il quartiere abbandonato, all’improvviso, è il centro di Roma: sul carro armato dell’odio vogliono salire tutti. La borgata si è trasformata in uno dei primi palcoscenici della nuova alleanza fascio-leghista tra il Carroccio e Casa Pound. Ma non solo. La sfilata degli onorevoli l’ha inaugurata Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia. Oggi tocca al solito Mario Borghezio. C’è da celebrare una piccola vittoria: i rifugiati sgomberano. Non tutti, si comincia dai minori: 43 ragazzini, tutti orfani, arrivati dal nord Africa sui barconi. Li portano via dal centro accoglienza per preservarli dalle violenze, e per dare in pasto un successo simbolico alla piazza.
IL COMUNE di Roma si giustifica: “Il centro di viale Morandi è stato gravemente danneggiato e al momento in molti dei suoi spazi è inagibile”. Ecco perché ieri i ragazzi sono stati trasferiti in altre strutture. Ma la versione più credibile – che rimbalza nei corridoi del Dipartimento Immigrazione del Ministero dell’Interno – è che lo Stato si è piegato alla piazza inferocita. Una resa che spaventa il Viminale e Angelino Alfano che ha convocato prefetto e questore per diramare una nota che scarica tutte le responsabilità sul Comune: “Hanno deciso loro, il primo piano era inagibile”. Ma in realtà per il Viminale è un precedente gravissimo e una dimostrazione di debolezza. Anche di fronte alle forze di polizia, che a Tor Sapienza sono state colpite: gli agenti feriti in queste notti di guerriglia sono dodici. Intanto il quartiere continua a ribollire. La borgata era abituata alla separazione anche fisica dal resto della città: un’isola di cemento arrampicata su una lunga salita poco oltre via Palmiro Togliatti, confine psicologico della periferia est romana. Fino all’altro ieri esisteva solo per i suoi abitanti. Oggi, dopo quattro giorni di violenze, scopre le telecamere, i taccuini dei giornalisti e le passerelle degli onorevoli.“Qui non è mai venuto nessun politico e nessuno deve venire. I partiti non esistono”, ringhia una voce del quartiere. Ma quando inizia la sfilata di chi vuole mettere il cappello sulla rabbia, la gente si scioglie. Giorgia Meloni è accolta come la salvatrice della patria. È la leader di Fratelli d’Italia, il partito dell’ex sindaco Alemanno, che ha amministrato questa città – Tor Sapienza compresa – per cinque anni. Contraddizione che non pare disturbare nessuno. La Meloni è circondata dai giornalisti. I ragazzi del quartiere si spazientiscono : “Sei venuta qua per noi o per le telecamere?”. Ma Tor Sapienza è soprattutto una delle prime prove di forza della nuova creatura di Matteo Salvini, la “cosa neroverde” che tiene insieme i neofascisti di Casa Pound e gli ex (?) secessionisti della Lega Nord. Casa Pound in piazza c’è, pure se si fa vedere poco. Federico, 46 anni, si definisce un “simpatizzante” del centro sociale nero. Viene dal Quarticciolo, borgata dell’altro lato di via Togliatti. “Dite pure che è una protesta fascista, ma non è così, non capite niente”. Non ha tutti i torti: la regia di questa piazza magari non è politica. Ma la destra questo furore lo cavalca, eccome. Simone Di Stefano, leader di Casa Pound, non lo nasconde. “Noi a Tor Sapienza ci siamo sempre stati. Non abbiamo mai governato questa città e questo territorio, non ci siamo sporcati la coscienza. Noi siamo accanto alla gente, diamo una mano al comitato di quartiere. È un terreno incontaminato: siamo gli unici che possono venire qui senza prendersi gli insulti. Chi è che può parlare a questa gente? Marino? Alemanno? Per carità...”.
OGGI a Tor Sapienza tocca a Mario Borghezio. L’eurodeputato gongola: il fascio-leghismo è anche una sua creatura. I voti di Casa Pound l’hanno portato a Bruxelles, la rabbia delle periferie romane gli sta regalando i riflettori. “Io candidato sindaco per il dopo Marino? Sarebbe meglio un romano”, si schernisce. “Magari di Casa Pound”. Soffiare sul fuoco di un quartiere in fiamme non lo spaventa. “Queste situazioni non le abbiamo mica create noi per fare campagna elettorale. Si trascinano da anni. A Corcolle (l’altra periferia romana esplosa a ottobre, ndr) sono stato accolto da un cartello: Lega salvaci tu”. È il mondo alla rovescia. Lorenza, anziana, capelli rossi e occhiali sottili, abita in una casa popolare e strilla contro “le puttane e i culattoni che infestano il quartiere”. Nel calderone dell’odio non ci sono solo “i negri”. Lorenza è qui per ascoltare la Meloni, ma sogna Salvini. Lo grida alle telecamere: “Addavenì Matteo. Ha promesso che sarebbe venuto”. Arriverà anche lui. “Lo aspettiamo, qui ci vuole la Lega”. Intanto c’è Borghezio. La rabbia è per i lterritorio devastato, per le strutture fatiscenti, l’immondizia per strada, i mezzi pubblici insufficienti, la città lontanissima. I migranti che c’entrano? Chiosa Borghezio: “La questione della cattiva amministrazione ce la sbrigheremo noi politici. Ma questi qui, i neri, perché non li portano dove abita il sindaco, a via Condotti o al centro? L’incazzatura di queste persone è sa-cro-san-ta”.
il Fatto 14.11.14
Tor Sapienza, si sgombera Ma lo stupro è un mistero
Portati via dal centro accoglienza 43 minorenni
di Alessio Schiesari
LA RAGAZZA CHE AVEVA ACCESO LA MICCIA (“UN NERO VOLEVA VIOLENTARMI”) CI RIPENSA: “ERA RUMENO”
A Tor Sapienza basta un caffè per tornare a infiammare gli animi e alzare le mani. Dopo quattro giorni di bombe carta, pestaggi agli immigrati e rivolta anti centro di accoglienza, la periferia est di Roma è ancora in preda a una crisi di nervi. Ieri, in tarda mattinata, l’ennesimo episodio: una rissa tra residenti e rifugiati sfociata in un lancio di oggetti contro il Centro di accoglienza. Nemmeno la decisione del sindaco Marino di piegarsi alla violenza e trasferire i 43 minori ospiti della struttura è stata sufficiente a calmare gli animi.
PROMESSE, presidi e spaccio. La notte tra mercoledì e giovedì è trascorsa abbastanza tranquilla, anche perché nel pomeriggio i residenti hanno incontrato Marino al Campidoglio che ha loro promesso di trasferire i migranti. Viale Morandi è comunque una trincea: da un lato il cordone di polizia misto al presidio dei centri sociali (anche se questi ultimi se ne andranno prima delle undici, mentre gli agenti rimarranno tutta la notte). Dall’altro, i duri e puri della protesta, una ventina, tutti giovani. Dietro, tra i quattro blocchi di edifici fatiscenti, scene di ordinario degrado: ragazzi che bevono, altri che spacciano senza curarsi delle decine di poliziotti dall’altra parte dell’edificio, a un centinaio di metri. Ma, nei condomini della rabbia italiana, nessuno sembra farci caso: “Qui il 25% degli inquilini è pregiudicato”, stima un funzionario di polizia.
LE VERSIONI DI AMBRA. La tensione torna a salire in tarda mattinata. I ragazzi e operatori della cooperativa non se la sentono di uscire a prendere la colazione. A portare i caffè ci pensa un gruppo di residenti, alcuni tra quelli più agitati. C’è anche la protagonista della rivolta: Ambra, 28 anni, coda di cavallo e un paio di fuseaux sportivi lucidi. Il primo assalto, quello di domenica notte, è partito dalla sua denuncia: portavo a passeggio il cane, un nero mi ha aggredita per stuprarmi. La pistola fumante sono i segni di violenza sul collo. Le contraddizioni emergono nei giorni successivi: la denuncia presentata con quattro giorni di ritardo, le accuse alla polizia che l’avrebbe prima manganellata, poi cacciata dal commissariato. Ieri, secondo gli operatori del centro di accoglienza, avrebbe ritrattato: “Ora dice siano stati dei rumeni”, spiega Gabriella Errico, direttrice della onlus Un Sorriso.
CAFFÈ AMARO. Ambra e gli amici si presentano al centro con in mano un caffè: “Era un gesto distensivo. Un negro però è uscito e ha dato una pizza in faccia alla ragazza. Poi ne è uscito un altro che ha gridato ‘italiani di merda’”, racconta un gruppo di ragazze. Secondo Errico invece “il caffè era solo un cavallo di Troia per tornare litigare”. Manca una versione ufficiale (la polizia non ha fornito una ricostruzione), ma viale Morandi torna a riempirsi. Il parapiglia convince Marino ad accelerare il trasferimento dei minori. Dovevano esserne spostati quattro al giorno per non dare nell’occhio, ieri invece se ne sono andati tutti e 43. Trasferiti in altre strutture del Lazio, manterranno il loro status: né rifugiati, né richiedenti asilo, semplicemente minori non accompagnati di cui si deve occupare lo Stato italiano. Il Campidoglio smentisce, ma sembra che anche i 35 rifugiati adulti, soprattutto afghani e pachistani, saranno trasferiti oggi.
CESTINI NUOVI nella bidonville. Lo Stato, che qui non s’è mai visto, è arrivato col richiamo delle bombe carta. A testimoniarlo ci sono i cestini per le cartacce nuovi, secondo i residenti installati pochi giorni fa, e la processione di mezzi per pulire le strade: passano sette volte in un pomeriggio, ora che ci sono le telecamere. La rabbia del quartiere però non scema. “Non bastano i neri, devono andarsene tutti: anche rumeni e rom”, attacca Ramona. Con la mano indica a sinistra, dove la sera si riuniscono i trans che poi consumano sotto le sue finestre. A destra, il campo rom. Dall’altra parte, la scala degli edifici dove gli abusivi rumeni occupano i negozi abbandonati e gli scantinati insieme agli italiani. “A loro pagano tutto: vitto e alloggio. Io pago la pigione”, grida Ramona. Lei sì, ma il 50% degli inquilini dei 495 alloggi popolari dell’Ater è indietro coi pagamenti, il 20% in più della media della Capitale.
UN FUTURO mai iniziato. Appena fuori dal corridoio degli occupanti due sorelle, 17 e 21 anni, stanno sedute su una panchina. Sulla colonna a fianco qualcuno ha scritto i loro nomi, che campeggiano sullo sfondo di graffiti con le svastiche e scritte come “Roma ai romani”. Anche loro ce l’hanno con gli immigrati: “Fischiano alle ragazze e fanno arrivare le guardie. Poi buttano il cibo che gli paghiamo”, spiega la più piccola. “Vorremmo andarcene da questo quartiere, ci abbiamo pensato tante volte, ma non lavoriamo”, la interrompe l’altra. Ma qualcosa da fare ce l’avete? “Voglio tornare a studiare, devo ancora finire la terza media”, dice la più giovane. Silenzio imbarazzato, poi risponde la sorella, ma sarà breve: “Anch’io”.
il Fatto 14.11.14
Solo “La Zanzara” Cruciani: “Ognuno può dire ciò che vuole”
Su Radio24: “Fare dei rom cibo per porci”
di Giampiero Calapà
Trasmissione “La Zanzara”, Radio24, l’emittente di Confindustria. Tal Giorgio da Genova auspica lo sterminio dei rom, il giornalista Giuseppe Cruciani dice che “ognuno può dire quello che vuole”. Ecco di seguito l’incredibile dialogo andato in onda il 12 novembre nell’indifferenza generale.
Giorgio da Genova: “Io sono per lo sterminio completo dei rom e degli zingari, farne del mangime per i maiali è l’unica soluzione per... ”
Giuseppe Cruciani: “È l’unica soluzione per cosa? ”
David Parenzo: “Spero che questo pazzo stia scherzando... ”
Giorgio da Genova: “No, no, non sto scherzando... Lo sterminio completo: donne, uomini e bambini”
Giuseppe Cruciani: “Qualcuno c’ha detto, qualcuno ha scritto, l’avete cassato, l’avete tolto, l’avete buttato via dalla trasmissione. Noi non lo facciamo questo e ce lo abbiamo qui in carne e ossa, caro Parenzo: Giorgio da Genova. Io voglio capire da Giorgio da Genova se veramente vuol fare dei rom mangime per gli animali? ”. Giorgio da Genova: “Io sono tranquillo perché sono cosciente di quello che dico. Io ho una moglie non italiana e si è inserita benissimo. Loro non s’inseriscono, gli animali... il Mein Kampf se non sbaglio, dice: un animale se lo addestri cambia, uno zingaro non cambia. Quindi via: un campo di concentramento, un autocompattatore, da una parte entrano zingari dall’altra esce mangime per maiali”
Giuseppe Cruciani: “Io pensavo scherzasse, Parenzo, questo signore”
David Parenzo: “Questa persona vomitevole che sta parlando, che addirittura cita il Mein Kampf di Adolf Hitler alle 19,43 su un’importante radio nazionale, dice delle cose... mi puoi dare il numero di cellulare di questo signore che lo do alla questura per favore”
Giuseppe Cruciani: “No, ma perché alla questura, adesso che c’entra la questura? ”
David Parenzo: “No, no adesso non scherzo più... ”
Giuseppe Cruciani: “Ma io non ho scherzato e ti assicuro che non ho concordato nulla con questo signore. Giorgio, lei ha citato il Mein Kampf di Hitler, si rende conto o no? Ognuno può dire quello che vuole, ma non è che può prendere come esempio il Mein Kampf di Hitler... ”
David Parenzo: “Io questo signore lo denuncio. C’è da intervenire subito, andare dai carabinieri e dalla polizia, uno così in libertà non può stare... ” Giuseppe Cruciani: “Vabbè, ma non esageriamo, uno può dire quello che vuole... ” Giorgio da Genova: “Bravo, bravo Cruciani... ” Giuseppe Cruciani: “E vabbè quello che è, lo denunceranno le associazioni rom, lo denunceranno nazione rom, questi qua, va benissimo... o denuncialo tu, chissenefrega, se lo vuoi denunciare denuncialo” David Parenzo: “Mi mandi il numero di questo? ” Giuseppe Cruciani: “Sì, te lo mando, te lo mando” Giorgio da Genova: “No, no Cruciani, Cruciani non mi tradisca... ” Giuseppe Cruciani: “No, non è che se la fa sotto lei adesso amico mio, se ha detto delle cose ne subisce le conseguenze come tutti (...). Dice queste cose con questa voce tranquilla, tipo Himmler” David Parenzo: “È questo che lo rende più pericoloso” Giuseppe Cruciani: “Eh pericoloso dai... ”. Cinque minuti di oscenità con un’abile e furba modalità di prendere le distanze continuando a far parlare – all’audience non si comanda – il tal Giorgio quando bastava interrompere la trasmissione.
il Fatto 14.11.14
Chi fa finta di non vedere
di Antonio Padellaro
Oggi a Tor Sapienza, in quel di Roma Capitale, è attesa la visita del senatore leghista Mario Borghezio venuto a cantare vittoria, e giustamente visto che lo Stato incapace di mantenere l’ordine nel quartiere ha deciso di calarsi le brache procedendo allo sgombero degli extracomunitari dal locale centro di accoglienza, dando così ragione ai violenti e ai facinorosi di ogni colore. Borghezio (già condannato dopo l’incendio dei pagliericci di alcuni immigrati a Torino nel 2000) fa da battistrada al suo leader, Matteo Salvini, star dei talk show, un simpaticone assurto alla notorietà nel 2009 quando propose di riservare “alle donne e ai milanesi” appositi vagoni della metropolitana , onde evitare evidentemente pericolose contaminazioni con negri e altre razze inferiori. Quello stesso Salvini diventato compagno di merende delle squadre speciali di Casa Pound, che almeno non fanno mistero della loro quintessenza fascista. Questi personaggi, fino a qualche tempo fa comparse pittoresche della politica minore, oggi fanno molto meno ridere e raccolgono a piene mani la rabbia collettiva seminata dalla politica maggiore. Non ci occuperemo qui dei torti e delle ragioni di quella che su Repubblica monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma, ha definito “guerra fra poveri” segnalando “la spregiudicatezza di politici che cavalcano il malcontento attirando i gruppi più estremi”. Ma più grave ancora è il silenzio delle istituzioni, indifferenti di fronte al dilagare di una guerriglia che nelle borgate romane è caccia allo straniero, mentre a Milano diventa rissa quotidiana nelle case popolari occupate. Tace il governo: e se l’assenza di Alfano non fa più notizia, per la palese inadeguatezza del ministro dell’Interno (curiosa la protesta del Vi-minale, quando ormai a Tor Sapienza lo Stato si era ritirato), l’indifferenza di Matteo Renzi va misurata con il metro del cinismo. Il premier, infatti, rifugge dalla realtà soprattutto quando essa si presenta con effetti sgradevoli (a Genova, per dirne una, aspettano ancora la sua visita dopo l’alluvione di oltre un mese fa); e chissà se i suoi addetti alla comunicazione oltre a provvedere alla “modalità golfino” gli nascondono anche i giornali con le brutte notizie. Stupisce infine l’assenza di moniti del Quirinale. Abituati ad ascoltare richiami e reprimende sull’universo mondo, si stenta a comprendere come mai questa escalation d’intolleranza in un corpo sociale devastato dalla crisi susciti sul Colle così scarso interesse. Il modo migliore per lasciare campo libero ai razzisti in camicia verde e ai fascisti in camicia nera
Repubblica 14.11.14
Vince il fronte anti-immigrati
Via i profughi dalla periferia in fiamme
Malumori della polizia “Una resa alla piazza”
Poi il compromesso “Spostiamo solo i ragazzi”
di Carlo Bonini
ROMA La rivolta di Tor Sapienza mette a nudo i nervi scoperti del Viminale e torna a illuminare, ammesso ce ne fosse bisogno, il solco di profonda diffidenza e disorientamento che in un anno si è aperto tra il ministro Angelino Alfano e la Polizia. Accade infatti che, per un’intera giornata, il trasferimento dei 45 minori del centro di accoglienza per migranti della cooperativa “ Il sorriso” venga vissuto dall’apparato come «una resa ai malumori della piazza». Per giunta, alla vigilia di una giornata come quella di oggi, che i cortei di studenti e lavoratori previsti a Roma annunciano complicata se non addirittura «ad alto rischio».
Del «malumore» danno conto le agenzie di stampa e lo confermano, con la garanzia dell’anonimato, sindacalisti e funzionari di polizia che da giorni presidiano la polveriera di via Morandi. Un cedimento alla forza dell’intimidazione e della violenza — argomentano — destinato a diventare un precedente. Oggi Tor Sapienza, domani un’altra delle periferie che formano quella corona di spine che è l’area metropolitana della città oltre il Grande Raccordo Anulare. Insomma, un ennesimo segnale di fragilità della politica in grado di disorientare e aumentare quel senso di solitudine e frustrazione di chi la rabbia della piazza è chiamata a governare.
Anche per questo, alle 7 di sera, convocati con urgenza, salgono nell’ufficio di Alfano, il prefetto Giuseppe Pecoraro e il questore, Niccolò D’Angelo. Per un incontro che, nelle intenzioni, deve definire una sorta di “linea del Piave” oltre la quale non è possibile arretrare. Che deve dare conto come, nella decisione del trasferimento, vi sia stata, oltre a quella del sindaco, che l’ha formalmente “assunta”, anche la mano del Prefetto (e dunque del ministro) che l’hanno «condivisa». Che le ragioni siano dunque tutte e soltanto di «ordine pubblico» e non politico. Che il trasferimento dei minori sia solo e soltanto legato, dopo quattro giorni di battaglia, alle condizioni di inagibilità della parte del centro che li ha ospitati. Una decisione presa insomma «in stato di necessità». E che, in ogni caso, a costo di mantenere per settimane un dispiegamento di uomini e mezzi imponente, gli «adulti del centro da lì non si muoveranno».
È un’operazione di equilibrismo che serve a guadagnare tempo e prova a scommettere anche sulla “stanchezza” e le divisioni che pure cominciano a esserci nel quartiere. E che, per altro, dovrebbe rendere più agevole assicurare l’incolumità degli immigrati che ancora quel centro ospita. Una scommessa — appunto — che solo i prossimi giorni potranno dire se felice o meno. Ma che torna, appunto a declinare una questione politica, in affare “tecnico”, di “ordine pubblico”, per l’appunto. Non fosse altro perché a Tor Sapienza, lo Stato ha avuto, fino a ieri sera, solo il profilo degli scudi di plexiglass, l’odore dei lacrimogeni e il colore delle tute dei reparti anti-sommossa. Certamente non quello del sindaco Ignazio Marino, ieri a Londra ospite di un convegno organizzato dall’ Economist, e per giunta, oltre che psicologicamente frastornato dal “multa-gate”, in rotta con il ministro dell’Interno e il prefetto dai giorni delle trascrizioni dei matrimoni gay.
Una maionese impazzita che un funzionario del Reparto Mobile di Roma fotografa con una qualche schiettezza: «Il ministro, il sindaco, il governo... Facessero un po’ come gli pare. Ma ci dicessero una volta per tutte quello che dobbiamo fare. Perché se no qui Roma diventa come le curve dello stadio Olimpico, dove decidono gli ultras se si deve giocare o meno». Non a caso, nell’incontro al Viminale — per quanto ne riferiscono due diverse fonti qualificate del ministero — il questore Niccolò D’Angelo e con lui il prefetto Pe- coraro sono tornati a garantire al ministro dell’Interno che Tor Sapienza non diventerà il primo quartiere della città in cui lo Stato ha deciso di abdicare alla propria sovranità. Ma è altrettanto vero che entrambi sono tornati a insistere sull’urgenza di una soluzione rapida e politica della questione dei centri di accoglienza per migranti in città.
«L’odio di prossimità» tra “ultimi” innescato dalla prassi di considerare intere zone della città una sorta di “discarica” dei marginali (migranti o cittadini che siano) è diventata una delle questioni da tempo in cima all’agenda della Prefettura e una delle prime emergenze con cui il neo-questore D’Angelo è stato costretto a misurarsi. «E il tempo — come conferma anche un’autorevole fonte del Dipartimento di Pubblica Sicurezza — non è infinito. Anzi, forse è già esaurito. Non basta per far sapere che lo Stato è presente mandare in giro le poche volanti a disposizione con i lampeggianti accesi. E’ un effetto placebo che, come si vede, dura poco».
Repubblica 14.11.14
Il buio e l’odio
“Basta con i neri, sono tutti bestiacce”
Così il ghetto trasforma la rabbia in razzismo
di Francesco Merlo
ROMA EPPURE Ambra, la ragazza bionda che subì il tentativo di stupro, anche a me dice: «Non erano neri, non erano musulmani». Ha raccontato alla polizia di 3 rumeni, e invece sono i neri e i musulmani che ora stanno cacciando. E non è il primo pogrom della Repubblica italiana contro gli immigrati solo perché manca il sangue. Di sicuro c’è stata la rivolta ed è in stadio avanzato l’espulsione del capro espiatorio: erano 81 e ne sono rimasti 35. Difatti ben più della metà, 46 egiziani, tutti minorenni, ieri mattina sono stati portati altrove: «Per proteggerli ovviamente» dice, con enfasi eccessiva ed artefatta, il dottor Fabozzi, che gestisce l’ordine pubblico in ben cinque periferie con l’aria dello sceriffo buono e «Dio sa quanta umiltà e quanto rispetto ci mettiamo». Ma lui, il ministro Alfano, il questore e pure il Comune sanno bene di averli trattati come delinquenti. Perciò, forse per risarcirli, il poliziotto scuote la testa quando una signora, mimando lo scorrere della cerniera dei calzoni, dice: «Ogni volta che vedono una donna, quei porci, specie i più giovani, tirano fuori il … trallallà».
La signora racconta adesso il tentativo di stupro, ma senza parlare dei rumeni. Comincia dal buio «che dobbiamo ai bastardi della società elettrica». Poi cambia soggetto e mi invita ad andare con lei «a contare i preservativi nel parco». Passa il filo del racconto ad un’amica e a poco a poco il mondo diventa un capogiro collettivo di donne e ancora donne: «La farebbe passare sua figlia in mezzo alle prostitute della Prenestina?», «e sa quanti sono i transessuali nell’antico Mattatoio?» e «dovrebbe vedere la sera le Mercedes che vengo a prendere le loro donne per portarle a battere». Arriviamo così ai «fuochi neri che ogni notte si alzano dai due campi Rom, dicasi due». Quindi torniamo al tentativo di stupro, ma sempre senza quel dettaglio di verità sui violenti che erano rumeni. Si capisce bene che le spinge e le unisce non il razzismo, ma l’orgoglio di appartenere alla periferia oltraggiata, e che il racconto è modellato sulle ragioni superiori della Comunità, discusse e approvate al bar Lory. E forse è ancora l’amore per questi luoghi, che solo per pigrizia e conformismo raccontiamo come deserto di affetti, che Ambra ora si nega ai giornalisti. «Mio marito non vuole» dice, ed è protetta dalle amiche che la circondano a cordone.
Sarebbe stata un bella lezione per il sindaco Marino. Qui infatti non è difficile capire come si diventa razzisti e come nasca l’intolleranza dalla povertà, dalla tracimazione rancorosa della solidarietà (generosità?) di ghetto: «Noi viviamo in tre con le 500 euro della pensione del nonno. Sa quanto guadagnano quelli della cooperativa “Un sorriso” che gestiscono gli immigrati? Trentacinque euro al giorno per ogni immigrato. E dove finiscono i soldi? Sa quanti sono “i bravi ragazzi” che ci mangiano? Quaranta. Si ricorda quanti erano quelli di Ali Babà?». E mi mostra il suo vecchio Nokia tenuto insieme con lo scotch: «Quelli hanno iPhone e iPad». Tra i ragazzi di Ali Babà incontro Gabriella che ha stampata sul viso l’idea forte e generosa che bisogna arredare le fauci dell’arretratezza con il sorriso e la bontà d’animo; un altro di Ali Babà somiglia invece al quartiere che combatte, ha dentro la stessa violenza ma di segno opposto: «Ci chiamano scimmie». Anche a te che sei romano? «Soprattutto a me». Una signora con la tuta e la Kefiah attorno al collo li copre di insulti, li accusa di tenere chiusi i ragazzi immigrati, di punirli «e mentre quelli si menano tra loro, voi venite qui a farci la lezioncina». Adesso i codici saltano davvero e viale Morandi diventa un pandemonio di sudori, di odori, di tensione. Né il sindaco Marino né il suo assessore alle periferie se la sono sentita di venire qui in periferia a scoprire insieme a noi come un’anonima e brutta strada possa diventare un teatro di eversione, e con quanta facilità le belle facce delle borgatare, con la testa incassata nelle spalle, si deturpino nell’odio. «Bestiacce, sono bestiacce» si è messa a urlare quella Mamma Roma con la Kefiah che l’odio ha trasformato in megera.
La barbarie è scenica perché stasera la trasmissione Matrix trasformerà in piazza universale della violenza il razzismo scombiccherato di un mondo che è ancora piccolo piccolo, più “Accattone” di Pasolini che fu girato qui accanto al Quarticciolo, che racaille, feccia e sguardi assassini di banlieusards. Ci sono le telecamere ad ogni angolo del borghetto Tor sapienza che solo ai margini, lungo viale Morandi appunto, diventa ghetto suburbano e umanità confinata, quando non ci sono più le piazze, i mercati, le strade, le fontane e le case anni venti di mattoni rossi, ma cominciano i palazzoni grigi di edilizia popolare degli anni sessanta, il cemento scrostato che mostra il ferro, l’acqua che cola in strada da chissà dove, qualche vetro rotto. Forse meriterebbero “il rammendo” di Renzo Piano queste cinquemila famiglie romane che hanno preso d’assedio gli 81 immigrati con diritto d’asilo. E i cinquanta poliziotti che li hanno chiusi dentro, prima di iniziare l’esodo?
Solo i cassonetti arredano viale Morandi. Mi racconta Alessandro Rosi, che è assessore nel municipio di quartiere, che «la notte si raccoglie un’umanità di cercatori di immondizia, vagabondi per i quali non esiste la strada del ritorno, i nuovi miserabili che hanno ormai spazzato via la mitologia del povero buono e filosofo, del barbone poeta, sagome di uomini e donne che si dileguano con il loro bottino di niente».
No, davvero non si giustifica l’assenza del sindaco dei diritti, il primo cittadino giacobino che nei comizi elettorali aveva promesso di «trasformare Roma nella città dell’accoglienza». In tutti questi giorni di passione non ha trovato un minuto per venire qui, a Tor Sapienza, e addirittura ieri Ignazio Marino, sempre più sconnesso con la realtà, è volato a Londra per parlare di car sharing, ancora di quelle auto che sono ormai la sua ossessione.
Riprovo a far parlare Ambra che è una bionda di 28 anni con due bellissimi bambini: «Sono mamma e casalinga». I capelli lunghi raccolti dietro, un bel viso con i lineamenti appena marcati, nulla di appariscente, è abbronzata, ha le unghia smaltate nere ma con tanti brillantini, i pantaloni da ginnastica e il giubbetto screziato: «Ero a passeggio con il cane. Ed era buio». L‘hanno ag- gredita e il pitbull ha reagito. Da quel momento il quartiere si è mobilitato e, senza che nessuno la fomentasse, la rabbia ha acceso il bar Lory, la farmacia, il piccolo supermercato, il negozio di parrucchiere, la rivendita di tabacchi, e gli interni di quegli appartamenti tutti uguali e tutti con le serrande chiuse, dietro alle quali si indovinano mille occhi di arrabbiati con i cinque sensi tesi. Ce l’hanno tutti contro i neri e contro i mussulmani che lo Stato ha ricoverato in quel palazzo a sei piani, 3000 metri quadri gestiti appunto dalla cooperativa “Un sorriso” per conto del ministero e del comune. Li hanno assediati, hanno assaltato il portone di ingresso, hanno lanciato sassi e bottiglie contro la polizia, hanno danneggiato 8 volanti. Hanno dato botte e le hanno prese. E nella foga, durante una carica, è stata picchiata anche Ambra, che dunque si è sentita aggredita due volte. E le ha prese un cameramen della trasmissione Virus.
La sera arrivano pure gli spacciatori, i piccoli boss. Il dottor Fabozzi dice che «hanno il volto coperto coi cappucci, sono veloci, incombono, cercano di organizzare», ma non sono ancora i nomadi metropolitani raccontati dai nuovi teorici dell’estremismo, si chiamano Romolé, Antò, zia Orsa, Mariangela, Francé,… E il marito di Ambra si chiama Toni. «È vero, abbiamo bruciato i cassonetti per farci notare» mi dice un uomo piccolo, rotondo e imperioso mentre dal bar esce Carletto, un ragazzo dall’aria fragile che agita le mani come per strangolare qualcuno, il berretto è girato al contrario, l’aria è da ‘ora ci penso io’: «Li dobbiamo caccia’ tutti ‘sti stronzi che ce dicono che semo razzisti». L’uomo che mi stava parlando dei cassonetti in fiamme si guarda in giro: «Dateglie ‘na botta a Carletto, che se no finisce male».
Da quel sabato, la rabbia di Tor Sapienza ha attirato l’attenzione di tutta l’Italia e ovviamente della politica, l’altra notte la deputata di Sel Celeste Costantino ha dormito dentro la casa assediata con gli immigrati, ieri pomeriggio è arrivata Giorgia Meloni e li ha invitati a non prendersela «con i poveri immigrati ma con Marino che non è venuto, che vi ha abbandonato». Non è ancora banlieue perché Roma non è ancora metropoli ma forse queste sono prove generali di modernità.
Incontro la signora con la Kefiah, adesso siamo soli io e lei, parliamo, mi fa vedere che «il verde è molto curato», è fiera di tagliare l’erba, adesso ha il sorriso timido, le dico che poco prima mi aveva spaventato il suo odio. Ha sempre vissuto qui e ricorda che una volta era un mondo fertile e ordinato, un’isola … «ma le cose vanno troppo male, e quando tutto va male anche la ragione va in malora». Poi mentre mi saluta: «Di lì però se ne devono andare».
Repubblica 14.11.14
Manconi: voglia di capro espiatorio, ma l’errore è della politica
Il senatore: scelte sbagliate sull’accoglienza, anche a sinistra. E la destra specula
intervista di Maria elena Vincenzi
ROMA «In questi giorni abbiamo assistito a un caso esemplare di costruzione del capro espiatorio. Un presunto stupro, attribuito a un rumeno, diventa il pretesto per la caccia al negro, appartenente, come è noto, a tutt’altra etnia. E siccome il negro è lì a disposizione, a pochi passi, scatta un meccanismo di mobilitazione xenofoba, nel quale trovano sbocco tutti i rancori e le frustrazioni dei settori di popolazione soggetti a processi di esclusione sociale». Commenta così Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato e sociologo, i fatti di Tor Sapienza.
Senatore, come si spiega tutto questo?
«Innanzitutto emerge il fallimento dell’edilizia popolare perché il cuore di questa vicenda è un comprensorio dove da decenni non si è fatta manutenzione. E così quei residenti si sono sentiti assediati da una sorta di toponomastica della marginalità. Non dimentichiamo che in un territorio non troppo esteso, cui si accede da un vialone diventato mercato all’aperto delle droghe, si trovano un centro di accoglienza per profughi, un’occupazione spontanea da parte di stranieri e un’altra dovuta alla cosiddetta emergenza abitativa. E, non troppo lontano, un campo nomadi».
Dunque quello che è successo si poteva prevedere?
«Vede, in zone simili, si devono prevedere centri con un numero assai minore di ospiti. Questo comporta un discorso completamente nuovo in materia di accoglienza. In un’area così vasta come Roma, i centri devono essere più piccoli e distribuiti più equamente. Non possono concentrarsi nelle periferie, tantomeno in quelle più degradate. È fondamentale per rassicurare i residenti e perché solo così si garantiscono condizioni dignitose ai profughi».
Perché?
«L’accoglienza deve essere più attenta ai bisogni individuali, non può indirizzarsi indistintamente verso centinaia di persone ammassate in alloggi di fortuna. Bisogna immaginare un’accoglienza fatta di piccoli numeri che non gravi tutta su chi è o si sente già gravato. Si potrebbero accogliere anche più persone, e in condizioni più degne».
Insomma, la capitale ha sbagliato tutto.
«Non si possono ignorare altri due “fattori di agevolazione” dell’odio. Ovvero, la presenza di una minoranza, ancora un volta collegata alla rete del tifo organizzato, che si dà una sgangherata ideologia fascistoide, tutta giocata sul disprezzo per il diverso. E l’attività degli imprenditori politici dell’intolleranza. L’immigrazione, inevitabilmente, costa fatica e determina ansia nei residenti, ma il collasso avviene quando la tensione sociale viene trasferita nella sfera pubblica. La Lega e Fratelli d’Italia giocano questo ruolo. E così le pulsioni più aggressive e il linguaggio più efferato ottengono legittimazione politica e addirittura morale».
Senatore, ma la genesi è popolare.
«Va rivista da capo la politica dell’accoglienza, finora affidata all’improvvisazione, quasi che l’immigrazione fosse un fenomeno recente e imprevedibile. Anche la sinistra ha fatto molti errori. Troppo spesso ha liquidato come razzisti umori popolari che andavano compresi, mediati e governati. E ha rinunciato a battersi contro gli imprenditori dell’intolleranza».
il Fatto 14.11.14
Cosa sono Cie, centri per rifugiati e di primo soccorso
L’ITALIA ha tre tipi di struttura per “accogliere” e assistere gli immigrati che arrivano. Conosciamo fin troppo bene il Cpsa, il Centro di primo soccorso e accoglienza: uno su tutti (e quattro), quello di Lampedusa. Si tratta, infatti, di strutture allestite nei luoghi di maggiore sbarco, dove gli stranieri ricevono le prime cure mediche, vengono fotosegnalati, viene accertata l’eventuale intenzione di richiedere protezione internazionale e vengono smistati verso altri centri. Il Cie, Centro di identificazione ed espulsione, è spesso definito “lager”, per la lunga permanenza al suo interno degli immigrati e per il fatto che non è loro consentito uscire. Esistono infine i Cara, Centri di accoglienza per richiedenti asilo, che in teoria dovrebbero essere occupate per il tempo necessario alla verifica dei requisiti. Le porte dei Cara rimangono aperte.
La Stampa 14.11.14
Obama regolarizzerà 4,5 milioni di clandestini
di Francesco Semprini
Amnistia per 4,5 milioni di immigrati illegali. All’indomani dell’accordo sul clima in Asia, Obama riparte da qui, e tenta il riscatto in casa dopo lo schiaffo elettorale del Midterm. Lo fa puntando proprio sulla riforma dell’immigrazione, il pacchetto di leggi sul quale il Presidente aveva scommesso nel secondo mandato, che fino a oggi era rimasto bloccato a causa dell’ostruzionismo della destra.
Secondo alcune fonti l’annuncio ufficiale arriverà solo al rientro a Washington, e la data potrebbe essere quella del 21 novembre. La riforma, il cui architetto è Esther Olavarria, stretta collaboratrice di origini cubane arrivata negli Stati Uniti quando aveva 5 anni, e già consigliere legale del senatore Ted Kennedy, si fonda su alcuni pilastri: rafforzamento della sicurezza ai confini, aumento delle retribuzioni del personale di frontiera e delle risorse per l’assistenza agli immigrati clandestini, soprattutto se minori. Ma il cuore della riforma Obama è lo stop ai rimpatri forzati per milioni di irregolari. In particolare, la cosiddetta «deferred action» (rinvio o sospensione delle deportazioni) verrebbe estesa a tutti gli immigrati entrati clandestinamente sul suolo americano prima dei 16 anni, e a tutti quei genitori i cui figli sono già cittadini statunitensi e residenti permanenti. Si tratta di almeno 4,5 milioni di persone, ma se la norma fosse estesa a chi è entrato negli Usa prima del 2010 (e non più a chi lo ha fatto entro il giugno del 2007), saranno almeno altri 300 mila i clandestini amnistiati. Gli immigrati «regolarizzati» riceverebbero un permesso di lavoro, la Social Security, e tutti i documenti di identità emessi da governo ed enti locali. Sono previste inoltre iniziative nel settore tecnologico per agevolare l’ingresso nel mondo del lavoro, e un programma che garantirebbe la nazionalizzazione di almeno 500 mila regolarizzati e delle rispettive consorti.
L’audacia di Obama è tuttavia destinata a scontrarsi ancora una volta al Congresso, dove lo speaker della Camera John Boehner, e il nuovo leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell (eletto oggi) avvertono il Presidente a chiare lettere: «Scherza col fuoco».
il Fatto 14.11.14
La tregua di Matteo con i suoi, ma adesso litiga con Alfano
di Wanda Marra
Nella sostanza non cambia niente: saranno i decreti delegati a scrivere le vere norme”. Nei corridoi di Palazzo Chigi la raccontano (anche) così la mediazione sul jobs act raggiunta ieri nella Commissione Lavoro del Pd, che ha provocato la reazione minacciosa di Ncd. “La partita è chiusa, il Parlamento voterà nelle prossime ore e dal primo gennaio avremo chiarezza sulle regole", chiarisce Renzi da Bucarest a chiunque abbia ancora qualcosa da dire, cantando vittoria (“passo importante”). E poi parla di “possibile fiducia” alla Camera sul testo modificato. Fiducia che al Senato, dove la legge delega poi deve tornare, viene data per scontata.
QUELLA che viene venduta come un’importante mediazione, viene raggiunta dopo l’ennesima trattativa tra il responsabile economico Dem, Filippo Taddei e il presidente della Commissione, Cesare Damiano (minoranza Pd). L’accordo prevede di recepire quanto votato dalla direzione del 29 settembre, in un odg che non aveva trovato traccia nel testo uscito (con fiducia) dal Senato: il diritto al reintegro per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare.
Ieri erano tutti pronti a cantare vittoria, dalla minoranza “dialogante” (dallo stesso Damiano, a Speranza) al governo. L’esecutivo aveva minacciato la fiducia sul testo uscito da Palazzo Madama. E va detto che le concessioni alla minoranza, la spaccano definitivamente.
Proprio sull’odg ora oggetto di mediazione, il giorno della direzione c’era stato uno scontro all’ultimo sangue, con barricate di D’Alema e Bersani. E minoranza ridotta in pezzi: l’odg era stato approvato con 130 voti favorevoli, 11 astenuti (tra cui Speranza) e 20 contrari (tra i quali D'Alema, Bersani, Cuperlo, Civati, Fassina, D'Attorre). “Grande soddisfazione per l’esito della riunione con il gruppo del Pd in commissione Lavoro. È un impulso decisivo per giungere il più velocemente possibile all’approvazione definitiva del testo”: ci fanno addirittura una nota congiunta il vicesegretario Lorenzo Guerini, il presidente dell’assemblea nazionale Matteo Orfini e Filippo Taddei.
Minoranza, invece, in evidente e continua difficoltà. Civati propone per il governo l’hashtag #passodopopassoindietro (ma non sa ancora se voterà o no la riforma), D’Attorre plaude al fatto che “Renzi si è dovuto rendere conto che esiste il Parlamento”, Fassina, notando che “il governo è dovuto tornare indietro sulla fiducia sulla delega uscita dal Senato”, dichiara che prima “legge gli emendamenti e poi decide”, Cuperlo pure: “Aspettiamo di vedere il testo che verrà sottoposto al Parlamento”.
Il jobs act era stato annunciato come l’ultima frontiera dei ribelli. Al momento, i protagonisti della battaglia non hanno ancora deciso che fare.
Da chiarire, che un testo preciso ancora non c’è: esistono quindici emendamenti presentati dal Pd, che più o meno ricalcano il testo dell’accordo. Ma ancora non è stato scritto nel dettaglio. E anche una volta che lo sarà, toccherà al governo delimitare i casi in cui il licenziamento disciplinare è previsto. Senza contare, che (come ha deciso ieri la capigruppo alla Camera) prima si vota il jobs act, e poi la legge di stabilità che deve contenere i fondi per gli ammortizzatori sociali su cui si basa il contratto a tutele crescenti. A proposito di deleghe in bianco.
Prima, però, c’è il Senato. Se la minoranza dem abbassa i toni, in compenso li alza Ncd. “Non ci piace, non lo votiamo”, annuncia Sacconi. Poi lui e la De Girolamo vanno a Palazzo Chigi, dove sono ricevuti dal Sottosegretario, Lotti. “Si tratta”, dicono all’uscita. La Boschi ha già detto no a un vertice di maggioranza, ma ovviamente ci tiene a chiarire che il confronto parlamentare è continuo. Tratta lo stesso Renzi con Alfano.
ALLA CAMERA, i numeri per il governo ci sono. Ma in Senato sono a rischio: la maggioranza è fissata a 161 voti, il governo sulla carta ne conta 166. Ncd ha 31 senatori. E c’è la minoranza dem. Il governo pensa di risolverla al solito modo: con la fiducia. Convinti tutti, renziani e non, che alla fine la voteranno tutti.
Repubblica 14.11.14
E la minoranza Dem si spacca. Bersani e D’Alema avvertono: “Riprendiamoci il partito”
di Giovanna Casadio
ROMA «Siamo con tutti e due i piedi nel partito, però la sinistra c’è e si farà sentire per creare un’alternativa a Renzi nel Pd». Pierluigi Bersani fa sentire la sua voce. L’accordo sul jobs act non frena lo scontro interno. Anzi, lo amplifica. Perché l’intesa siglata in extremis da Speranza e Damiano ha avuto un unico effetto: spaccare in tre la minoranza interna. Con i “trattativisti” decisi a rispettare il patto, i civatiani pronti a non votare nemmeno la fiducia e gli altri che oscillano tra il sì alla fiducia e il no agli articolo più acuminati.
Renzi, insomma, sembra incunearsi nelle difficoltà dell’opposizione. Ma la risposta potrebbe già esserci al convengo della prossima settimana a Milano di Area riformista. E qualcuno inizia già a parlare di un “tandem” destinato a riformarsi: quello tra Bersani e D’Alema. Di certo tra gli “antirenziani” serpeggia il dubbio che, alla fine, su Jobs Act e articolo 18 i cambiamenti siano assai meno di quelli sperati. Soprattutto temono di arrivare “disarmati” allo sciopero generale della Cgil del 5 dicembre. Sospetti che solo i “trattativisti” - da Speranza a Orfini e Damiano - non coltivano: «Al premier abbiamo fatto cambiare idea».
Certo le tre minoranze in questa fase cercano tutte di cogliere il massimo dall’emendamento promesso dal governo. «È comunque - dicono - un punto messo a segno, perché il premier- segretario ha dovuto prendere atto che non poteva blindare il Jobs Act uscito dal Senato» e ha quindi aperto alle modifiche. Eppure la tripartizione rischia di evidenziarsi presto con una spaccatura manifesta.
Pippo Civati ad esempio conia l’hashtag “passodopopassoindietro”. E poi avverte: «Non vorrei che fosse uno specchietto per le allodole...». Non lo convincono le deduzioni di Speranza e Damiano: «Le proteste del Nuovo centrodestra sono un buon indicatore che si va ormai nella direzione giusta». Ma Cuperlo e Fassina nicchiano: «Guardiamo al merito: l’articolo 18 non deve essere toccato affatto, al massimo un “tagliando” e il reintegro deve valere anche per i licenziamenti illegittimi in aziende in crisi». E a corroborare la posizione c’è la pistola fumante degli emendamenti elencati da Fassina, su cui domenica si comincia già a votare in commissione Lavoro.
Il governo ha fretta, la sinistra dem non ne ha per nulla. La minoranza si gioca nei prossimi giorni il tutto per tutto. Domani a Milano, dunque, nella riunione della corrente “Area riformista”, Bersani chiamerà alla riscossa la sinistra. Nessuna scissione, ma la scalata al partito sì. Non a caso è stato invitato a Milano anche Nicola Zingaretti, il “governatore” del Lazio indicato sempre dai sondaggi come l’anti Renzi possibile.
E forse non è un caso che mercoledì scorso nella riunione della minoranza proprio Massimo D’Alema abbia chiarito che la “ditta” non si molla: «La battaglia si conduce dentro il Pd ma basta con un partito che vuole parlare solo al potere italiano». Nel frattempo Renzi si è assicurato un “sì”, più o meno convinto almeno sulla fiducia. Il Jobs Act tornerà quindi al Senato. «Renzi si è rimangiato la rottura dentro il Pd», osserva Davide Zoggia. Nessuno ha voglia nelle file dem di esasperare i toni per ora. Damiano, il presidente della commissione lavoro, che ha condotto appunto la trattativa con il ministro Poletti, con Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, con il vice segretario Lorenzo Guerini e con Renzi stesso, è convinto che il risultato sia buono. «Non c’è solo l’articolo 18», continua a ripetere, indicando i cambiamenti sulle questioni del demansionamento, dei voucher, dei controlli a distanza ma non più sulle prestazioni lavorative. In cambio la sinistra dem ha dovuto ingoiare l’accelerazione: il Jobs Act passa davanti alla legge di Stabilità, proprio quello che la minoranza non avrebbe mai voluto. La tregua interna è dunque molto fragile. Civati nel fine settimana parteciperà a un’iniziativa politica con il leader di Sel, Nichi Vendola e con il Tsipras. Ma sarà anche all’appuntamento milanese con Bersani che ha l’ambizione di rinsaldare e unire la sinistra dem. Solo una speranza? Cuperlo e Fassina non ci saranno. «Non vado perché non mi hanno invitato», commenta Cuperlo.
Materialismo storico 12.11.14
Fare il Partito del Lavoro con Civati e Vendola
La carota della soglia al 3% e l'opposizione di Sua Maestà
qui
Repubblica 14.11.14
Rinvio dei termini
L’Unità, proposte per l’acquisto “insoddisfacenti”
ROMA Ancora nessun acquirente per l’Unità.
Nessuna delle tre offerte arrivate ai liquidatori della Nuova Iniziativa Editoriale per rilevare la testata è stata infatti giudicata congrua. Di qui la decisione di prorogare al 30 novembre il termine per eventuali nuove proposte. Il cdr del giornale esprime «grande preoccupazione» per l’allungarsi dei tempi del ritorno in edicola, promesso dai vertici del Pd entro fine anno.
Repubblica 14.11.14L’Anschluss del Cavaliere nel Partito della Nazione
L’ex premier sembra soddisfatto della tutela renziana. Si concede qualche scatto d’ira, ma accetta il suo destino
di Stefano Folli
ORMAI è chiaro che Berlusconi è avviluppato fino in fondo nella rete di Renzi e non se ne lamenta. Il “via libera” sostanziale sulla legge elettorale è la fine di un’epoca cominciata nel 1994. L’argomento auto-consolatorio («così potrò contare al tavolo del Quirinale») nasconde una realtà più amara. Berlusconi è stato annesso non al Pd, ma al renziano partito della Nazione.
È un Anschluss dolce, pienamente consensuale. Il leader di Forza Italia, o di quel che ne resta, rinuncia a essere un soggetto politico, abbandona qualsiasi velleità di concorrenza elettorale. Non ci sarà un volto nuovo, un giovane che prende il posto dell’anziano al vertice di Forza Italia: quanto meno non ci sarà il tentativo di vincere le elezioni con una proposta innovativa. Accettando lo schema elettorale proposto dal premier, Berlusconi riconosce il partito di Renzi come baricentro del sistema e si prepara a costituire una sorta di corrente esterna. O meglio un gruppo di pressione che cura gli interessi personali e aziendali della famiglia e di un ristretto ceto politico composto da fedelissimi.
Le ragioni della scelta, peraltro ormai obbligata, sono molteplici e hanno a che vedere con la stanchezza, l’età, gli strascichi delle lunghe ed estenuanti battaglie giudiziarie. Berlusconi sembra quasi soddisfatto di essere tutelato da Renzi. Certo, ogni tanto si concede qualche scatto d’ira, ma nel complesso ha accettato il suo destino. Così il “partito della Nazione” che tanto poco piace ad Arturo Parisi per il suo carattere fagocitante e asimmetrico («ce ne vorrebbero due»), si afferma e mette radici in forme che fino a ieri sarebbero state impensabili. In passato ci aveva provato Casini, ma non era andato oltre una riverniciatura dell’Udc. A sua volta anche Alfano aveva tentato di svuotare il fronte berlusconiano, ma ora è appeso al 3 per cento. Renzi sta riuscendo dove gli altri hanno fallito e la sua apertura al centrodestra ha già trasformato alla radice la fisionomia del “patto del Nazareno”.
In teoria Berlusconi può subire qualche ribellione interna; ma se Fitto si mette a costruire l’ipotetico partito di domani, distraendosi dalle polemiche quotidiane, anche questo pericolo può essere limitato. Quanto all’eventualità di condividere la scelta del prossimo presidente della Repubblica, allo stato si tratta di una cortesia tattica di Renzi più che di una vera opportunità politica. Vero è che il presidente del Consiglio non ha alcun interesse a negoziare con Grillo, di cui teme semmai le incursioni corsare. Ma il Berlusconi di oggi non sembra in grado di suggerire un candidato in modo credibile. Al massimo può ratificare il nome (o la rosa di nomi) che prima o poi gli sarà proposto da Palazzo Chigi. Del resto, quello che conta è il profilo politico del nuovo presidente. Berlusconi desidera davvero un nuovo Napolitano al Quirinale, ossia un garante in grado di condizionare — all’occorrenza — le scelte dell’esecutivo? C’è da credere che anche su questo punto egli sia in sintonia con Renzi, il quale non fa mistero della volontà di cercare un capo dello Stato alla tedesca, per definizione mai contrapposto al “Cancelliere” specie sul punto decisivo: il potere di sciogliere le Camere.
Ciò non significa che il Parlamento in seduta comune troverà presto il bandolo della matassa. Tutto lascia supporre invece che l’elezione del presidente sarà sofferta e suscettibile di colpi di scena, come spesso in passato. La debolezza dei partiti accentua l’incertezza, non la risolve. A maggior ragione, è improbabile che Berlusconi voglia o sappia svolgere un ruolo in prima persona.
Dopo aver subito l’annessione di fatto, dovrà riconoscere la leadership renziana sulle questioni istituzionali. Lasciando ai Cinque Stelle e magari a Salvini, l’uomo nuovo e spregiudicato della destra, lo spazio per quelle scorribande che un tempo erano tipiche dell’esercito di Arcore.
Repubblica 14.11.14
Il patto indigesto
di Alessandra Longo
E’ PARECCHIO impopolare il Patto del Nazareno tra le truppe dell’ex lider maximo di Forza Italia, anche nella versione aggiornata. La rabbia si sfoga online sul sito degli adepti di partito. «Berlusconi sei un fallito — denuncia “Ignoto” — stai sotto Renzi. Altro che patto del Nazareno. Invece di ricostruire Forza Italia stai bivaccando sulle spalle del “dittatore”». L’asticella della soglia di sbarramento la si vorrebbe altissima: «Chi non arriva almeno al 5 per cento non può rappresentare nessuno. Silvio, la vuoi capire che Alfano e altri inutili partitini non devono più entrare in Parlamento?». E poi il premio di maggioranza. Anche lì dolori: «Deve essere alla coalizione non alla lista! Silvio, non mollare». C’è rassegnazione sul futuro prossimo venturo: «Nelle attuali condizioni il Partito democratico vincerà comunque. Molti tra Berlusconi e tasse da pagare preferiscono le tasse».
Repubblica 14.11.14
Roberto Speranza
“Queste modifiche sono una sterzata a sinistra e danno dignità alle Camere”
di Tommaso Ciriaco
ROMA «Come negarlo? Sono molto, molto soddisfatto. Queste modifiche imprimono una sterzata verso sinistra e riaffermano la dignità delle Camere». Roberto Speranza molto si è speso per permettere di siglare una tregua interna nel Pd. Il capogruppo la rivendicherà già domani a Milano, riunendo con Pierluigi Bersani “Area riformista”. Non lo ammetterà mai, ma portando a casa il risultato ha anche spiazzato una fetta della sinistra del Pd. «Oggi — rivendica — si è ribadito che il Parlamento non è un passacarte e che l’attività parlamentare va rispettata».
Ma l’accordo nel Pd è chiuso?
«L’intesa di oggi consente il lavoro in commissione e valorizza sensibilità politiche differenti. Così si migliora la delega».
E si evita di porre la fiducia sul testo del Senato. Sarebbe stata una forzatura?
«Quel rischio è sparito, non c’è più».
Magari sarà messa la fiducia sul testo che uscirà dalla commissione della Camera.
«Beh, così è mille volte diverso. Mettere la fiducia sul testo del Senato avrebbe significato bypassare il lavoro parlamentare di Montecitorio. Così invece si valorizza il lavoro della commissione».
Renzi aveva ipotizzato la fiducia sul testo del Senato. Una sconfitta del premier, allora?
«Non lo è. Renzi ha compreso che occorre valorizzare il lavoro e le potenzialità delle Camere. Aveva posto il tema dei tempi, noi glieli garantiamo migliorando il testo. Insomma, non si deve porre la questione in termini di vincitori e sconfitti».
Il nodo politico è, ancora una volta, l’articolo 18. Sarà recepito l’orientamento della direzione del Pd?
«Sì. Il principale punto politico emerso nel dibattito pubblico è quello dell’articolo 18. Si è deciso di riassumere l’ordine del giorno della direzione del partito: così si salva il reintegro per i licenziamenti discriminatori e disciplinari, specificando le diverse fattispecie. Non è un fatto politicamente banale».
Pensa che l’intesa soddisferà tutte le minoranze del Pd?
«Tra i membri della commissione Lavoro la posizione è stata sostanzialmente unitaria, grazie anche allo straordinario impegno del Presidente Damiano».
Già il voto in direzione non fu unanime.
«Il punto non è questo, perché nel Pd il dibattito è sempre complicato visto che il partito è un soggetto plurale. Il tentativo, comunque, è di trovare una sintesi».
Pensa che la Cgil sarà soddisfatta? Il 5 dicembre c’è lo sciopero generale.
«Quando un movimento o persone manifestano, c’è sempre il problema di costruire un ponte tra quelle istanze, l’azione di governo e del Parlamento. Con le modifiche al Jobs act tentiamo di assumere una parte delle inquietudini di quel mondo. Così cerchiamo di superare il muro contro muro. Poi, certo, i partiti fanno i partiti e i sindacati fanno i sindacati».
Il Nuovo centrodestra però minaccia di rompere.
«Non è il tempo di veti, né di aut aut. Si sta insieme dialogando e ragionando. E poi si è aperta una discussione parlamentare, Ncd è presente in commissione Lavoro e potrà far valere la propria voce».
E se invece decidesse di far cadere il governo?
«Sarebbe folle. Non si assumeranno mai questa responsabilità. Faranno prevalere l’interesse del Paese».
il Fatto 14.11.14
Speranza, il non-giovane di lungo corso e di facile conversione
di Carlo Tecce
Ci sono prove evidenti, inconfutabili, per certificare che pure Roberto Speranza, classe ‘79 da Potenza, capogruppo democratico a Montecitorio, non è nato bolso, grigio, vecchio. Ma sono prove che non si possono svelare con immediatezza e poi non sono così evidenti e inconfutabili a pensarci, allora va bene rievocare il maestro Pier Luigi Bersani che lo richiamò a Roma (dove ha studiato) per organizzare le campagne elettorali (primarie e politiche) e rassicurò la ditta: “Questo è un giovane di lungo corso”. Talmente lungo che non sembra giovane. Ma Speranza, figlio di un funzionario pubblico socialista, è uno scafato tattico di quella politica fatta di passettini, impercettibili movimenti, compìti ammiccamenti. Ora sta lì a Montecitorio a vidimare le leggi, a far girare una macchina burocratica che spesso s’ingolfa, a rappresentare una minoranza o una corrente di sinistra che fa tantissime riunioni e pochissimi strappi e, guardingo, accarezza il renzismo, si trasforma in un diversamente renziano. Perché dei renziani, Speranza, non ha nulla o ha di più. Dipende. Fu il primo, dei reduci bersaniani a redarguire il morente Enrico Letta a fine gennaio, quand’era lampante che il sindaco fiorentino stesse calando su Palazzo Chigi: “Tocca a Letta apportare le dovute modifiche per adeguare la sua squadra di governo a questa nuova fase”. Non poteva essere esplicito, e dunque se ne guardò, ma voleva far intuire che la “nuova fase” prevedeva l’uscita di Letta, le dimissioni, perché Letta non poteva servire il rimpasto col partito in subbuglio. Il fascino di Renzi l’ha subìto con anticipo, bruciato il mentore Bersani, rispondeva con entusiasmo all’ipotesi Matteo presidente del Consiglio: “Incontra il nostro favore”. Il “nostro” di chi? Perché la squadra di Montecitorio non l’ha mai dominata: fu eletto per una finta acclamazione che si tradusse in 200 sì e 84 no incluse le schede bianche. I renziani non l’hanno mai temuto, anzi fu il lucano Speranza, ex consigliere, assessore al comune di Potenza e poi segretario dem in Basilicata, a incontrare un emissario di Matteo – primarie di due anni fa – nei pressi di piazza di Pietra per tacitare le polemiche su regole e clausole, proprio mentre lievitava lo scontro tra Bersani e Renzi. E la ricompensa, perché la politica a volte contempla la memoria, a Speranza è pervenuta con l’esecutivo renziano: nonostante le ambizioni di Matteo Richetti, viene confermato a Montecitorio senza tutori intorno, se non altro per agevolarne l’opera. A proposito di memoria, Speranza non è uomo da tributi pubblici, però elogiò con fierezza lucana lo “statista” Emilio Colombo, che da senatore a vita presiedeva l’aula di Palazzo Madama. E come la migliore sinistra dispersa in se stessa, un giorno disse ch’era sbagliato essere “giustizialisti” contro Silvio Berlusconi, un oppositore vissuto come un “complesso”. Potrà mai Roberto Speranza, che fu giovane senz’altro perché, ecco, fu il presidente dei giovani di sinistra, inveire contro il patto del Nazareno? Non è così avventato. Conosce i tempi del silenzio. Quando fu spedito al Quirinale per le consultazioni con Enrico Letta e Luigi Zanda, avvolto in un vestito di una taglia in più, non pronunciò una parola. Non credeva che la fulminea carriera, fra i conterranei e fratelli Gianni e Marcello Pittella e la geniale intuizione di Bersani, fosse così generosa. A volte le canta a Renzi, è quasi un esercizio di auto-motivazione (come quando litigò con Alessandro Di Battista): “A Montecitorio non siamo dei passacarte”. Non vi spaventate, voleva soltanto dire che la riforma del lavoro può sostenere piccole modifiche. Come? “Costruendo ponti tra le istanze”. Che grinta, Speranza.
Repubblica 14.11.14
“Col nuovo Italicum più di metà nominati” cresce il fronte del no ai capilista pigliatutto
In alcune simulazioni 6 deputati su 10 scelti dai partiti
Il renziano Ceccanti: saranno meno I bersaniani chiedono un taglio dei “garantiti”
di Silvio Buzzanca
ROMA Quanti saranno i “nominati”, i fortunati baciati dall’Italicum che non dovranno cercare un voto di preferenza per approdare a Montecitorio? Nel Palazzo è tutto un fiorire di cifre, calcoli, previsioni. «Vorrei capire perché il numero dei nominati è così alto: 100 per lista, cioè 500 in tutto, su 630», azzarda Francesco Boccia (Pd). Più o meno l’80 per cento. Danilo Toninelli, il grillino che si è ritagliato nel movimento il ruolo di esperto di cose complicate, la pensa più o meno alla stessa maniera. Fa i calcoli e conclude che a parte i 240 eletti con il proporzionale di chi vince, tutti gli altri saranno nominati. Un ragionamento fondato però sul presupposto che si vada al voto con il premio di maggioranza assegnato ad una coalizione e non ad una lista.
La calcolatrice l’hanno tirata fuori anche due senatori del Pd di area bersaniana: Federico Fornaro e Carlo Pegorer. E sono giunti alla conclusione perfino con i decimali: saranno nominati il 60,8 per cento dei nuovi deputati, cioè 375, e scelti con le preferenze il 39,2 per cento, cioè 242. «Con l’Italicum-2 e il Nuovo Senato di nominati - è la loro contestazione - non c’è un altro esempio di democrazia occidentale in cui il diritto di scelta dei cittadini sia così sottratto». La richiesta è quindi di ridurre il numero dei nominati. Un fronte al quale si unisce anche Stefano Fassina.
«Penso che la percentuale possa essere inferiore al 50 per cento» dice invece Stefano Ceccanti, professore universitario, renziano, che nella scorsa legislatura di legge elettorale si è molto occupato come senatore del Pd. «Le stime — spiega Ceccanti — possono essere fatte solo sul primo partito. Chi vince prende 340 seggi, 100 nominati e 240 con le preferenze. Quelli degli altri dipendono dai risultati che non conosciamo. Possiamo ipotizzare due partiti che prendono 100 seggi a testa. Nominati. E siamo a 300. Gli altri, i piccoli, se superano lo sbarramento, avranno una quota infima di eletti nominati e così arriviamo più o meno al 50 per cento dei seggi».
Molti cercano di prevedere. Ma ci sono troppe varianti, dice il professore Roberto D’Alimonte, non sappiamo nulla dei collegi, della loro estensione. «Per questo — dice l’esperto di sistemi elettorali — non posso fare cifre esatte. Bisogna aspettare per capire di più. Ci si può chiedere: quanti seggi prenderebbe il primo partito, diciamo il Pd? Sicuramente 340, di cui 100 bloccati. E il secondo, diciamo i grillini? Un altro centinaio bloccati? Forza Italia? Poco meno di centinaio? La Lega in quanti collegi potrebbe avere due eletti, uno bloccato e uno con le preferenze? Uno può farsi queste domande e darsi delle risposte».
In effetti, nel testo approvato alla Camera i collegi erano 120. Poi erano scesi a 75, ma nell’ultima versione dell’Italicum sono risaliti a 100. Quello che è certo che il testo in discussione al Senato prevede una delega al governo che nei 45 giorni successivi all’approvazione della legge deve ridisegnare la mappa elettorale del paese. Ceccanti non vede molto problemi in questa operazione e suggerisce di adottare come base i confini provinciali. Anche perché sono collegi proporzionali plurinominali e non c’è il vincolo di rispettare un numero minimo e massimo di elettori come nei collegi uninominali. E non c’è il rischio di favorire qualcuno spostando da una parte all’altra elettori.
Repubblica 14.11.14
L’istituto della moglie di Renzi boccia la riforma
No ai voti, sì al wi fi e via le classi-pollaio i desideri del web per la “buona scuola”
Si chiude domani la consultazione in rete del Miur
di Laura Montanari e Mario Neri
IN RETE spopola, oltre un milione di contatti, tremila proposte, più di otto milioni di pagine viste, una valanga di idee, quasi un libro dei sogni. Ma quando poi, dal virtuale si passa al reale, capitano brusche sorprese per la «Buona scuola» del governo Renzi. Una su tutte. Qualche giorno fa la riforma che è ancora un cantiere di lavori in corso, è stata bocciata all’istituto Balducci di Pontessieve, proprio la terra del premier e oltretutto la scuola in cui insegna, con un part time, Agnese Landini, la moglie di Matteo Renzi. Nessun timore reverenziale all’istituto superiore in provincia di Firenze, il collegio docenti (va detto che Agnese non ha partecipato alla riunione) ha approvato con 34 voti a favore e 29 contrari un documento che suona come una bocciatura per la “Buona scuola”. In otto punti i motivi del no, fra questi: troppo pochi gli investimenti («tranne che per la stabilizzazione dei precari, peraltro già prevista dalla normativa europea»), no agli incarichi aggiuntivi per gli insegnanti, no alla valutazione interpretata come una «gara» fra le cattedre. E no anche ai privati nella scuola pubblica. Conclusione messa nero su bianco: «Il piano ci sembra redatto con la tecnica del prendere o lasciare e sottende una visione aziendalista della scuola, lontana dai dettami costituzionali». Ma se questo schiaffo sia l’indizio di un malessere profondo o soltanto una delle voci dissonanti dal coro è presto per dirlo.
Di certo il progetto di riforma del governo un obiettivo l’ha centrato: quello di far discutere tutte le componenti, dagli insegnanti agli studenti al personale Ata guardando alla scuola del futuro. Basta viaggiare un po’ nelle pagine del portale labuonascuola. gov. it per rendersene conto. In più di centomila hanno risposto alle trenta domande del questionario che sarà un po’ il termometro degli umori che si agitano nel mondo dell’istruzione. La consultazione in rete si chiuderà domani, poi il Miur metterà al lavoro un gruppo di esperti per esaminare i risultati emersi in questi due mesi nella piazza della riforma social 2.0. Da quel che si può leggere al momento — è accessibile tutta l’area delle sedici stanze tematiche selezionate dal Miur — le idee che si affacciano sono le più disparate. Fra i più popolari la questione dei voti: «Il voto è diventato una somma algebrica insensibile. La scuola oltre la cultura deve formare la persona». Segue il dibattito, Andrea per esempio sostiene: che bisogna cambiarli, «meno insufficienze», «5 voti negativi non sono utili nella didattica».
Raccoglie molti favori, oltre mille interventi e duemila “like” alla maniera di Facebook, la proposta di Samuele che chiede un pedagogista e un educatore per ogni scuola «di supporto ai docenti, di consulenza pedagogica alle famiglie e di sostegno agli studenti». A seguire la tesi di Alanto (è un nickname): «Per rendere più efficiente il nostro sistema scolastico servono due semplici requisiti: 1) diminuzione del numero di studenti per classe; 2) aumento dello stipendio dei docenti». E spiega: «Se si vuole veramente investire sull’istruzione è necessario restituire valore alla funzione docente». Come? «Con un insegnante che si occupi soprattutto della propria professionalità» per migliorare la didattica. I pareri poi si dividono su valutazione e premi. Scrive, per esempio, Matteo: «Voler dare gli scatti stipendiali a una percentuale fissa (66 per cento ogni anno) dei docenti di ogni scuola è una proposta infame e in odore di incostituzionalità. Come se si potesse stabilire a priori che il 34 per cento dei docenti non abbia svolto il suo lavoro». Uno chiama la mobilitazione «come i metalmeccanici che bloccano le autostrade».
La scuola è una macchina articolata e i temi sul tappeto sono tanti: per esempio più formazione, più “digital”, wi-fi per tutti, connessioni, programmi open source o certificati dal Miur. C’è poi chi chiede più ore per le lingue straniere, per la geografia e la storia dell’arte. Il caro libri non sfugge alle sferzate del web «usiamo i libri dell’anno prima» ipotizza uno. Oreste e altri si schierano per abolire l’Invalsi e “la test mania”. Molti like contro le classi pollaio, dall’infanzia alle superiori, «per aumentare la qualità dell’apprendimento». C’è chi invoca la libertà di iscrivere gratis i figli alla pubblica o alla paritaria, chi si schiera per abolire l’ora di religione e chi la vorrebbe curriculare. Come si potrà conciliare tutto questo?
il Fatto 14.11.14
Agende Rosse e Libertà e Giustizia per il pm Di Matteo
Tutti in piazza per solidarietà. È l’invito lanciato dal Movimento delle Agende Rosse e dall'associazione Libertà e Giustizia presieduta da Gustavo Zagrebelsky, a sostegno del lavoro del pubblico ministero Nino Di Matteo e dei magistrati di Palermo, impegnati nel processo sulla Trattativa Stato-mafia. Il corteo principale sarà a Palermo e attraverserà domani le vie del capoluogo siciliano fino al Palazzo di Giustizia. Ma Palermo e i palermitani non saranno lasciati soli: altri cortei e flash mob sono previsti anche a Milano, Roma, Udine e Bologna. Nei giorni scorsi, una fonte anonima aveva rivelato che per il pm Di Matteo ci sarebbe pronto già il tritolo per un attentato. Le associazioni invitano tutti a partecipare “mettendo da parte le bandiere”.
La Stampa 14.11.14
“Un bluff la declassificazione Renzidegli atti segreti sulle stragi”
La direttrice dell’Archivio Flamigni: in 7 mesi pubblicati documenti marginali
Rischia di trasformarsi in un clamoroso bluff, la grande operazione del governo di declassificare gli atti segreti sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia dal 1969 al 1984. Già, perché la montagna finora ha partorito un topolino. In sette mesi sono stati resi pubblici soltanto alcuni documenti del ministero degli Esteri, relativamente ai procedimenti di estradizione di alcuni terroristi o presunti tali. Altri, documenti, quelli della Difesa, sarebbero in marcia per l’Archivio centrale dello Stato. E dov’è tutto il resto? «Ce lo domandiamo anche noi», risponde Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni, una delle animatrici della «Rete degli archivi per non dimenticare».
Perché tanto pessimismo, Moroni?
«Parlano i fatti. In sette mesi, una misteriosa commissione di cui non si riesce a sapere nemmeno chi la compone ha liberalizzato pochi documenti della Farnesina. Nel frattempo, il sottosegretario Marco Minniti ha annunciato che sono sul punto di essere declassificati 70 metri lineari di documenti dei servizi segreti».
E non va bene?
«Nossignore. Fa ridere che sui venti anni più insanguinati d’Italia i servizi segreti abbiano appena 70 metri lineari di faldoni da rendere disponibili. Tanto per dare una unità di misura, la corte di appello di Roma è pronta a versare 1 chilometro lineare. Sono i processi degli anni Settanta celebrati a Roma. Ecco, per capirci, questi dovrebbero essere i numeri in gioco».
La direttiva di aprile di Matteo Renzi parlava di una «cospicua mole di documenti». Era implicito che sarebbe stato un lavoro lungo. O no?
«Sì, dovrebbe essere così. Ma se poi i servizi segreti scremano essi stessi quali debbono essere i documenti da rendere pubblici, allora è legittima la domanda che l’onorevole Paolo Bolognesi ha posto a Renzi con lettera: “Chi deve declassificare e depositare è lo stesso che fino ad oggi ha classificato, con sue valutazioni, e coperto i documenti”. Quali garanzie possiamo avere che il materiale depositato sia la totalità del materiale?».
La sua domanda, insomma, è: chi controlla i controllori?
«Esatto. Non vorremmo che alla fine i segreti rimangano segreti e l’operazione si trasformi in un clamoroso bluff. Ben altro investimento ci aspetteremmo sulla memoria».
Ovvero?
«Se si continua a considerare gli archivi come luoghi polverosi e inutili, non se ne esce. E invece la nostra memoria è tutta lì. Ma ci sgoliamo invano. Basti pensare che le amministrazioni non inviano più i documenti agli Archivi di Stato, né quelli provinciali, né quello centrale, perché questi ultimi non hanno spazio per accoglierli. È una follia: ci sono caserme dismesse e intanto gli archivi pagano cifre esorbitanti per affittare locali di deposito, comunque piccoli e arrangiati. Potremmo fare grandi cose, digitalizzando e riorganizzando. Ma il governo ci deve credere. Sapete, finiremmo persino per risparmiare...».
Repubblica 14.11.14
La Curia scheda le classi pro gay. È bufera
Lettera segreta a seimila docenti di religione della Lombardia: “Diteci in quali istituti si parla di omosessualità” Scoppia la polemica: “Intrusione inammissibile”. E alla fine la diocesi si scusa: “Formulazione inappropriata”
di Zita Dazzi
MILANO Insegnanti di religione invitati a trasformarsi in “spie” e a segnalare alla Curia in quali scuole della Diocesi ambrosiana ci siano docenti o progetti che parlano agli studenti dei temi legati all’omosessualità. L’invito a collaborare a questa schedatura di massa nelle scuole pubbliche è partito dalla Curia di Milano. Doveva restare un’indagine segreta, svolta senza dare nell’occhio dai 6102 docenti cattolici destinatari di una lettera pubblicata on line su un portale riservato. Ma quando il documento arriva a “Repubblica” scoppia un caso nazionale. Le scuse giunte ieri sera dalla Curia milanese, che ha ammesso di aver usato «parole inappropriate», non hanno messo a tacere le polemiche.
«Cari colleghi — si leggeva nella missiva che ha dato il via alla bufera — in tempi recenti gli alunni delle scuole italiane sono stati destinatari di una vasta campagna tesa a delegittimare la differenza sessuale affermando un’idea di libertà che abilita a scegliere il proprio genere e il proprio orientamento sessuale». Di fronte a questa situazione, l’ufficio di Curia che si occupa dell’insegnamento della religione nelle scuole milanesi e lombarde chiede ai suoi “dipendenti” notizie precise: «Per valutare l’effettiva diffusione dell’ideologia del “gender”, vorremmo avere una percezione del numero delle scuole in cui sono state attuate iniziative e di quelle in cui sono state solo proposte. Chiederemmo a tutti i docenti di riportare il nome delle scuole nella tabella». L’«indagine informale» viene confermata da don GianBattista Rota, responsabile dell’ufficio di Curia, che prova in un primo momento a giustificarla con «la preoccupazione che gli eventuali discorsi su temi così delicati e all’ordine del giorno del dibattito pubblico, vengano sempre affrontati dagli insegnanti di religione con competenza e rispetto delle posizioni di tutti».
Ieri mattina il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha preso le distanze: «Mi parrebbe una cosa estremamente improbabile e strana che ci possa essere una sorta di censimento». Nessuna dichiarazione dall’arcivescovo Angelo Scola, ma una nota della Curia che esce in serata rivela tutto l’imbarazzo dello staff del cardinale: «La comunicazione è formulata in modo inappropriato e di questo chiediamo scusa. L’intento originario era esclusivamente quello di conoscere dagli insegnanti di religione il loro bisogno di adeguata formazione per presentare, dentro la società plurale, la visione cristiana della sessualità in modo corretto e rispettoso di tutti». Scuse che non mettono la sordina alle proteste. Il sottosegretario alle Riforme del governo Renzi, primo firmatario della legge contro le discriminazioni omofobiche, Ivan Scalfarotto, definisce «inopportuna» l’iniziativa aggiungendo «la preoccupazione per un’impostazione della Chiesa istituzionale che vive come una aggressione ai propri valori una normale evoluzione dei costumi e della comunità».
Un’inchiesta del «ministro dell’Istruzione» viene chiesta da Valeria Fedeli, vicepresidente di Palazzo Madama e da altri undici senatori Pd. A favore della maxi schedatura si schierano invece Carlo Giovanardi ed Eugenia Roccella (Ncd) secondo cui «da mesi la scuola italiana è terreno di conquista da parte delle associazioni Lgbt» che avrebbero dato il via a «un clima di caccia alle streghe, di intimidire chiunque non voglia piegarsi a questa dittatura culturale». Alessandro Zan, deputato pd, replica denunciando la «caccia alle scuole che portano avanti il contrasto al bullismo omofobico e transfobico».
Repubblica 14.11.14
Freud e i sogni del Medio Oriente
di Thomas L. Friedman
ABU DHABI, EMIRATI ARABI UNITI QUANDO si cerca di comprendere il Medio Oriente, una delle regole più importanti di cui tener conto è la seguente: di solito ciò che i politici qui ti dicono in privato è trascurabile. Ciò che più conta, e che il più delle volte ne spiega il comportamento, è quello che dicono in pubblico, con parole loro, rivolgendosi ai loro uomini. Mentre il presidente Barack Obama spedisce altri consulenti statunitensi in aiuto agli iracheni affinché sconfiggano lo Stato Islamico, per noi è di importanza cruciale ascoltare con attenzione quello che i protagonisti della scena internazionale stanno dicendo in pubblico con parole loro l’uno dell’altro e comprendere quali siano le loro aspirazioni.
Per esempio, il Middle East Media Research Institute (o Memri) di recente ha pubblicato l’estratto di un’intervista rilasciata da Mohammad Sadeq al-Hosseini, ex consigliere del presidente iraniano Mohammad Khatami, andata in onda su Mayadeen TV il 24 settembre, nella quale sottolinea che l’Iran sciita, tramite i suoi surrogati, de facto ha assunto il controllo di quattro capitali arabe: Beirut, per mezzo delle milizie sciite Hezbollah; Damasco, per mezzo del regime sciita-alauita di Bashar Assad; Bagdad, per mezzo del governo a guida sciita; e — mentre pochi in Occidente vi prestavano attenzione — Sana’a, dove la setta Houthi di derivazione sciita- yemenita-filoiraniana di recente ha fatto irruzione nella capitale dello Yemen assumendo il totale controllo dei sunniti.
Come ha detto Hosseini a proposito dell’Iran e dei suoi alleati «noi nell’asse della resistenza siamo i nuovi sultani del Mediterraneo e del Golfo Persico. A Teheran, a Damasco, nella periferia meridionale di Beirut controllata da Hezbollah, a Bagdad e a Sana’a daremo forma alla nuova carta geografica della regione. Noi siamo anche i sultani del Mar Rosso». Ha aggiunto, oltre a ciò, che l’Arabia Saudita era “una tribù sull’orlo dell’estinzione”.
Forse noi non prestiamo attenzione a queste cose, ma gli arabi sunniti sì, specialmente ora che Stati Uniti e Iran potrebbero mettere fine alla Guerra fredda, che dura tra loro da 35 anni, e raggiungere un accordo che permetta all’Iran di realizzare un programma energetico nucleare “a scopi di pace”. Oltretutto, queste notizie contribuiscono a spiegare qualche altra cosa che forse vi siete persi: il 3 novembre alcuni militanti sunniti hanno fatto irruzione in un paesino di sciiti sauditi, al-Dalwah, e hanno freddato a colpi d’arma da fuoco cinque sciiti sauditi che stavano partecipando a una cerimonia religiosa.
Beh, se non altro il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan vive al passo con i tempi. No, un momento: su quale nome pensate che stia insistendo Erdogan per il nuovo ponte in via di realizzazione sul Bosforo? Risposta: Ponte Yavuz Sultan Selim. Selim I fu il sultano sunnita turco che nel 1514 riuscì una buona volta a sconfiggere l’impero persiano sciita dei suoi tempi, quello dei safavidi. La minoranza alevita turca, una setta collaterale sciita i cui antenati dovettero far fronte alla collera di Selim, hanno protestato contro il nome proposto per il ponte. Sanno che quel nome non è stato consigliato a caso. Secondo l’Enciclopedia Britannica, Selim I fu il sultano ottomano (1512-20) che estese l’impero fino alla Siria, all’Arabia Saudita e all’Egitto, e “elevò gli ottomani alla leadership del mondo musulmano”. In seguito si rivolse a oriente e se la prese con la dinastia sciita safavida in Iran, che costituiva una “minaccia politica e ideologica” all’egemonia dell’Islam sunnita ottomano. Selim fu il primo leader turco a sostenere di essere sia sultano dell’Impero ottomano sia califfo di tutti i musulma- ni. Il vicepresidente americano Joe Biden non si è espresso male quando ha accusato la Turchia di agevolare l’ingresso dei combattenti dello Stato Islamico in Siria. Proprio come in ogni israeliano c’è un pizzico di “colono ebreo” che vuole stabilirsi in Cisgiordania, così in quasi ogni sunnita c’è un pizzico del sogno del califfato. Alcuni analisti turchi sospettano che Erdogan non sogni di dar vita a una democrazia pluralista in Iraq e in Siria, bensì di creare un califfato sunnita moderno, non comandato dallo Stato Islamico, ma da lui stesso. Fino a quel momento, naturalmente, preferisce avere ai suoi confini uno Stato Islamico che un Kurdistan indipendente.
Così ha scritto Shadi Hamid — fellow del Brookings Center for Middle East Policy — in un articolo pubblicato su The Atlantic e intitolato “The Roots of the Islamic State’s Appeal” (All’origine del fascino dello Stato Islamico): “L’Isis attinge, e prende forza, da idee che fanno presa e hanno vasta risonanza tra le popolazioni a maggioranza musulmana: esse possono anche non essere d’accordo con l’interpretazione di califfato dell’Isis, ma per loro il concetto di califfato — entità storico- politica governata dalla legge e dalla tradizione islamica — è molto potente”.
Lo studioso esperto di Medio Oriente Joseph Braude in effetti osserva che la maggior parte dei sunniti arabi in Egitto, nel Levante e nella penisola arabica alla fine del XIX secolo «erano abbastanza contrari al califfato guidato dalla Turchia che avevano conosciuto, e che consideravano una sorta di forza di occupazione». Furono i gruppi islamisti sunniti del XX secolo, e in particolare la Fratellanza islamica, a riportarne il concetto in vita, idealizzando il califfato come una risposta alla debolezza e al declino della loro regione e a «inserirlo nel dibattito religioso mainstream».
In sintesi, tra i nostri alleati mediorientali nella guerra allo Stato Islamico ci sono così tanti sogni e incubi in conflitto tra loro e in evoluzione che Freud stesso non sarebbe in grado di interpretarli esattamente. Se vi si presta attenzione, tra quei sogni il nostro — quello della “democrazia pluralista” — non è ai primi posti dell’elenco.
Dobbiamo difendere le oasi di dignità civile che per altro esistono — Giordania, Kurdistan, Libano, Abu Dhabi, Dubai, Oman — dallo Stato Islamico, nella speranza che il loro esempio positivo riesca un giorno a espandersi. Sono scettico, però, sull’effettiva possibilità che i nostri litigiosi alleati, con tutti i loro sogni diversi, riescano ad accordarsi in modo nuovo su come condividere il potere in Iraq o in Siria, anche nel caso in cui lo Stato Islamico fosse sconfitto.
© 2-014, New York Times News Service Traduzione di Anna Bissanti
Repubblica 14.11.14
India
Vietato baciarsi in pubblico qui l’amore è fuorilegge
Le effusioni sono ritenute “atti osceni” e dunque reati Ma i giovani hanno iniziato a protestare
di Joseph Manu
NEW DELHI ESSERE innamorati e darlo a vedere, in India, è come andarsene a zonzo bevendo un frullato in tempo di siccità. È offensivo per gli assetati.
Oggi come oggi per far infuriare ogni sorta di persone, soprattutto i facinorosi politici sotto occupati, i giovani di questo paese non hanno bisogno di lasciarsi andare a manifestazioni di affetto nella pubblica piazza. In tutta l’India è caccia agli innamorati nelle case, nei villaggi turistici, nei locali e nei caffè. Li si accusa di concedersi il piacere della gioventù.
Lo schema è ormai ben chiaro: a un gruppo di frustrati giunge notizia che ragazzi e ragazze si appartano in uno spazio ricreativo che tali frustrati di solito non frequentano. Allora partono, con al seguito telecamere e fotografi delle testate giornalistiche, ben lieti di essere complici in ciò che avviene in seguito. I facinorosi spaccano oggetti e aggrediscono le coppie. In passato nel giorno di San Valentino hanno costretto le coppie sorprese nei parchi a fare flessioni per punizione. Altre coppie sono state sposate a forza in strada.
Tutto questo servirebbe a salvaguardare la cultura indiana per come è concepita in larga misura nel paese. Spesso l’idea è che solo gli indiani posseggono la cultura, mentre il resto del mondo è una gigantesca orgia.
Qualche giorno fa, nello stato meridionale del Kerala, un gruppo di uomini ha assaltato un noto caffè dove, a loro detta, i ragazzi andavano a baciarsi e “abbracciarsi”, così si è espresso uno dei guardiani della cultura. I giovani presenti sono stati accusati di atti osceni. L’oscenità è reato in India, anche se non si sa bene cosa sia osceno. Non c’è ambiguità però su cosa si configuri come atto di vandalismo.
Tre anni fa quando la classe media del paese fu coinvolta in un movimento di massa contro la corruzione in politica, il Kerala rimase relativamente apatico. La ragione è che la popolazione, inclusi i giovani, vanta un impegno politico di lunga data e le piazze in rivolta non sono una novità.
Ma l’assalto al caffè ha risvegliato i giovani della regione facendo esplodere una allegra protesta in strada, con tanto di baci in pubblico, talvolta sulla bocca, ma per lo più sul viso, in maniera meno provocatoria. Il movimento ha preso il nome di Kiss of Love , Bacio d’Amore.
I dimostranti sono stati avvicinati da energumeni che hanno chiesto loro cosa volessero. Semplice, volevano il diritto di manifestare il proprio affetto senza essere aggrediti da energumeni.
Benché in India esistano centinaia di partiti politici che rappresentano piccoli segmenti di società, dare rappresentanza politica agli innamorati è considerato frivolo e risibile, anche se sono milioni e affrontano seri problemi derivanti da una società ostile.
Ma a qualcuno l’idea è venuta. Qualche anno fa un tizio ha fondato l’Indian Lovers Party, con l’obiettivo di fare gli interessi degli innamorati “regolari”, escludendo quelli coinvolti in relazioni illecite. Ma l’idea non è decollata.
La campagna Kiss of Love ha attirato subito centinaia di sostenitori nel mondo reale e migliaia su Facebook. La polizia ne ha arrestato alcuni. I facinorosi li hanno aggrediti. Hanno aggredito, inavvertitamente, anche quelli che protestavano contro Kiss of Love . Da qui l’importanza delle uniformi.
Nei giorni successivi il movimento si è diffuso ad altre città, inclusa Delhi, dove si sono verificate colluttazioni tra i bacianti e i guardiani della cultura.
Ma l’escalation non c’è stata, sembra che il movimento sia evaporato, perché la maggior parte degli aderenti preferisce difendere in privato il proprio diritto alla pubblica espressione.
Dunque la maggioranza degli indiani è contraria alle manifestazioni pubbliche di affetto. I nazionalisti indù e i religiosi musulmani sono uniti nel dire no. Se indù e musulmani si coalizzano, in genere è contro cose divertenti.
Come è accaduto per tutte le battaglie combattute dall’India per la modernità, la battaglia tra i bacianti e i guardiani è una battaglia tra città e villaggi, che sono tanto luoghi spettrali della mente quanto luoghi fisici. È lo scontro tra chi trae vantaggi dal cambiamento e chi invece lo teme, tra chi cerca la propria identità nello sfascio della cultura e chi ha stima di sé solo se la conserva. © 2-014 New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi
Il Sole 14.11.14
Il Messico ostaggio dei narcos
I cartelli della droga sono strutture sofisticate che "producono" business e morte
di Roberto Da Rin
Dalla narcopolitica alla necropolitica. Una caleidoscopio di corruzione, business e morte. Alimentato dalla droga
Brucia, il Messico brucia. L'uccisione dei 43 ragazzi che si apprestavano a manifestare contro il narcotraffico è l'epifenomeno di un quadro già drammatico. Un gruppo di insegnanti ha dato fuoco al Congresso dello Stato di Guerrero, uno dei più collusi con i narcos. Due giorni fa la sede del Pri, il Partito rivoluzionario istituzionale, da sempre al governo, è stata incendiata.
La società civile si ribella al massacro dei ragazzi proprio perché l'ordine è arrivato direttamente dalle istituzioni: il sindaco di Iguala, José Luis Abarca, e la moglie Maria de los Angeles Pineda, entrambi preoccupati per la manifestazione antidroga che i giovani si apprestavano a organizzare, sono i mandanti della strage del 26 settembre scorso. Allarmati per l'eccessiva visibilità dei giovani, hanno attivato i sicari.
Chissà, le parole del sindaco saranno state molto simili a quelle del dittatore messicano Porfirio Diaz, la cui frase «matenlos en caliente», riferita ai suoi oppositori, divenne celebre. Era il 1880.
La storia si ripete 134 anni dopo. Verrebbe da dire un Paese senza speranza se ci si limitasse a guardare i numeri: 80mila morti in dieci anni, vittime del narcotraffico. Eppure il Paese cresce, l'economia corre, produce beni, servizi e cultura. Forse un po' in simbiosi con gli Stati Uniti, di cui è geograficamente contiguo.
Amexica è il titolo di un bel libro di Ed Vulliamy che mette a fuoco l'intreccio perfetto e maledetto di droga, armi, ingenti flussi di denaro e banche. Questo è il punto nodale: le armi dei narcos arrivano dagli Stati Uniti e la loro droga viene venduta negli Stati Uniti, il principale mercato di sbocco. I messicani dicono di essere « troppo lontani da Dio e troppo vicini agli Stati Uniti». Lo ripetono come giustificazione ai loro problemi atavici o almeno antropologici. Il narcotraffico è però "il" problema che, per antonomasia, andrebbe affrontato in sincronia. I tre ultimi presidenti messicani, Vicente Fox, Felipe Calderon ed Enrique Pena Nieto, ci hanno provato, cercando una sponda al di là del Rio Grande. Oltre alla rassicurazioni della controparte americana non sono mai arrivati accordi di collaborazione.
La narcoeconomia offre due prodotti, secondo i funzionari dei servizi antiriciclaggio inglesi: droga e sofferenze. Da un lato grandi ricchezze, lauti guadagni; dall'altro indicibili sofferenze, miseria e morte. I due fattori non si possono separare. Il ruolo delle banche è determinante.
Il colosso bancario Hsbc, la più grande banca d'Europa, solo pochi anni fa, nel 2010, custodiva somme enormi provenienti dal Cartello di Sinaloa (uno dei più potenti del Paese), tramite la casa de cambio Puebla. Decine di miliardi di dollari, dopo un transito alle Cayman, sono arrivati a New York. Una indagine del responsabile del Dipartimento penale del ministero della Giustizia Usa, Lenny Breuer, rivelò che gli emissari del cartello entravano nelle filiali della banca Hsbc centinaia di migliaia di dollari in contanti in un solo giorno, su un unico conto corrente.
L'intreccio tra politica e crimine pare inestricabile anche secondo lo scrittore Diego Enrique Osorno che nel suo libro "Z. La guerra dei narcos" spiega bene come il cartello de Los Zetas sia costituito da imprenditori armati, in una struttura sia verticale sia orizzontale, in cui il capo è meno importante del gruppo. Assimilabile, per potenza organizzativa alla Coca Cola. Se si rimuove l'amministratore delegato se ne mette un altro. La struttura è consolidata e non ne risente. Questa è la narcomodernità.
Osorno lancia un allarme quando osserva i giornali messicani che discettano sul numero delle vittime con la calcolatrice in mano, senza peraltro riuscire a ottenere numeri precisi. Molte famiglie, per timore di rappresaglie, non denunciano la morte dei parenti. È tutto facile, con 80 euro si affitta un killer, difficile sia processato e tanto meno condannato.
Il grido di dolore di Javier Sicilia - un poeta messicano di origini italiane il cui figlio di 24 anni è stato ucciso per errore, da due capetti locali, " El Negro" e "El Jambon" - è lungo 11mila chilometri. Sicilia ha percorso il Paese, a nord e a sud di Città del Messico, alla guida di un movimento pacifista che si fa sentire dal 2010. Ha trasformato il dolore in lotta e incarna la ribellione contro la violenza dei cartelli della droga. L'auspicio di una rifondazione dello Stato. Intanto però il sito dei narcos va forte e non è oscurato. Basta digitare www.elblogdelnarco.com
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
giovedì 13 novembre 2014
Corriere 13.11.14
L’Italia in piazza e i 22 giorni di fermo
Le iniziative della Fiom nelle industrie del Nord, poi toccherà ai ferrovieri L’agitazione degli autotrasportatori e i timori degli italiani tra Pil e incertezza Il blocco dell’Autosole ha nella storia politico-sindacale italiana un suo forte valore simbolico, è il segno di un Rubicone varcato, di una rabbia che non trova argini. Ieri le tute blu della Ast di Terni l’hanno fatto e di conseguenza hanno spaccato l’Italia per più d’un paio d’ore. Stiamo parlando di operai che sono arrivati ormai al 22° giorno di sciopero ad oltranza con circa 70 tonnellate di mancata produzione. Numeri che, tanto per capirci, ricordano gli anni 80 e i 35 giorni ai cancelli di Mirafiori. La decisione di invadere le corsie è stata presa in alternativa all’occupazione dalla fabbrica e i sindacalisti si sono accodati di fronte alla determinazione dei delegati di fabbrica. Da più di tre settimane nello stabilimento di Terni sono ferme le forniture di acciai per Electrolux, Indesit e Fiat e questo blocco costa circa 100 mila euro al giorno, solo di penale per il mancato rispetto del contratto di fornitura.
Il sospetto avanzato dai sindacati è che i vertici aziendali della Thyssen giochino a dimostrare che l’impianto umbro non ha futuro e di conseguenza non si straccerebbero le vesti se dovessero perdere i clienti top dell’auto e degli elettrodomestici. Quale che sia la verità gli operai hanno sgomberato l’autostrada solo quando è arrivata la notizia di una convocazione, per questa mattina, nell’ufficio del ministro Federica Guidi. I sindacati ci andranno con un retropensiero: l’idea che si possa coinvolgere la Cassa Depositi e Prestiti anche nel salvataggio di Terni. Intanto l’ipotesi (molto più sensata) di trovare una sponda a Bruxelles e di far saltare il veto anacronistico dell’antitrust europeo, che ha bloccato la vendita dell’Ast ai finlandesi di Outokumpu, purtroppo non decolla. La neo-commissaria alla concorrenza, la danese Margrethe Vestager, ha detto chiaro e tondo che nelle sue stanze non c’è la soluzione per l’Umbria.
L’immagine dell’Italia bloccata però, e purtroppo, non inizia e finisce a Orte. Domani in contemporanea sono previsti lo sciopero delle fabbriche del Nord proclamato dalla Fiom di Maurizio Landini con manifestazione a Milano e un’astensione dal lavoro proclamata dai Cobas del trasporto ferroviario. E proprio ieri è stato indetto con squilli di tromba dalla Cgil di Susanna Camusso uno sciopero di otto ore per venerdì 5 dicembre. Il caso poi ha voluto che ancora ieri arrivasse dalle associazioni degli autotrasportatori l’annuncio della proclamazione dello stato di agitazione contro le proposte per il settore avanzate dal ministro Maurizio Lupi.
E’ chiaro che si tratta di rivendicazioni e azioni di lotta che non si prestano ad essere sommate aritmeticamente. C’è di tutto un po’, timori di chiusura di un impianto efficiente, scioperi a forte valenza politica, il “blocco ergo sum” di piccole sigle sindacali, prove di forza tra categorie e ministero competente, ma il quadro che ne viene fuori non è certo rassicurante.
E’ vero che da qui alla fine dell’anno il Pil non ci lascia presagire niente di buono e scaramanticamente stiamo aspettando il giro di boa del 31 dicembre, l’insieme di queste agitazioni finisce per comunicare però un senso di impotenza e di rabbia sorda. Gli italiani che leggeranno i giornali e ascolteranno i tg ne ricaveranno una sensazione non certo gradevole, saranno portati a pensare che oltre a tutti i guai dell’economia per tre settimane sarà difficile persino muoversi.
P.S. Alla Berto’s di Padova 48 ore fa è stato firmato un accordo integrativo che prevede nel triennio un premio variabile di 5.900 euro. Ieri alla Barilla un’analoga intesa frutterà ai 4 mila dipendenti un premio di produzione che in tre anni equivarrà a 2.600 euro. In Italia succede anche questo.
Corriere 13.11.14
Protesta l’Ast di Terni, autostrada bloccata Camusso: sciopero generale il 5 dicembre
di Francesco Di Frischia
Guidi convoca per oggi i sindacati della fabbrica umbra. Duello nel Pd sulla mobilitazione Cgil Boom della cassa integrazione, più 19,3%. Vertice al Viminale per le manifestazioni di domani ROMA Mentre Susanna Camusso proclama per la Cgil lo sciopero generale di otto ore per il 5 dicembre contro la legge di Stabilità e il Jobs act, il ministro Alfano convoca al Viminale un vertice con i sindacati: teme proteste stile «forconi» e disordini in occasione delle manifestazioni organizzate domani in 16 grandi città da sindacati di base, studenti, centri sociali e precari contro i provvedimenti del governo Renzi, senza dimenticare i metalmeccanici della Fiom che, sempre domani, scendono in corteo a Milano. Nel frattempo, però, centinaia di operai dell’Ast di Terni bloccano a sorpresa l’A1 all’altezza di Orte per circa 4 ore: la protesta per i 291 esuberi annunciati dall’azienda siderurgica termina solo quando il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, anticipa a stamattina la convocazione dei sindacati, fissata per martedì prossimo. Intanto arrivano cattive notizie dall’Inps: le ore di cassa integrazione a ottobre sono cresciute del 19,3% rispetto allo stesso mese del 2013. In particolare la cig straordinaria è aumentata a ottobre del 27,1% rispetto a un anno fa e quella in deroga è addirittura esplosa nello stesso periodo facendo segnare un +136,4%.
Susanna Camusso lancia un appello a Cisl e Uil affinché partecipino alla mobilitazione generale del 5 dicembre. «La proposta parte dalle richieste venute dalle piazze del 25 ottobre e dell’8 novembre e dalla volontà di salvaguardare tutti i punti delle iniziative unitarie», precisa. E la scelta del 5 dicembre, aggiunge, «risponde all’esigenza di raccogliere la mobilitazione unitaria già decisa dai sindacati della scuola» e dalla volontà di proseguire la protesta dei lavoratori pubblici con la manifestazione di sabato scorso a Roma. La convocazione da parte del ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, per il 17 novembre, «non cambia la situazione», secondo la leader della Cgil, perché il governo «non ha intenzione di cambiare la legge di Stabilità». A chi le fa notare le parole del segretario aggiunto della Uil, Carmelo Barbagallo, che vorrebbe «prima sentire le posizioni dell’esecutivo», Camusso replica: «Siamo sempre stati disponibili al confronto» e la convocazione «appare proprio il risultato della mobilitazione dei lavoratori pubblici: per questo va continuata la lotta a sostegno della nostra piattaforma».
Che il clima sia teso lo conferma la rivolta dei lavoratori dell’Ast di Terni, esasperati dopo tre settimane di sciopero: al termine di una assemblea davanti alla fabbrica, bloccano per 4 ore la A1 a Orte, causando 9 chilometri di coda. L’episodio fa solo aumentare la preoccupazione, già grande, al ministero dell’Interno per domani quando si sovrapporranno lo sciopero proclamato dai sindacati di base (Asia-Udb-Rdb) e la manifestazione della Fiom a Milano: tra 24 ore infatti studenti, precari, movimenti, sindacati di base, disoccupati e centri sociali sono in piazza, da Nord a Sud, per il primo #sciopero sociale italiano , come è stato ribattezzato sui social network per opporsi ai provvedimenti del governo Renzi. Le città coinvolte sono Roma, Milano, Padova, Venezia, Genova, Torino, Bologna, Firenze, Pisa, Perugia, Pescara, Chieti, Bari, Napoli, Taranto e Catania.
il Fatto 13.11.14
Sciopero, botte Cgil-Renzi, e ormai ci sono due Pd
Protesta il 5 dicembre, i Matteo-boys: “Così fanno il ponte dell’Immacolata...”
di Salvatore Cannavò
Quando alla segreteria del Pd hanno appreso la data dello sciopero generale della Cgil, il 5 dicembre, hanno festeggiato. Lo scontro mediatico tra il “partito” e il sindacato è tornato di nuovo a livelli altissimi, inondando il web e creando un nuovo motivo di polemica che travalica il merito della protesta. A dare fiato alla contesta è stato Ernesto Carbone, neo-componente della segreteria del Partito democratico, renziano di fresca adesione: “Il 5 dicembre è un venerdì poi sabato, domenica e lunedì 8 dicembre che è festivo... il ponte è servito #Coïncidence”.
IL TWEET SI È COSÌ sommato ai tanti che si sono rincorsi in rete e che hanno visto l’indicazione della vigilia dell’Immacolata come una scelta di cattivo gusto. Tanto che, in serata, ha provato a ricucire il presidente del Pd, Matteo Or-fini, sempre via Twitter: “Non condivido le ragioni dello sciopero della Cgil, ha scritto. Ma un lavoratore che sciopera sacrifica molto. Ironizzare sulla data è un'inutile offesa”. Anche la Cgil ha replicato. Prima con Maurizio Landini che, difendendo la data, ha bollato come “sciocchezze” le polemiche. Lo stesso ha fatto il segretario confederale, Danilo Barbi, il quale ha ricordato che, in ogni caso, il ponte è relativo visto che sono in molti a lavorare il 6 dicembre. Più diretto nel rispondere alla polemica, invece, il portavoce di Susanna Camusso: “I lavoratori italiani – scrive Massimo Gibelli nel suo blog sull’Huffington Post – sciopereranno il primo venerdì di dicembre non certo per andare in vacanza, come raccontano i professionisti e i polemisti della politica, quelli che non sanno le regole e che spesso non hanno mai lavorato; quelli che neppure conoscono i sacrifici che un lavoratore deve compiere quando decide di scioperare e rinunciare alla paga di un'intera giornata. Quegli stessi – continua Gibelli – che pensano ai lavoratori, come fancazzisti, assenteisti, bestie da soma alla ricerca di un ponte per spendere i propri guadagni in un resort o in un viaggio all'estero (perché è questo quello che loro farebbero) ”. Parole durissime, le più dure utilizzate nelle polemiche a sinistra e che danno la misura dello scontro all’ultimo sangue che non sembra ormai più reversibile. La scelta del 5 dicembre, presentata al direttivo della Cgil ieri mattina, ha visto la confederazione tutta unita dietro al segretario generale, tranne i tre membri della piccola minoranza interna. Qualche “perplessità” in platea sulla data prescelta c’è stata, ma chi l’ha avuta ha preferito tenere le critiche per sé. La proclamazione dello sciopero era una scelta obbligata in cui si è rinsaldata l’alleanza tra Landini e Camusso: “Sono d’accordo con la relazione del segretario” è stato l’esordio, il primo dopo tanto tempo, del segretario Fiom. E lo sciopero sarà contro il Jobs Act e contro la legge di Stabilità, “tanto non credo sarà cambiata”, commenta Camusso.
SULLE SCELTE della data, però, ha pesato la logica di scontro diretto con il governo che, oltre a trascurare l’impatto mediatico del “ponte” ha tagliato ulteriormente i ponti con gli altri due sindacati, Cisl e Uil, indisponibili a seguire la sorella maggiore sulla strada dello sciopero generale. Fino a creare anche una “gaffe” nei rapporti sindacali. Nel documento finale approvato dal direttivo, infatti si legge che “la Cgil plaude alla scelta dei sindacati dei comparti pubblici di proclamare per il prossimo 5 dicembre uno sciopero generale unitario”. La propria data, quindi, è offerta come valorizzazione di quella iniziativa. In serata, però, arriva la smentita della Cisl: “Nessuna data di proclamazione di sciopero generale per il giorno 5 dicembre era stata sottoscritta dai sindacati di categoria della Cisl della scuola e del pubblico impiego” “Siamo sorpresi che la Flc Cgil e la Cgil funzione pubblica, che ieri ci avevano preannunciato di fare un’ iniziativa unitaria, abbiano votato uno sciopero generale che nulla ha a che vedere con le rivendicazioni della manifestazione dell’8 novembre per il rinnovo contrattuale”. La scelta di tenere alto lo scontro, dopo la grande manifestazione del 25 ottobre, brucia così anche i legami unitari che ancora tengono unite le tre confederazioni. E così, nonostante Ca-musso abbia presentato la data del 5 dicembre come “l’opportunità di un momento di mobilitazione unitaria e generale” la risposta è stata totalmente negativa. Annamaria Furlan, neo-segretario generale Cisl, ha preferito apprezzare l’apertura ai sindacati del pubblico impiego convocati ieri dalla ministra Marianna Madia per il 17 novembre. E lo stesso ha fatto anche il neo-segretario Uil, Carmelo Barbagallo, che pure aveva lasciato aperta la possibilità, nei giorni scorsi, di uno sciopero a due assieme alla Cgil. La partita, quindi, vede impegnato il sindacato “rosso” contro il partito più grande a sinistra. E contro il suo leader.
La Stampa 13.11.14
Intesa Renzi-Berlusconi
Il premier: avanti con Fi anche se divisi su alcune votazioni
Resta il nodo sbarramento
Renzi salva il Patto e allarga la maggioranza per il Colle
No della minoranza Pd
Nota congiunta: “L’intesa è più solida che mai”
di Fabio Martini
Nello studio foderato di tappezzeria gialla del presidente del Consiglio, i due istrioni si congedano in un clima complice, a base di sorrisi e battutine, con Matteo Renzi che richiude la porta più raggiante che mai e con Silvio Berlusconi che se ne va, senza neppure volere essere presente alla stesura del testo finale congiunto, quello nel quale si dirà che «l’impianto» del Patto del Nazareno è «più solido che mai», salvo glissare sul fatto che le divergenze permangono su punti qualificanti. L’incontro, l’ottavo in undici mesi, è durato una novantina di minuti e si è svolto in un clima di grande simpatia. Ad un certo punto il presidente del Consiglio ha spiegato a Berlusconi: «Silvio, lo capisci bene che non posso disattendere un accordo con i partiti della maggioranza raggiunto soltanto due sere fa...». E il Cavaliere, a quel punto, dando per scontato un dissenso, anziché impuntarsi, ha lasciato correre, anche per non passare alla storia - ha spiegato a Renzi - come il persecutore dei partitini. Alla fine dell’incontro Matteo Renzi era decisamente compiaciuto: sul piano della manovra politico-parlamentare nell’ultima settimana gli è riuscito tutto. In una fase che Renzi stesso, nella riunione della Direzione Pd in serata, ha provato a drammatizzare, sia pure con misura: «Noi siamo al momento forse più delicato della legislatura perché stanno venendo al pettine tutti i principali nodi, in una fase in cui anche a livello internazionale coincidono diversi problemi». E ancora: «È evidente a tutti che nessuno considera la legge elettorale il principale problema con cui gli italiani vanno a dormire. Ma è il pin del telefonino, la password del pc per dire che si fanno le cose sul serio». E da ieri sera Renzi è tornato in possesso del Pin che potrebbe consentirgli di eleggere il Capo dello Stato a lui gradito: ha ricompattato la sua maggioranza, ha salvato il Patto del Nazareno con Berlusconi. Sulla carta da ieri sera dispone di quasi 700 “grandi elettori” per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica e ne bastano 504. Nel corso dell’ultima settimana Renzi è riuscito a far convergere i voti dei parlamentari Cinque Stelle sulla candidata del Pd alla Consulta; ha portato decisamente dalla sua parte i «partitini» della maggioranza; ha fatto trangugiare a Berlusconi il testo di una riforma che l’altro non condivide, ma senza per questo subire la disdetta del controverso Patto del Nazareno. E Renzi, sulla riforma tagliata su sua misura, ha incassato l’impegno di tutti a chiudere la lettura del Senato entro l’anno, per poi andare all’approvazione finale in data da fissare, ma comunque nei primissimi mesi del 2015. Ed entro quella data il presidente del Consiglio - lo ha fatto scrivere anche nel documento congiunto con Berlusconi - conta di aver incassato anche la seconda lettura della riforma che ridimensiona il Senato. Tutti «trofei» in vista di un appuntamento elettorale al quale Matteo Renzi sta pensando davvero, a dispetto di tutte le dietrologie su possibili elezioni anticipate: le elezioni in 9 Regioni che, tra il 23 novembre e la primavera del 2015, porteranno alle urne quasi 30 milioni di italiani. Renzi non può dirlo esplicitamente, ma il suo obiettivo inconfessabile è quello di un 9 a 0, anche se - dicono i suoi - si contenterebbe di recuperare al centrodestra almeno una delle due grandi regioni governate dall’opposizione: la Campania o il Veneto. E così, a fine giornata e una volta ancora, il fronte più dolente per il presidente del Consiglio restava quello interno, quello della minoranza del Pd e quello della piazza anti-Renzi, che da ieri ha anche una data per ritrovarsi: il 5 dicembre per lo sciopero generale indetto dalla Cgil.
La Stampa 13.11.14
Renzi-Berlusconi, accordo a metà
di Ugo Magri
Solo nella patria di Machiavelli può accadere che due leader si dichiarino in disaccordo su altrettanti punti chiave della riforma elettorale, salvo sostenere poi che il loro patto non è mai stato così forte. L’incontro tra Renzi e Berlusconi si è concluso con un comunicato congiunto dove viene argomentato proprio questo paradosso. Per cui viene da domandarsi come ciò sia possibile ed, eventualmente, che cosa si nasconda dietro.
Chi è bene al corrente del colloquio garantisce che davvero quei due sono andati per un’ora e mezzo d’amore e d’accordo. È stato tutto uno scambio di complimenti battute e perfino smancerie. Mai un passaggio scabroso, nemmeno quando si è arrivati a trattare i motivi del dissenso: il premio di maggioranza alla lista anziché alla coalizione (è Renzi che insiste per ottenerlo), la soglia di sbarramento per i «nanetti» al 5 per cento e non al 3 (pretesa come contraccambio da Berlusconi). Tanto Silvio quanto Matteo hanno stabilito che il nodo si scioglierà con calma strada facendo, durante l’iter dell’«Italicum» in Senato che riprenderà il 18 novembre. Straordinaria acrobazia nel comunicato finale: «Le differenze registrate sulla soglia minima di ingresso e sulla attribuzione del premio di maggioranza alla lista, anziché alla coalizione, non impediscono di considerare positivo il lavoro fin qui svolto e di concludere i lavori in aula entro il mese di dicembre e la riforma costituzionale entro gennaio 2015». Non impediscono, okay, ma con i voti di chi?
Al momento non con quelli di Forza Italia che, sui punti in dissenso sembra orientata ad astenersi (e in Senato l’astensione vale voto contrario). Renzi dunque dovrà far leva sulla sua maggioranza, senza «soccorso azzurro». Lui pensa di farcela, i berlusconiani scommettono di no. Possiamo dunque immaginarci il premier e Berlusconi come due giocatori di poker, uno che sostiene di avere le carte vincenti e l’altro che lo sfida: «Vediamo». Però circola un’altra interpretazione: i due non hanno chiarito perché a entrambi fa comodo lasciare per ora dei punti in sospeso. Dimodoché Renzi possa sorridere ad Alfano: «Nonostante il pressing di Forza Italia non ho alzato le soglie, e dunque voi piccoletti mi dovete la pelle». Berlusconi, dal canto suo, può tener buoni Brunetta, Fitto, Romani e Toti (li ha visti tutti quanti ieri sera a cena) con la favola dell’accanita resistenza opposta al premier, il quale voleva imporgli una soglia del 3 per cento e lui non ha ceduto... Salvo che all’ultimo momento, zac, spunterà fuori un numero intermedio, il 4 ad esempio, capace di scontentare tutti e calare il sipario sulla vicenda.
Ma questi tecnicismi non sono il nocciolo vero. La sostanza è che l’ex Cavaliere, spalleggiato da Verdini, darebbe un dito pur di non essere tagliato fuori dai giochi e in particolare dalle scelte del dopo-Napolitano, rimaste sullo sfondo del colloquio. Al punto da sottoscrivere un comunicato entusiasta dove Renzi viene autorizzato a procedere, sui punti di dissenso, fuori dai famosi patti del Nazareno. Berlusconi è come se dicesse al premier: io non sono granché d’accordo ma tu fai pure, non c’è problema. Si sfoga al telefono un esponente «azzurro» di primo piano, a patto di restare anonimo: «È come se io dicessi: sì, mia moglie mi tradisce, però non ho nulla da obiettare e anzi il nostro matrimonio non è mai stato così saldo...».
Repubblica 13.11.14
Perchè Berlusconi ha scelto di perdere
L’ex Cavaliere accetta una nuova architettura dell’Italicum e ora deve placare il disagio di Fi
di Stefano Folli
Sul premio alla lista finale già scritto Renzi riduce Silvio a comprimario
AVOLERLO leggere con attenzione, il comunicato finale sottoscritto da Renzi e Berlusconi è più esplicito di quanto sembri. È tutto costruito per spiegare l’accordo politico sulla legge elettorale, di cui addirittura si annuncia il passaggio in aula al Senato entro la fine dell’anno. Dentro la cornice dell’intesa, si lascia un paragrafo sui punti di dissenso: soglia minima e premio alla lista.
Per paradosso sono proprio questi due punti a dimostrare che Berlusconi ha accettato quasi tutto, al di là della propaganda del giorno dopo. Di solito infatti le divergenze di merito finiscono per prevalere sulla dichiarata sintonia nel metodo. Ma non in questo caso. E si capisce. Sul «quorum» delle liste minori (il 3 oppure il 4 o magari il 5 per cento) c’è, sì, una differenza fra Renzi e il suo alleato: non tale, tuttavia, da far traballare l’impianto della legge. Sarà facile nelle prossime settimane, meglio se in Parlamento, trovare una sintesi, ossia un compromesso. In fondo non è un caso che lo stesso Alfano si sia dichiarato soddisfatto dell’incontro di Palazzo Chigi.
Viceversa, l’altro punto è strategico: non è un «distinguo » di poco conto stabilire se il premio di maggioranza deve essere dato alla lista o alla coalizione. Costituisce anzi lo snodo fondamentale che regge tutta la legge nella nuova versione che Renzi ha offerto, o meglio ha imposto al suo interlocutore. Su questo, se Berlusconi non era d’accordo, c’era solo una risposta possibile: la rottura netta e definitiva. Non è un dettaglio che si aggiusta nell’aula del Senato, bensì la prova che l’intera architettura della legge è stata modificata dal premier-segretario rispetto al vecchio Italicum. Quindi prendere o lasciare.
Brunetta nei giorni scorsi aveva colto nel segno quando dichiarava che la legge era stata stravolta e perciò Forza Italia non doveva votarla. Ma Brunetta ha suscitato il disappunto del capo e si capisce perché: la linea del vecchio leader non è mai stata la spaccatura, bensì la sostanziale copertura delle posizioni «renziane». Per cui la spina dorsale della nuova legge (il premio di maggioranza non più alla coalizione bensì al singolo partito vincitore) viene accettata dal centrodestra; e la divergenza strategica, quella che condannerà il gruppo berlusconiano a essere la terza o forse la quarta forza politica del paese, è derubricata al rango di piccolo particolare destinato a essere chiarito nel corso del dibattito in Parlamento.
In altre parole, Berlusconi ha detto «sì» e semmai con il comunicato di ieri sera ha cercato di tenere a bada i malumori dei suoi. Come dire: tranquilli, non è finita, il confronto- scontro continua, però voi fidatevi di me. La realtà è un po’ diversa. La giornata ha avuto un vincitore ed è Renzi. Nell’altro accampamento, quello del centrodestra, c’è un comprimario che subisce la personalità del premier e fa di necessità virtù, per una serie di ragioni che non sono tutte attinenti alla politica. Ne deriva che Berlusconi deve farsi piacere una legge elettorale che fino a pochi anni fa avrebbe respinto, essendo la meno adatta a ricompattare il centrodestra.
Tutto questo non significa che la nuova norma avrà senz’altro vita facile in Parlamento. Dissidenti ce ne sono nel centrosinistra come nel centrodestra. E i sussulti della minoranza del Pd, contraria ai capilista indicati dalle segreterie dei partiti, lo testimonia. Ma siamo in un campo che permette comunque un certo margine negoziale, sia a Renzi sia a Berlusconi. Ci potranno essere dei ritardi, ma il carro della riforma si è rimesso in moto. E a confermarlo arriva quell’accenno alla revisione costituzionale del Senato da approvare in seconda lettura entro gennaio. Come dire che l’annuncio del prossimo addio di Napolitano è servito a scuotere l’albero dell’inerzia.
Sul quorum per le liste minori la divergenza sarà facile da comporre L’annuncio del prossimo addio di Napolitano accelera l’iter delle riforme
il Fatto 13.11.14
Il Nazareno è fermo nella palude di Silvio
di Fabrizio d’Esposito
DALL’OTTAVO INCONTRO TRA IL PREMIER E L’EX CAVALIERE ESCE UN COMUNICATO IN CUI VA TUTTO OK. MA SENZA LA PISTOLA DELLE ELEZIONI CARICA NON SI PROCEDE
L’Ottava del Nazareno. Al buio, ovviamente. Alle cinque della sera a Palazzo Chigi, con sessanta minuti d’anticipo sull’orario fissato. Il patto segreto tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato cambia colore dopo la sceneggiata delle dimissioni annunciate di Napolitano nello scorso fine settimana. Le tinte renziane si sbiadiscono un po’ e il Condannato riesce a impantanare il tormentone dell’Italicum per allontanare l’incubo delle Politiche nel 2015 e soprattutto a puntellare il suo ruolo di “grande elettore” del prossimo capo dello Stato. Alle fine dell’ottavo vertice tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi c’è persino un comunicato congiunto, in cui si ribadisce “la scadenza naturale della legislatura nel 2018” e il “patto è più solido che mai”. Scrivono Pd e Forza Italia, a proposito della trattativa sulla legge elettorale: “Le differenze registrate sulla soglia minima di ingresso e sulla attribuzione del premio di maggioranza alla lista, anziché alla coalizione, non impediscono di considerare positivo il lavoro fin qui svolto e di concludere i lavori in aula al Senato dell’Italicum entro il mese di dicembre e della riforma costituzionale entro gennaio 2015”.
In pratica, nel colloquio a sei di Palazzo Chigi, da un lato Renzi, Guerini e Lotti, dall’altro Berlusconi, Gianni Letta e Verdini, non è stata raggiunta l’intesa sulla fatidica soglia di sbarramento, che i “piccoli” vogliono al tre per cento, Forza Italia al cinque e il compromesso della vigilia si assestava al quattro per cento. Perdipiù, viene rinviata in Parlamento anche la svolta renziana del premio di lista, alzato comunque al 40 per cento, coalizione o lista che sia. Al contrario, il fronte berlusconiano incassa il numero dei collegi, 100, e soprattutto i capilista nominati mentre il resto saranno tutte preferenze. In questo modo, il Condannato avrà ancora una volta la possibilità di scegliere i suoi parlamentari, collegio per collegio, considerato che con i suoi voti attuali porterà a casa un centinaio di deputati.
L’OTTAVO VERTICE del Nazareno è durato novanta minuti e le colombe forziste riferiscono di “una sintonia totale”, quasi di “un amore ritrovato”. Appena una settimana fa gli umori erano l’opposto, dopo il settimo incontro tra i due contraenti, sempre di mercoledì. A detta dei “nazareni” azzurri B. era stato risucchiato dall’antirenzismo del suo cerchio magico e della fronda pugliese di Raffaele Fitto. A distanza di sette giorni tutti sprizzano gioia dalle parti di Forza Italia. Sia i “nazareni” di Verdini perché “il patto è vivo e vegeto e non è stato ammazzato”. Sia i ribelli perché adesso il patto è stato rimodulato e gli azzurri non subiranno passivamente le offensive renziane. Questione di punti di vista. Basta aspettare i fatti per sapere chi avrà ragione. In ogni caso, il comunicato congiunto di ieri, sottoscritto da Forza Italia e Partito democratico, è il preludio ideale alle grandi manovre per la successione di Napolitano.
Ovviamente se i forzisti godono, dall’altra parte si registra un indebolimento oggettivo di Renzi, che adesso dovrà affrontare tutte le prove parlamentari, compresa quella dell’Italicum, senza la pistola carica del voto anticipato nel 2015. È questo il risultato maggiore della settimana, apertasi nel segno della “stanchezza” di Re Giorgio e dal toto-Quirinale. Non è un caso che, stavolta, pure Angelino Alfano, capofila dei “piccoli” in quanto leader di Ncd, esulta con un tweet: “Ottimo incontro tra Renzi e Berlusconi. Avanti tutta”. Anche questo non era mai accaduto sinora. È la certificazione dell’ammuina in atto sull’Italicum e che sta ingabbiando Renzi. In fondo, il caos scatenato dalle voci su Napolitano era diretto proprio contro il premier. Per la serie: “Non sarò io il capo dello Stato che scioglie le Camere, piuttosto me ne vado”. L’Ottava del Nazareno muta il paesaggio politico del renzismo trionfante. È come se il premier fosse stato spinto in un angolo. Toccherà a lui uscirne e dimostrare di rispettare la tabella di marcia indicata in maniera ambigua nel comunicato di ieri: “Le differenze non impediscono” l’approvazione entro l’anno della nuova legge elettorale. Il significato da attribuire a quel “non impediscono” variano da soggetto a soggetto e soprattutto indica il nuovo stato delle cose. Prima Renzi poteva ricattare tutti, sia la minoranza del Pd, sia Berlusconi e Alfano, con l’arma del voto. Adesso non più.
Corriere 13.10.14
Calcoli errati e vedute corte
di Antonio Polito
Pare proprio che, come aveva minacciato D’Alema in tv, la sinistra pd abbia perso la pazienza. L’alzata di scudi di ieri notte contro il patto del Nazareno bis (o tris) avvia una fase in cui niente più può essere dato per scontato, nemmeno il voto sul Jobs act. È probabile che le piazze sindacali abbiano restituito coraggio e allo stesso tempo costretto a una accelerazione della lotta politica contro Renzi. Ma nel combatterla la minoranza che fa capo a Bersani e D’Alema deve stare attenta a non ripetere gli stessi clamorosi errori che già le costarono il controllo del partito. Con l’aggravante che stavolta non rischierebbe solo in proprio, ma metterebbe a repentaglio la credibilità del governo Renzi in Europa, già in bilico di suo.
Il sospetto di una deriva politica è lecito. Appena qualche giorno fa, con un virtuosismo della litote certamente appreso alla scuola dei padri («Il vivente non umano» di Ingrao e «La non vittoria elettorale» di Bersani), Stefano Fassina è arrivato a proporre sul Foglio non l’uscita dall’euro, come un qualunque Grillo o Salvini, ma «il superamento cooperativo dell’euro», che poi è la stessa cosa, visto che non sembra esserci nessuno in giro disposto a cooperare con noi per farci uscire in modo indolore dalla moneta unica. Così più di vent’anni di zelante europeismo, nuova ideologia di una sinistra che trasferiva a Bruxelles il sol dell’avvenire tramontato all’Est, vengono buttati a mare in un sol colpo. Al posto dell’integrazione europea, cui hanno dedicato la vita leader fino a ieri venerati come Spinelli, Prodi e Napolitano, ecco che si propone la «dis-integrazione ordinata» della moneta unica, così da farne due, o tre, o quindici, come se questo risolvesse il nostro problema cruciale: il costo di un enorme debito.
Il fatto è che il gruppo dei Fassina e dei Cuperlo ha letto fin dall’inizio male il segno politico della crisi economica mondiale, interpretandolo come una potente spinta a sinistra dell’elettorato. Su questa base ha indotto Bersani a fare una campagna elettorale perdente in stile cgil, mentre il suo popolo se ne andava da tutt’altre parti. Ora è sotto choc per aver scoperto che quello stesso popolo segue Renzi, pur bollato come una Thatcher col lifting da Susanna Camusso. Non resta che l’ultimo populismo, quello antieuropeista. Pericoloso ovunque, ma molto di più quando alligna all’interno del partito di maggioranza e di governo di un Paese a rischio come l’Italia.
Non è certo così, facendo i proto-grillini o gli pseudo-leghisti solo un po’ più colti, che la sinistra pd può sperare non dico di riprendersi, ma nemmeno di correggere la barra del timone che ha perso.
Corriere 13.11.14
Patto diseguale e tante trappole
L’accordo sopravvive nel segno del premier
di Massimo Franco
Dopo l’incontro Renzi-Berlusconi conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno ma di quello raggiunto 3 giorni fa tra premier e alleati minori. Il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso.
Più del comunicato congiunto di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi dopo il loro vertice sulla riforma elettorale, ieri hanno colpito le parole abrasive del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Volentieri vorrei che cedessimo a qualcun altro», ha detto con una punta di ironia, «il record mondiale di caduta dei governi». Ha tutta l’aria di un altolà implicito ad una crisi dell’esecutivo e ad elezioni anticipate. Sembra la conferma che il capo dello Stato ha deciso di esorcizzare questa prospettiva anche lasciando trapelare l’intenzione di chiudere il suo mandato all’inizio del 2015. Si tratta appena di un inciso, incorniciato dal discorso sull’Expo di Milano tenuto al Quirinale. Ma pesa su uno sfondo di tensione tra e dentro i partiti: di maggioranza e di opposizione. E si trasforma nell’ennesimo monito ad una classe politica che sbanda tra accordi e minacce di rottura, osservata con diffidenza dall’Unione Europea. Il fatto che ieri la minoranza del Pd abbia deciso di disertare la riunione della Direzione in polemica col segretario-premier indica un malessere persistente; e destinato a riaffiorare nel momento in cui l’arma delle elezioni anticipate si sta spuntando nelle mani di Renzi. È una fronda che si rispecchia anche nelle modifiche chieste da alcuni senatori del Pd sulla riforma della Camera «alta».
Ma si tratta di scarti che non indeboliscono le critiche del presidente del Consiglio ad un Berlusconi accusato di non avere dietro tutte le sue truppe parlamentari. A sinistra rimane un’area di dissenso coriacea, che trova una sponda nella Cgil che conferma lo sciopero generale per il 5 dicembre. Eppure, per quanto esposto al conflitto anche sul piano sociale, il governo va avanti. La tendenza è a considerare i dissensi qualcosa di facilmente superabile. E infatti il 18 novembre la riforma elettorale emersa dal vertice di maggioranza dell’altro giorno comincerà ad essere discussa nella Commissione affari costituzionali. Relatrice: la presidente Anna Finocchiaro.
Rimane da capire quale sistema alla fine emergerà. E soprattutto, se davvero si farà in tempo ad approvare la legge al Senato entro fine anno. A definirlo «impossibile» è il leghista Roberto Calderoli, che mette davanti l’esigenza di approvare i provvedimenti economici. Ma la nota diffusa dopo un’ora e mezzo di colloquio tra Renzi e il sottosegretario Lotti da una parte, e Berlusconi, Gianni Letta e Denis Verdini dall’altra, conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno ma di quello raggiunto tre giorni fa tra il premier e i suoi alleati minori. E rafforza il premier.
Berlusconi ha ottenuto cento capilista bloccati, certo. Ma sbatte contro il limite di accesso in Parlamento al 3 per cento, imposto dai partitini. E il premio in seggi al partito maggiore o alla coalizione rimane in bilico. Sostenere che «l’impianto del patto è più che mai solido, nonostante le differenze», come recita il comunicato congiunto, sa di verità d’ufficio. E non riesce a coprire la sconfitta del leader del centrodestra. La legislatura «dovrà proseguire fino al 2018», concordano i «pattisti». Ma il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso. La legislatura continuerà nel segno di Renzi. Berlusconi può solo inseguire. In affanno.
Corriere 13.11.14
Il leader: Silvio ci seguirà. Vuole stare al tavolo anche nella partita del Colle
«Ognuno ha messo i suoi ingredienti. Ora tutti spingono il carrello»
ROMA A sera, dopo l’incontro con la delegazione di Forza Italia capeggiata da Silvio Berlusconi, Matteo Renzi ha il tempo di rilassarsi un poco con i suoi, prima di prepararsi ad affrontare la riunione della Direzione del suo partito.
Nello staff del presidente del Consiglio circola questa battuta, piuttosto cruda, ma che spiega con una certa efficacia la situazione: «È come se fossimo in un supermercato con il nostro carrello. Ci abbiamo messo il 3 per cento per Alfano, i capilista bloccati per Berlusconi e adesso tutti spingono quel carrello. E questo era quello che ci interessava». Detta così, forse, suona un po’ brutale, ma piuttosto realistica. Perché se è vero che l’ex Cavaliere ieri ha detto «no» al 3 per cento e al premio di lista, è anche vero, come ha spiegato ai collaboratori e ai fedelissimi il premier, che «ci ha assicurato che non farà imboscate e che garantirà che i tempi vengano rispettati».
«Del resto — ha aggiunto Renzi — nessuno si aspettava che ci dicesse di sì, non poteva farlo, dopo aver ricompattato il suo partito, altrimenti Forza Italia si sarebbe nuovamente divisa e Fitto sarebbe tornato alla carica. Insomma, immaginare che Berlusconi fosse disponibile a darci di più era francamente impossibile, ma va bene così». Il presidente del Consiglio è soddisfatto, non dispera di ottenere qualcosina di più durante l’iter parlamentare, ma anche se ciò non dovesse accadere, pazienza. È riuscito a fare un accordo con la sua maggioranza di governo sul premio alla lista (cosa a cui teneva sopra ogni altra cosa, perché è il bipartitismo, in realtà, l’obiettivo finale a cui tende Renzi) e nel contempo non ha provocato la rottura del patto del Nazareno, anche se quell’intesa si è andata modificando nel tempo.
«Non dimentichiamoci — ha spiegato ancora ai suoi il premier — che Berlusconi ci ha anche promesso che andrà avanti con noi sulla riforma del Senato, che non si sfilerà e pure questo è un punto molto importante». Dunque «si può procedere celermente, secondo i tempi stabiliti, senza rinvii e stoppando qualsiasi tattica dilatoria, cosa che era il nostro primo obiettivo».
Per il resto, il premier non è preoccupato per il fatto che Fi voterà a favore solo di determinati punti della riforma elettorale. Sa che sulla soglia del 3 per cento i voti saranno molti di più di quelli dello stretto confine della maggioranza di governo. Per esempio, perché Sel e Fratelli d’Italia dovrebbero dire «no» a uno sbarramento che consente a queste due forze politiche di presentarsi da sole? Quanto al premio di lista, il premier ritene di non avere problemi nemmeno su quel fronte. È convinto che su quel punto il suo partito sarà compatto e che qualche apporto potrebbe venire anche dai banchi dell’opposizione.
Per farla breve, il premier è convinto che la riforma elettorale «verrà approvata entro la fine dell’anno al Senato ed entro febbraio del 2015 alla Camera». Ma non ostenta un po’ troppa sicurezza il presidente del Consiglio? Una fetta della minoranza del Partito democratico potrebbe dargli del filo da torcere al Senato: «Già, ma questa volta — ha spiegato ai più stretti collaboratori — dovranno farlo con il voto palese, mettendoci la faccia e assumendosi le loro responsabilità». Inclusa quella di far fallire una delle riforme che Giorgio Napolitano aveva posto come condizione per accettare il suo secondo mandato.
Renzi, che non è certo un ingenuo, sa bene che sia nel Pd che dentro Forza Italia c’era e c’è chi vuole mandare all’aria tutto e le mosse del vertice di maggioranza di lunedì e dell’incontro di ieri con comunicato incorporato sono servite proprio a sventare queste manovre. Come sa, perché l’ex Cavaliere glielo ha confermato ieri, che Berlusconi vuole stare al tavolo in cui si deciderà la successione a Napolitano: «Lui — ha spiegato ai suoi — mi ha detto di avere tutto l’interesse a essere dentro questa partita». Nei corridoi di Montecitorio, dopo quell’incontro, circola voce che questo sia l’assillo di Berlusconi. Motivo in più perché il leader di Fi non rompa il patto. Motivo in più perché Renzi si senta sufficientemente tranquillo.
Il Sole 13.11.14
Il tentativo di uscire dai poteri di veto
di Sergio Fabbrini
C'è una questione di sostanza e una di metodo, nel negoziato sulle riforme tra Renzi e Berlusconi. Cominciamo dalla sostanza. L'Italia sta aspettando dagli anni Ottanta del secolo scorso (e comunque dalla fine della Guerra Fredda di 25 anni fa) la modernizzazione del proprio sistema istituzionale.
C'è una consapevolezza largamente maggioritaria nel Paese che il nostro sistema di governo deve migliorare le proprie capacità decisionali, così da adeguarsi alla velocità con cui i problemi di politica pubblica si impongono nell'agenda pubblica. Nessun Paese di dimensioni come le nostre (per popolazione, per capacità produttive, per responsabilità politiche) funziona secondo le logiche consensuali, protette dalla diffusione di poteri di veto, che continuano a connotare il nostro sistema di governo. Al di là delle forme costituzionali specifiche, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna sono dotate di governi capaci di decidere, generalmente costituiti da uno o due partiti. Anche quando danno vita a coalizioni (come attualmente in Germania), nessuno mette in dubbio la capacità del cancelliere di avere l'ultima parola sulle questioni cruciali. L'integrazione monetaria ha ulteriormente accentuato l'esigenza di governi decidenti e controllati all'interno delle democrazie europee. In questi Paesi, la modernizzazione delle istituzioni di governo (formale, in Francia, o di fatto, in Gran Bretagna) è un'attività costante, condivisa dalle élite politiche di sinistra e di destra. Non è così in Italia. Non solamente continuiamo ad avere istituzioni pensate per un Paese diviso dallo scontro ideologico della guerra fredda, ma continuiamo a pensare che destra e sinistra debbono dividersi anche relativamente alle caratteristiche che deve assumere il comune sistema di governo.
Il cosiddetto patto del Nazareno, ribadito nell'incontro di ieri tra Renzi e Berlusconi, costituisce uno dei pochi esempi positivi di accordo tra leader politici per disegnare un nuovo sistema riconosciuto dai loro rispettivi elettori. Solamente la faziosità di leader populisti ha potuto portare alla denuncia di quel patto come di un "colpo di Stato", denuncia quindi sottoposta alla magistratura (sfidando il senso del ridicolo). Nella sostanza, insomma, il giudizio su Renzi e Berlusconi, ed i loro rispettivi partiti, sarà commisurato alla loro capacità di tenere fede all'impegno assunto di dare al Paese istituzioni più moderne e funzionanti.
Ma nel patto c'è anche una questione di metodo. L'iniziativa del governo Renzi testimonia che i leader politici non sono necessariamente prigionieri del sistema di veti al cui interno agiscono. Fu un errore assumere, come fece il precedente governo, che il Parlamento può autoriformarsi. Le istituzioni non si cambiano con commissioni di studio, ma con l'iniziativa politica. Anche se certamente quest'ultima (come è avvenuto con il governo Renzi) potrà essere ancora più efficace se sostenuta da alcuni dei risultati di quelle commissioni di studio. Tutte le esperienze di cambiamento istituzionale nelle democrazie sono state l'esito della pressione di attori politici esterni a quelle istituzioni. È bene dunque che il governo Renzi continui ad essere il promotore della riforma, senza subire gli stanchi riti consensuali della politica italiana. Tutti debbono poter contribuire alla discussione, nessuno deve avere però il diritto di veto sulle decisioni che emergono da quella discussione. Il governo deve aprirsi e contemporaneamente andare avanti, proprio perché si è impegnato a dare agli elettori l'ultima parola, convocando un referendum anche se non dovuto. Nello stesso tempo, l'iniziativa del governo sulle riforme istituzionali deve procedere di pari passo con l'iniziativa sulle riforme economiche. La legge delega per la riforma del mercato del lavoro deve essere coerente con l'impegno di aprire quest'ultimo, oltre che di ridurre la precarietà ingiustificata che lo connota. Allo stesso tempo, il governo deve proteggere la sua Legge di stabilità dall'assalto alla diligenza che ha caratterizzato il processo di approvazione delle precedenti leggi finanziarie. La riforma istituzionale e la riforma economica potranno procedere insieme solamente se il governo si dimostrerà in grado di avere l'iniziativa, di tenere il controllo dell'agenda, di opporsi ai particolarismi partitici e funzionali. Occorre cioè prefigurare, attraverso la politica delle riforme, il sistema decisionale che si vuole promuovere in Italia. Il governo deve assumersi le responsabilità delle sue scelte, l'opposizione deve contrapporne altre, gli elettori decideranno sui risultati o non risultati conseguiti. Il sistema politico ed economico vanno semplificati e liberati dai barocchismi che li soffocano. Le regole debbono essere poche e chiare. Soprattutto debbono garantire la competizione in politica e nel mercato. La democrazia muore là dove vi sono monopoli politici ed economici. La lotta ai trusts e ai poteri di veto deve diventare la cifra culturale del riformismo di governo.
il Fatto 13.11.14
Renzi va avanti pure senza il Pd
La minoranza diserta la direzione
Lui va in assemblea e dice: “Non ho bisogno del vostro mandato”
di Wanda Marra
“Per me possiamo votare o no, non cambia niente. Ho già il mandato della direzione”. Matteo Renzi, con mezza battuta, liquida la riunione che ha convocato in fretta e furia, la minoranza dem, e il Pd tutto.
Versione maglioncino, toni bassi, si presenta al Nazareno con un’ora di ritardo, dopo il vertice con Berlusconi. Parla di “tre mesi decisivi”, “i momenti di stretta sui provvedimenti”: la riforma del Senato e il jobs act, da approvare entro dicembre, la legge elettorale entro gennaio. Questa è la road map, che il segretario premier offre, anzi comanda, al partito. Dall’altra parte, la minoranza dem minaccia, annuncia diserzioni rispetto a un voto eventuale, critica e promette barricate. Sul jobs act. Come sull’Italicum 2.0. Armi spuntate, almeno ieri sera, da un voto negato direttamente dai vertici del partito. “Il sistema italicum garantisce sia governabilità che rappresentanza - declama dal palco Renzidiventiamo un partito comunità, che punta a maggioranza e in cui si trova il modo di stare insieme rispettandosi”. Pronto a mediare sul jobs act? È molto fumoso: “L’importante è che le nuove norme entrino in vigore entro il primo gennaio 2015”. Poi, si valuterà se mettere la fiducia.
LE MINORANZE Pd ascoltano, disarmate. Dopo riunioni su riunioni andate avanti per tutto il giorno, stavolta a Matteo Renzi avrebbero voluto mandare un segnale forte e chiaro. A guidare la fronda è Massimo D’Alema che, prontamente in mattinata, fa sapere che non ci sarà in direzione, “causa impegni precedenti”. Si capirà in serata che l’impegno è in un ristorante romano dove si degustano i suoi vini. Polemicamente, si nota il fatto che la riunione è stata convocata all’ultimo momento. Il Lìder Maximo partecipa però alla riunione della minoranza delle 19. Ma, oltre all’ex premier, in serata si siedono allo stesso tavolo esponenti delle principali aree della sinistra Dem: dall’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, al capogruppo alla Camera Roberto Speranza, dal ministro Maurizio Martina a Gianni Cuperlo e Pippo Civati, che passa. Ma partecipa a un’altra, la riunione della mattina, quella del “tutti contro Renzi” (ci sono Francesco Boccia, la bindiana Miotto, Giani Cuperlo, Stefano Fassina, tra gli altri). Dopo una giornata di fibrillazioni, le minoranze decidono di andare e non partecipare al voto (che poi non ci sarà). Spiega Civati: "Personalmente, per non mancare di rispetto al Pd ci sarò per ascoltare il segretario”.
Tiene banco per tutto il pomeriggio la trattativa tra governo e minoranza sul Jobs Act, dove, in commissione Lavoro, quasi tutti i componenti Pd presentano un emendamento che, ripercorrendo quanto deciso nella direzione sulla riforma del lavoro è volto ad “assicurare la garanzia del reintegro nei casi di licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare”. Plasticamente, ci sono due Pd. Per adesso, il Pd non renziano promette una lotta all’ultimo sangue su Italicum e jobs act. Fino a che punto sono disposti a spingere? Non è chiaro, ancora. Ma che si ragioni di scissioni prossime venture non è più un segreto.
I RENZIANI, da un certo punto di vista, si sono già scissi dall’interno. “Non è più tempo di mediare. Adesso noi le riforme le facciamo. E chi ci sta, ci sta”. Reazione a caldo di un fedelissimo all’accordo a metà dopo l’incontro tra Berlusconi e Renzi. Due punti aperti: la soglia di sbarramento (sul 3% Berlusconi non è d’accordo) e il premio alla lista (anche su questo B. non ci sta). Nel frattempo, la minoranza dem grida allo scandalo su un punto di convergenza tra i Nazareni: ovvero, la decisione di 100 collegi, con i capilista bloccati. Troppi posti attribuiti senza voto, protestano. I vertici dem ostentano sicurezza, si appellano al comunicato congiunto. Assicurano che su alcuni punti in Parlamento si voterà a maggioranza, su altri Pd e Forza Italia voteranno insieme. E che gli azzurri non faranno barricate.
Ma il sospetto di tutti lo esprime ad alta voce Fassina: “Qualche dubbio che l’accelerazione sulla legge elettorale serva ad andare al voto ce l’ho”. E in effetti, il piano sembra coerente: dopo l’approvazione delle riforme costituzionali, di quella del lavoro e dell’Italicum, con tutti quelli che ci stanno, Renzi può offrire dei risultati a Napolitano. Il quale, a quel punto, avrebbe un ottimo motivo per sciogliere le Camere: un Parlamento eletto con legge incostituzionale non può eleggere il suo successore.
Repubblica 13.10.14
La minoranza Pd pronta a dire tre no
Vertice con D’Alema-Bersani: ora in trincea contro l’Italicum, Jobs Act e legge di Stabilità Ma il premier vede per un’ora il capogruppo Speranza: “Ho un patto con lui, i giovani sono con me”
di Goffredo De Marchis
ROMA Darsi un’organizzazione per contrastare Matteo Renzi e le sue riforme, dalla legge elettorale al Jobs Act. La minoranza del Pd prova a uscire dalla sindrome Armata Brancaleone, ampiamente dimostrata con i voti in ordine sparso nei gruppi parlamentari, nelle direzioni, e che non hanno fatto altro che rafforzare il premiersegretario. Dunque, una riunione prima della direzione notturna finisce con una decisione univoca: non si deve votare la relazione di Renzi e se si vota bisogna non partecipare. Perché ora è il momento di dire dei “no” solidi: no al nuovo patto del Nazareno, no alla riforma del lavoro, no alla legge di stabilità. Renzi però è convinto di aver già rotto questo fronte sempre fragile. «Ho fatto l’accordo con Orfini», racconta ai suoi collaboratori. Ma questa non è una novità. «E ho stretto un patto con Roberto Speranza », aggiunge il premier. Come dire: la vecchia guardia faccia quello che vuole, il capofila dei giovani all’interno della pattuglia degli oppositori sta dalla mia parte. Questo tassello del puzzle, raccontano a Palazzo Chigi, è stato aggiunto durante un colloquio di un’ora tra Speranza e Renzi, successivo al vertice con Berlusconi. In quel colloquio si è anche deciso di non votare in direzione. Una mano tesa di Renzi a tutti coloro che non vogliono seguire gli oltranzisti della sinistra.
Sono passaggi tuttavia che un pezzo della minoranza dà per scontati. Il capogruppo del Pd alla Camera Speranza viene ormai considerato perso alla causa dell’antirenzismo. Un gruppo di ribelli prova invece a darsi un proprio coordinamento politico e cerca di immaginare i numeri per un’opposizione al governo condotta dentro al Pd. All’ora di pranzo, ieri, si sono visti Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Francesco Boccia, Alfredo D’Attorre e alcuni bindiani. Quante truppe hanno nei due rami del Parlamento è difficile da stabilire, soprattutto perché Renzi ha dimostrato notevoli doti di negoziatore ed è capace di dividere gli avversari. Ma quello che conta, nella composizione del tavolo, sono i nomi che mancano ancora più di quelli presenti. È stata fatta una scrematura rispetto a pontieri, mediatori, ambasciatori che vengono considerati, sostanzialmente, renziani dell’ultima ora o dirigenti che giocano in proprio. «Noi, al contrario, dobbiamo fare squadra — spiega Civati —. Superando le correnti, superando la vecchia guardia e facendo le battaglie sui contenuti dei provvedimenti non sulle appartenenze ». Quindi accanto agli esponenti della sinistra Pd siedono adesso anche ex democristiani come Bindi o ex prodiani come Boccia.
Questa struttura che cerca di scrollarsi di dosso l’ombra dei “vecchi” invera l’incubo di Renzi e dei suoi fedelissimi a cominciare da Luca Lotti: un Vietnam parlamentare guidato dalla vera opposizione, quella del Pd. E lo convince a rimanere agganciato a Silvio Berlusconi, in funzione di contrappeso. Però la minoranza può farsi del male da sola. Renzi infatti ha sottolineato con soddisfazione la presenza di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema alla riunione allargata della sinistra democratica. Come se la loro presenza indebolisse da sola le sfide dei ribelli. Sia l’ex segretario sia l’ex premier sono andati all’attacco di Renzi, sconfessando in blocco la legge elettorale e rifiutando il compromesso delle preferenze con i capolista bloccati. Il sospetto rimane sempre lo stesso: che l’inquilino di Palazzo Chigi sia intenzionato ad andare a votare in primavera.
Il banco di prova sulla tenuta del Pd e del gruppo parlamentare di Montecitorio si avrà nelle prossime ore. Sul Jobs Act, all’esame della commissione Lavoro, i mediatori propongono un emendamento per salvare nell’articolo 18 i licenziamenti disciplinari. Sarebbe un passo avanti. Ma il premier si fida poco. E anche ieri in direzione ha fatto capire di avere in serbo l’arma della fiducia. «Si può chiudere rapidamente con due alternative: procedere con la fiducia o garantire l’entrata in vigore dal primo gennaio anche con modifiche da verificare ».
Corriere 13.11.14
Minoranza in rivolta, attacco sui «nominati»
Anche D’Alema alla «riunione unitaria» della sinistra. E sul Jobs act 550 emendamenti
di Monica Guerzoni
ROMA «Un Parlamento di nominati è inaccettabile, un punto imprescindibile...». Tra la buvette e il Transatlantico di Montecitorio, Bersani non si stanca di declinare i suoi no alle scelte di Renzi, dando corpo e voce allo stato d’animo della minoranza: «Il premier deve sciogliere l’ambiguità, deve spiegarci l’incoerenza. Perché acceleri sulla legge elettorale, se non vuoi andare a votare?».
L’opposizione si è ormai convinta che la corsa sull’Italicum abbia un solo obbiettivo, le urne. Per questo alza i toni e avrebbe alzato fisicamente i tacchi, in direzione, se il segretario-premier avesse chiesto un voto sulla sua relazione.
In vista della convention dei bersaniani sabato a Milano, la sinistra prova a unire le forze. Le diverse anime critiche coordinano ogni mossa e ieri sera anche Massimo D’Alema ha partecipato al vertice che ha preceduto la riunione del parlamentino del Pd (dove però l’ex premier non si è fatto vedere, per impegni precedenti). Alle sette di sera, alla Camera, gli oppositori di Renzi ci sono tutti. Ecco Bersani, D’Alema, Fassina, Damiano, Epifani, Cuperlo, Speranza, D’Attorre, Zoggia... Bindi è impegnata all’Antimafia, ma è come se ci fosse. «Riunione unitaria», sottolineano i partecipanti e concordano la linea. «Se Renzi ci chiede di votare un documento noi ci alziamo e ce ne andiamo», spiega Zoggia. E D’Attorre: «La direzione non può essere il luogo dove si ratificano gli accordi fatti con Berlusconi». Questione di metodo, a cui Renzi risponde con un secco: «Non credo di aver bisogno di un mandato esplicito della direzione».
Il dissenso è a tutto campo, dalla legge elettorale al Jobs act, alla politica economica. Stefano Fassina teorizza l’uscita dall’euro? E Bersani, che pure non è d’accordo, lo difende: «È una posizione paradossale, che non va banalizzata». L’ala civatiana ha voluto rendere ancor più evidente lo smarcamento disertando la direzione «last minute». Alle dieci di sera Pippo Civati sale al Nazareno, ma i suoi delegati, una ventina, restano a casa e annunciano lo strappo criticando lo «scarso preavviso della convocazione» e ironizzando sul patto del Nazareno: «Facciamo tanti auguri a Renzi per gli incontri, sicuramente molto più approfonditi, che dedica a Berlusconi e Verdini».
C’è chi diserta e chi si fa sentire. Fassina chiede «correzioni profonde» alla delega del lavoro e la possibilità, per i cittadini, di scegliere «tutti i parlamentari». I renziani attaccano. Ma Bersani, contro i cento capilista bloccati, è categorico: «Perché dobbiamo andare avanti con i nominati?». Eppure, sul punto cruciale della delega del lavoro, cerca la chiave per conciliare «il dissenso di merito e la lealtà al Pd». E se il governo porrà la fiducia? «Non voglio crederlo».
Sul Jobs act piovono emendamenti: 15 su 550 portano le firme dell’ala sinistra, che chiede paletti anche su demansionamento, voucher e controlli a distanza e non vogliono votare il testo del Senato, quello che cambia lo Statuto dei lavoratori. «Aver messo al centro il tema dell’articolo 18 è stato un errore», attacca Bersani. «Vogliamo correzioni profonde», gli fa eco Fassina. Per scongiurare la fiducia si cerca una mediazione sul reintegro in caso di licenziamento disciplinare ingiusto, oggetto di uno degli emendamenti della minoranza «dem».
Corriere 13.11.14
Quel capannello targato Pds
In Transatlantico
di Monica Guerzoni
Metti un pomeriggio a Montecitorio tra vecchi compagni di partito.
Nel bel mezzo del Transatlantico se ne stavano ieri il leader di Sel Nichi Vendola, l’ex ministro Fabio Mussi, l’onorevole Giorgio Airaudo e l’ex viceministro Stefano Fassina, intenti a commentare l’incontro in corso tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
«Che cos’è, una riunione del Pds?» scherza un giornalista di lungo corso, colpito dal gruppetto che ricorda la vecchia Quercia. E Pippo Civati, che si ferma a far capannello: «Pds, sì... E non vi sfugga che la lettera più importante
è la “s” di sinistra».
Repubblica 13.11.14
L’intervista. Pippo Civati
“Sinistra schiacciata, Matteo punta al partito unico di centro”
di Tommaso Ciriaco
ROMA Pippo Civati mette piede in direzione già sconsolato. «La situazione è al limite, stiamo correndo su un filo sempre più sottile». Dalla riunione spedisce sms amari: «Renzi sta dicendo di sé quello che diceva di Letta...». E ancora: «A parole inizia a preoccuparsi della spaccatura ». Si discute di legge elettorale, intanto. E il deputato punta a salvare il salvabile. «Fossimo fuori dal patto del Nazareno, ci sarebbe il Mattarellum. Ma siccome siamo in questo schema, vogliamo capire se è possibile ridurre i danni. Partendo dalla possibilità per i cittadini di scegliere gli eletti, con le preferenze o i collegi».
Ma lei quando decide se restare nel Pd, Civati? Un paio di settimane fa aveva detto: “Entro un mese”.
«Per me la chiarezza va fatta innanzitutto con gli altri che sono a disagio. Ci stiamo confrontando e questo è molto positivo. Oggi sono passato per un saluto alla riunione con Bersani e D’Alema. Vedremo se uno sarà costretto ad andare via per costruire un progetto più ampio, oppure se sarà possibile restare nel Pd, ma con un’agibilità».
Da cosa dipende?
«Sarà possibile discutere, oltre a dover assistere al solito spettacolo? Voglio capire se il Pd è considerato un luogo di confronto, oppure se il nostro spazio si perde nel flusso renziano... Sa, con Renzi non è facile: banalizza le tue proposte, oppure le assume senza riconoscerne la paternità. Dai prossimi passaggi - legge elettorale, riforme, Jobs act, manovra si capirà tutto. Certo, se passa il progetto del partito unico di centro, la risposta su cosa faremo purtroppo già c’è...».
Il partito unico di centro?
«L’Italicum rischia di diventare l’unicum: così nasce il partito unico di centro, una grande forza che domina il sistema. Attorno c’è una destra anti-euro e antitutto. E una sinistra che viene schiacciata e rinuncia ai tratti riformisti».
Pessimista.
«Ecco il quadro: Renzi in mezzo diventa un leader nazional popolare, senza ideologie, che picchia sempre più spesso sulla sinistra. È un crescendo contro i sindacati, gli intellettuali, la vecchia guardia. Un continuo martellare».
Per lei il Pd sta sparendo a causa di Renzi?
«Io sostenevo che le larghe intese ci avrebbero portato fin qui. E infatti si parla di alleanza con Ncd alle Regionali... Pian piano la differenza tra destra e sinistra non c’è più».
Il patto del Nazareno, intanto, regge alla grande.
«Non mi sorprende. D’altra parte il Nazareno è... eterno. Non c’era motivo di pensare che questa intesa non continuasse, nonostante i distinguo. Crollerebbe tutto, altrimenti. Berlusconi fa sponda a Renzi e si vede in mille occasioni: non ricostruisce il centrodestra e si mostra molto più disponibile del passato a mantenere gli accordi».
Potesse modificare l’accordo sulla legge elettorale, cosa cambierebbe?
«Sono liste bloccate, si tratta di fatto di un’elezione indiretta. Senza contare che un capolista può esserlo in dieci collegi: così, alla fine, la segreteria di partito può decidere anche per i secondi classificati ».
A proposito: sul Jobs act la strada resta sbagliata?
«Sì. Se si continua così, alla Camera il dissenso crescerà».
Repubblica 13.11.14
Sempre daccapo
di Alessandra Longo
HA UN senso il dialogo tra credenti e non credenti? Per Fausto Bertinotti, già affascinato da Giovanni Paolo II e ora ancor di più da papa Francesco, il confronto tra menti libere è addittura necessario soprattutto su terreni di lotta comune come le ingiustizie sociali e la difesa della persona umana. «Sempre Daccapo» (Marcianum Press) è l’ultimo libro dell’ex leader di Rifondazione. Una conversazione con Roberto Donadoni e la prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi. Il presidente del Ponticio Consiglio della Cultura si rivela un grande ammiratore di Bertinotti, ritenuto «un appassionato lettore delle Scritture cristiane e dei testi del magistero ecclesiale» («Parlare con lui è come guardare il flusso dell’Etna...»). Una citazione paolina, usata nel libro, quasi con intento testamentario, emoziona il cardinale: «Ho terminato la corsa, ho conservato la fede».
La Stampa 13.11.14
Il dubbio di Fassina:
“C’è aria di elezioni”
di Carlo Bertini
Ci sono i venti civatiani che non vanno in Direzione perché avvisati troppo tardi, c’è Civati che va e provoca Renzi, «faccia venire in Direzione Berlusconi e Verdini». Ci sono i bersaniani che per tutto il giorno si arrovellano se sia meglio andare e votare contro o uscire dalla sala al momento del voto, «perché un’astensione non verrebbe capita», dice Davide Zoggia. Ci sono i dalemiani che vanno, mentre D’Alema non rinuncia a un impegno enogastronomico e diserta la Direzione. Ha buon gioco il renziano Andrea Marcucci a sfottere evocando il morettiano dilemma, «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo affatto?». È una delle riunioni di svolta, dove Renzi deve dimostrare a Berlusconi di essere quello che controlla davvero il suo partito, che chiama all’appello perfino gli eurodeputati, ma alla fine accetta la richiesta di evitare la conta interna. La minoranza fino a mezz’ora prima della riunione non sa come regolarsi. «Va trovata la chiave, la misura per mostrare lealtà alla ditta e dissenso nel merito», si imbarazza non a caso Bersani quando gli si chiede cosa farà al momento del voto in aula sul Jobs Act. Dove i dissidenti Pd voteranno sì se verranno recepite le richieste sull’articolo 18, le stesse su cui avevano votato contro in Direzione a fine settembre.
Per decidere la linea un affollato vertice pre-Direzione. Nella sala Berlinguer al secondo piano “dei gruppi” arrivano Bersani e D’Alema, il ministro Martina e Nico Stumpo, ma anche Cuperlo e Civati: tutte le tribù si riuniscono alla ricerca di un fronte comune. Si discetta per un’ora e alla fine la linea unitaria è: si va, si parla e non si vota. Lo schema del nuovo Italicum in realtà non dispiace alla minoranza Pd, che però solleva le barricate sui parlamentari nominati, «no ai 100 capilista bloccati», alza la diga la sinistra.
Ci pensa Stefano Fassina a dare corpo al dubbio che «l’accelerazione sull’Italicum - anche leggendo la legge di stabilità - serva ad andare a votare». Ed ecco le ragioni del dissenso: «Sulla legge elettorale chiediamo vi sia la scelta dei cittadini di eleggere tutti i deputati». Quindi, no ai nominati con i capilista bloccati. «E sul lavoro bisogna correggere la delega che aggrava la precarietà». Tradotto, ci vogliono più soldi per i disoccupati e va messo nero su bianco che la tutela dell’articolo 18 vale per i licenziamenti disciplinari.
il Fatto 13.11.14
Vannino Chiti E sul Senato sarà battaglia
“Matteo non può fare l’Italicum solo con B.”
di Gianluca Roselli
“Sulla legge elettorale ci sono luci e ombre. Matteo Renzi fa bene a cercare l’intesa con l’opposizione. Ma non bisogna dare l’idea di deciderla solo con Forza Italia”. Vannino Chiti, uno dei senatori ribelli del Pd in prima fila contro la riforma costituzionale, è pronto a dare battaglia anche sul sistema di voto. Ma la sua preoccupazione maggiore resta la legge costituzionale ferma alla Camera. “Io sul Senato elettivo non mollo”, avverte.
Senatore Chiti, come giudica l’ipotesi di legge elettorale in discussione tra Renzi e Berlusconi?
Apprezzo la soglia di sbarramento unica, spero bassa, e il premio di maggioranza che scatta oltre il 40 per cento. In questo modo si garantisce rappresentatività e governabilità. Poi però mancano le preferenze. Le vorrei almeno per il 75 per cento degli eletti. Inoltre vanno tolte le pluricandidature. Come dice il professor Ainis, un candidato deve presentarsi in un solo collegio, altrimenti viene meno il rapporto con il territorio. E non è così che la politica riacquista fiducia agli occhi dei cittadini.
Secondo lei l’accelerazione sulla legge elettorale significa che Renzi vuole andare presto alle urne?
La riforma non è per forza il grimaldello per andare al voto. Si andrà alle urne quando in Parlamento non ci sarà più una maggioranza. Chi pensa il contrario deve stare attento a non scherzare col fuoco, perché la situazione economica e occupazionale è grave e ci vuole prudenza.
Renzi sul sistema di voto sembra procedere come sulla riforma costituzionale: prima mi accordo con Berlusconi e poi con gli altri.
Sarebbe un grave errore. Su questi temi il governo deve confrontarsi con tutte le opposizioni. Il rapporto con Forza Italia è importante, ma non deve essere esclusivo. In Parlamento ci sarà spazio per discutere anche con Sel e 5 Stelle.
La scorsa estate lei è stato uno dei più battaglieri contro la riforma costituzionale.
E non sono affatto pentito. Anzi, sono pronto a continuare la mia battaglia per evitare che l’elezione dei senatori diventi una mostruosità come il sistema che abbiamo visto per le Province. Un vero obbrobrio. La mia proposta era eleggere i senatori contestualmente al voto regionale. Se non sarà possibile, ne ho altre.
Ovvero?
Legare il numero dei senatori alle percentuali prese dai partiti alle Regionali al netto del premio di maggioranza; gruppi in Senato su base territoriale; la Camera che può modificare le leggi che escono da Palazzo Madama solo se si arriva alla stessa percentuale. Altrimenti il Senato diventa un semplice “parerificio” senza alcun potere. Poi occorre diminuire il numero dei deputati e cambiare il sistema delle immunità.
Il testo sulle riforme ora è arenato alla Camera.
A Montecitorio dovrà essere modificato. Altrimenti ci penseremo noi quando tornerà in Senato. Come le ho detto, sul Senato elettivo non mi arrendo.
La minoranza del Pd, dal Jobs act alla legge elettorale, ha ridato segnali di vita. Lei ci s'iscriverebbe?
Io non mi muovo su logiche correntizie, ma faccio battaglie sui contenuti. Detto questo, una minoranza forte e organizzata farebbe bene al Pd. Invece, forse per scarsa generosità dei protagonisti, è divisa e va in ordine sparso. Ma ci sono tanti elettori del Pd che non si riconoscono in Renzi e vorrebbero avere un punto di riferimento alternativo.
Nel frattempo si è aperta la partita anche per il presidente della Repubblica.
Il toto nomi che sento in questi giorni mi sembra irrispettoso per Napolitano, che è ancora in carica e non ha ancora ufficialmente annunciato di voler lasciare.
La Stampa 13.11.14
E D’Alema preferisce il suo vino: il “rosso” che non lo tradisce
L’ex premier sottolinea i pregi dell’“invecchiamento”
di Mattia Feltri
Anche qui si è presa una direzione, e decisamente più piacevole: aperitivo con rosé frizzante e resto della serata con Sfide e Pinot nero, bicchieri di rosso che sono passati sopra un menù di tartare di manzo, ravioli di carne e stracotto.
Su quest’ultimo piatto, Matteo Renzi ci avrebbe fatto della feroce ironia, visto che il grande protagonista della serata è stato Massimo D’Alema: perché incupirsi in Direzione - in questo caso con la d maiuscola - se la vita riserva nuove occasioni di trionfo?
Diluvia a Roma, via Boito, ristorante Mamma Angelina: qui ieri sera l’ex premier ha organizzato - da qualche settimana, quindi da tempi non sospetti - la sua serata di gloria enologica.
Poco meno di un centinaio di amici, ristoratori, esperti, stampa specializzata e tre o quattro parlamentari (Luca Sani e Cristina Bargero) come lui più interessati ai retrogusti che ai retroscena. In fondo D’Alema è ormai un politico a tempo perso, sebbene conservi il cattivo umore di sempre.
A fine agosto, per esempio, era finalmente una pasqua sulla piazza di Otricoli, borgo umbro sulle sponde del Tevere, col suo banchetto per la sagra VinOtricolando, e le bottiglie in vendita. «Massimo, il frizzantino è buonissimo» gli dicevano i paesani con meritata familiarità. Niente acidità di stomaco, prodotta dal riflettere e discutere del giovane usurpatore fiorentino. Certo, fa un pochino impressione che D’Alema diserti proprio l’occasione ufficiale per dire al presidente del Consiglio, e dirglielo in faccia, tutto quello che pensa di lui. Ma ormai il pallino del produttore lo ha preso quantomeno per maggior soddisfazione. Gli capita persino di scaricare le cassette d’uva, dice con goduria da riscoperta della fatica da peone. Il suo vino, prodotto con una certa serietà, a decine di migliaia di bottiglie, va giù che è uno spettacolo, dicono i commensali rapiti e morbidosi. La segretissima cena è stata messa in piedi con la speranza di piazzare il prodotto in qualche ristorante, ma non soltanto: lui vorrebbe varcare le frontiere, se non più per i tavoli delle trattative senz’altro per quelli del rifocillarsi. Ieri sera si è alzato e - mentre all’altro capo della città Renzi si saziava di potere - ha parlato di solfiti e sapori tannici e soprattutto di invecchiamento, settore in cui è ancora un pregio.
Ecco, gli applausi li ha avuti anche lui, nonostante abbia chiuso il discorso di apertura, prima di darci dentro con le forchette, con uno splendido «A noi». Gastronomicamente parlando.
La Stampa 13.11.14
I «Professoroni» contro il governo
di David Allegranti
«Riforme contro la Costituzione?». Quantomeno ci hanno messo un punto interrogativo, quelli della sinistra radical, che dopo essere scesi in piazza contro il berlusconismo adesso organizzano manifestazioni contro il renzismo. «Il governo Renzi si rappresenta come promotore di riforme. La Costituzione dovrebbe essere l’architrave che le sorregge, ma si può temere che varie riforme volute dal governo producano distorsioni incisive dell’assetto costituzionale», si legge nel volantino che pubblicizza l’incontro. Sabato 18 novembre, alle 15, a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, torna il vecchio partito dei professori. Con Francesco Pancho Pardi, Piercamillo Davigo, Salvatore Settis e Anna Marson, a parlare di riforme e dintorni, dalla legge elettorale a quella urbanistica. Special guest, Pippo Civati. Capo della sinistra antirenzista.
Corriere 13.11.14
Il nuovo linguaggio che divide la sinistra
di Massimo Nava
L’effetto più evidente di polemiche e contrapposizioni fra Matteo Renzi e la coppia sindacale Landini-Camusso, è di avere aperto negli ambiti più diversi — partito, sindacato, elettori Pd, intellettuali, giornali — una riflessione su che cosa sia oggi la sinistra, o meglio, su che cosa voglia dire fare (o poter fare) cose di sinistra, rispetto alla crisi del Paese e in rapporto al quadro di trattati e politiche europee.
Se l’effetto fosse solo questo, la riflessione, per quanto lacerante, si potrebbe rivelare utile, sia per il governo che deve prendere decisioni continuando a dichiararsi «di sinistra» e appartenente alla grande famiglia riformista, sia per il sindacato e per la minoranza pd che intravedono nella scelte del presidente Renzi una sorta di diluizione di ideali e soprattutto troppe dimenticanze sui bisogni dei ceti più deboli.
Ciò che si vede meno e che rischia di avere effetti più sgradevoli, non solo per la sinistra, è una sorta di strisciante rivoluzione del linguaggio con cui si tendono a definire valori, categorie sociali, classi di età, diritti. Il nuovo linguaggio divide con una certa interessata disinvoltura ciò che è sinonimo di giovane o di vecchio, di moderno o di antico, di conservatore o progressista. Lentamente, si tende a condizionare la morale corrente, definendo anche ciò che è buono, onesto, utile per il Paese.
Giustamente, come ha detto ironicamente Renzi, a nessuno verrebbe in mente di infilare un gettone nell’iPhone, ma possiamo provare a definire un po’ più nel merito il concetto di modernità? È di sicuro moderna una politica che informatizzi la burocrazia, diffonda la banda larga, semplifichi la fiscalità, riformi istituzioni obsolete come il Senato. Ma è sinonimo di modernità ridurre diritti conquistati in decenni, tagliare pensioni finanziate con i contributi, tassare fondi alimentati dai risparmi e, in ultima analisi, definire il tutto come sacrificio «necessario» e la critica come una difesa del «privilegio»?
Ha senso alimentare, anziché la solidarietà fra generazioni, una sorta di conflitto generazionale che ha per conseguenza, praticamente in ogni ambito sociale e di lavoro un’esaltazione del giovane (che per forza è quindi anche «moderno») rispetto alla inutilità dell’esperienza e alla necessaria rottamazione di ogni forma di vecchiaia?
È possibile, poiché potrebbe essere considerata un’operazione di modernità, che di questo passo si passi all’attacco della sanità pubblica, confondendo sacrosante esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa con l’erogazione di servizi e diritti.
Già si sente teorizzare il concetto di vecchiaia come «costo sociale»: ne consegue che l’allungamento della vita non è una conquista moderna della medicina e del progresso, bensì un privilegio dell’Occidente e dei ceti più benestanti che potranno permettersi cure private e pensioni elevate.
Esempi del genere si potrebbero fare anche guardando all’Europa. Anche un bambino, che normalmente non ha una grande padronanza del linguaggio, oggi comprende che le parole usate per definire le politiche europee di questi anni raccontano un’Europa che esiste soltanto nella fantasia dei dépliant o nella testa di alcuni burocrati, per lo più residenti a Berlino e Bruxelles.
Con il termine «austerità» si sono autorizzate e imposte le politiche più rovinose e sciagurate, salvo poi esaltare in corsa la «crescita» che non c’è e non potrà mai esserci con queste politiche monetarie, con queste regole, con questa «modernità» di un’Europa che appare invece molto più vecchia, finendo oggi per assomigliare a quella degli Stati nazionali in conflitto, dei potentati finanziari, delle mire espansionistiche e di dominio del Paese più forte. Esempi di stravolgimento del significato delle parole, meno comprensibili ai più, ma ben noti a tecnici e addetti ai lavori, si potrebbero fare quando vengono definiti Paesi «virtuosi» quelli che hanno imposto lacrime e sangue ai cittadini senza essere usciti dalla crisi e aggravando il proprio debito pubblico. Oppure quando si prendono per oro colato le valutazioni delle agenzie di rating, ossia la «moderna» versione degli editti imperiali o delle bolle papali cui sono obbligati a uniformarsi le comunità, i fedeli, i sudditi.
Può sembrare banale l’auspicio a chiamare le cose con il loro nome e a dare alle parole il loro corretto significato. Di certo, continuando a fare confusione, si rischiano soltanto contrapposizioni sterili, con il risultato che nessuno comprenda (e tantomeno condivida) il significato della parola cambiamento.
Corriere 13.11.14
Gli scontri alla periferia di Roma
Nei due fortini di Tor Sapienza «Qui non si cade, si mena e basta»
di Goffredo Buccini
Pochi denti in bocca e molta rabbia in testa, lo stigma dell’eroina e della miseria. «Ci sarà una grande pulizia, vedrai!», giurano i vecchi di Tor Sapienza, quelli entrati nelle prime case Ater trent’anni fa — una specie di nobiltà locale —, seduti sul muretto dietro al Lory Bar, che è il quartier generale di questo caos: «I neri protetti dal Vaticano e dai comunisti devono anna’ affa...», sibilano.
Terza sera di paura, dopo botte e bombe carta, cortei e sassaiole: ora però ci sono molti blindati, tanti poliziotti, tute antisommossa. Bianchi e neri sono pronti a scannarsi come in una banlieue, come a Soweto, in questa periferia est di Roma. Il civico 142 di viale Morandi è un falansterio di degrado popolato da 500 famiglie, un circolo di otto piani di cemento con quattro pini piantati in mezzo, romeni abusivi subentrati nei sottoscala a 300 euro al mese, vecchi negozi occupati dai rom. «Non ho più il mio metro quadrato per respirare», ghigna Gino, e giura che negli anni Ottanta «qua era un paradiso, prima che venisse ’sta gente».
Le spedizioni degli incappucciati sono partite da qui, dai giardinetti, strillando «viva il Duce!», agitando mazze, confuse dentro i cortei di protesta degli abitanti. Bilancio: quattordici feriti, tra cui molti poliziotti e un cameraman di Raidue. Davanti alla scala DD (ogni civico ha lettere e sottolettere) c’è ancora qualche macchia di sangue di martedì.
I «nemici» sono dall’altra parte di viale Morandi, al civico 153 e seguenti, in un altro casermone, dipinto fresco di arancione: 430 metri quadrati per sette piani più due di seminterrato. Proprio di fronte, stanno. E dalle finestre guardano spaventati, in realtà non hanno gran voglia di combattere, anche se si preparano a barricare di nuovo l’ingresso contro i tentativi di irruzione. Sono ospiti della onlus «Un sorriso», che impiega una quarantina di operatori al centro d’accoglienza. I ragazzi hanno faccette implumi ma già segnate anche loro. Vengono da dove si combatte sul serio, Libia, Siria, Egitto. In tutto trentasei minorenni, per legge sotto la tutela del sindaco Marino. E trentasei adulti rifugiati. Parlano a fatica: «Sono scappato dalla guerra e ho trovato un’altra guerra», «ho più paura di prima», «meglio che morivo a casa mia».
Uno di loro, un bengalese, dimostrerà dieci anni ma ne ha quattordici, è stato preso a bastonate in testa l’altro giorno al parco. Il parco Barone Rampante è un posto sconsigliabile. I romeni ci si sono accampati e lunedì uno di loro avrebbe infastidito una ragazza romana con la coda di capelli bionda e un pitbull al guinzaglio. Quando si usa troppo la locuzione «uno di loro» significa che le cose si mettono male. Ora tutti dicono «tentato stupro», ma non c’è denuncia. La scintilla è stata quella. Il romeno è stato pestato, ma poche ore dopo è partito il primo assalto alla onlus. Negli scontri, anche la ragazza con la coda bionda ha preso un paio di manganellate.
Qua tutti menano tutti, è la legge di questo inferno che ha venti identiche succursali tutt’attorno alla periferia romana, venti focolai in attesa.
Un mese fa toccò a Corcolle. Tra un mese magari sarà la volta di Ponte Mammolo o della Romanina. La tensione gira come una pallina di roulette, il copione non cambia, quelli che soffiano sul fuoco fanno la fila. Lunedì e martedì la polizia ha individuato tra i picchiatori noti fascisti e ultrà. Ieri, rispondendo all’appello «di solidarietà» diffuso dalla onlus, sono apparsi antagonisti e vecchi militanti di Action. L’incendiario leghista Salvini, che pure ha annunciato la sua venuta, stavolta arriverà buon ultimo. Molto atteso sarebbe Ignazio Marino, che tra le grane della sua Panda Rossa ha trovato il tempo per incontrare in Campidoglio alcuni residenti. Ed è certo ingeneroso prendersela con lui, fresco arrivato. Tuttavia un suo comunicato che promette di «individuare soluzioni condivise», «una presa di distanza dagli episodi di violenza» e una visita «a breve», suona inadeguato se non grottesco.
«Qua è ‘na tragedia», inquadra la situazione Gabriella Errico, presidentessa della cooperativa che gestisce il centro d’accoglienza, «l’altra sera hanno tirato sedici bombe carta. Ma, vede, noi non ce ne possiamo andare. Come dicono i colleghi delle altre cooperative, poi si sposterebbero alla Prenestina, all’Ardeatina...», come la pallina della roulette appunto. Gli ospiti del centro sono accusati di furti, provocazioni, persino di cambiarsi nudi alla finestra.
Francesca, dirigente della struttura, calabrese, sospira: «La verità? I ragazzini sono quasi ingestibili. Vengono qui direttamente dallo sbarco. Su di loro devi partire da zero... avessimo cinque anni di tempo! Nessuno ruba. Ma qui si aggiunge disagio a disagio». Accanto, due dei più giovani si azzuffano. Gabriella Errico sospira: «Giocano, sono esuberanti. Sa, gli egiziani?».
In questa storia non si vedono ragioni, tutto sembra un torto. Persino le dimensioni del centro «Un sorriso», quasi quattromila metri quadrati per una settantina di rifugiati a 25 mila euro al mese di affitto pagati da Europa, Stato italiano e Comune di Roma. Certi spazi fanno gola in un quartiere dove prima si occupa e poi si dice buongiorno. «Ma questa è la sede della cooperativa sociale, non c’è solo l’accoglienza», spiega ancora Francesca. Di sicuro il centro attira molta polizia e la cosa non può far piacere ai padroncini dello spaccio locale: anche qualcuno di loro era in mezzo ai tafferugli.
Dalla trincea del Lory Bar, Marina dice che «no! Noi non difendiamo gli spacciatori». Ha una faccia patita per i suoi trent’anni, un cappuccio di lana in testa e, attorno, il gruppo dei vecchi tossici. Qui è nata, sua madre c’è venuta nel ‘78. Ammette: «Sì, l’altra sera c’eravamo noi. Ma abbiamo fatto un’ istigazione ». Cioè? «Ha presente nel Sessantotto quando c’erano i comunisti? Uguale a loro. Abbiamo fatto un’istigazione per farci vedere! Io nun so’ razzista. Negro non lo dico a nessuno perché è una diffamazione. Ma, scusi, se nel suo quartiere le arriva gente così lei che fa?». Un’istigazione? «No, nooo! Una rivoluzione!».
Sotto la pioggerella della sera, un cinquantenne congolese si accascia sul marciapiede della onlus, un taglio in fronte, chiedendo aiuto. Capannelli, polizia, ambulanza. Forse è caduto? Una vocina da dietro risponde: «Qua nun cade nessuno, qua se mena e basta».
il Fatto 13.11.14
Tor Sapienza. Caccia al negro
di Antonello Caporale
ROMA EST. NOTTE DI GUERRIGLIA, ESASPERAZIONE E VIOLENZA PER IL CENTRO MIGRANTI. NERVI TESI
Roma “Te venimo a prenne, nun te preoccupà che entramo e ve svotamo”. C’è una frenesia di botte, di spranghe e mortai di varia intensità nel corpo a corpo di TorSapienza, lungo i metri che separano i due muri di viale Giorgio Morandi, nel rettilineo di periferia che conduce dritti all’inferno. Nel primo blocco di case popolari, un serpentone appena più gentile di quello famoso, sono ospitati i romani residenti e acquisiti. Brava gente, famiglie di lavoratori insieme a teste calde di varia umanità e provenienza. Nel muro opposto, dentro stanze che oramai sono gabbie, resistono asserragliati nel centro di accoglienza una cinquantina di immigrati, il cui destino è però segnato. Dovranno sloggiare presto da qui. O ci pensa la polizia oppure provvedono loro, gli amici di Luciano, una lieve balbuzie, l’animo semplice e tanta voglia di farla finita con gli intrusi: “Nun ce l’ho con i negri ma con gli arabi. Gli arabi fanno schifo, sono stronzi, come pure i rumeni e questi sono arabi e li dovemo caccià”.
Borgata da 16 mila anime
Tor Sapienza conta 16 mila abitanti, è la borgata romana con più ordine apparente, resiste una geometria urbana, un decoro e una mitezza dei colori e degli alloggi tra la via Prenestina e la Collatina, a est di Roma. Trent’anni fa, il Campidoglio decise di posizionare un torrione di case popolari ai margini del quartiere. “Aveva ordine e gradevolezza, tanto che comprai casa lì vicino in unacooperativa”, diceGiuliano, 64 anni, pensionato. “Oggi però è l’inferno. È una rabbia sorda che monta, un’intolleranza che prende piede e ogni giorno si fa più dura. I miei figli mi supplicano di vender casa e trasferirmi in un luogo più tranquillo”. L’ordine era già da tempo divenuto disordine, con una delinquenza organizzata al dettaglio, una piazza speciale nello spaccio di droga, traffici di crimini comuni, un’area eletta per i transessuali e il sesso en plein air. La politica ha fatto il resto e ha trasformato Tor Sapienza, già piegata e depauperata dalla crisi, in una discarica umana. Qui dietro i rom, nel campo selvaggio di via Salviotti, qui davanti gli immigrati. Perfino il costruttore Caltagirone si è arreso all’evidenza e ha lasciato i suoi palazzi con lo scheletro a vista, senza tompagnature per paura delle occupazioni abusive. Cemento issato e invenduto. Meglio fuggire da qui. E dunque sono rimasti solo i nuovi poveri contro questi diseredati, nel più classico e conosciuto revival della disperazione. E le spranghe da due giorni sono iniziate a farsi sentire. Luciana, del comitato di quartiere: “Ci pisciano addosso, fannoladoccianudi”. Roberto, disoccupato: “M’hanno tirato un posacenere”. Carla, in auto: “Li dovete menà”. Roberto: “La situazione è insostenibile”. Signora in pantofole: “La nostra delinquenza ha rispettato ogni abitante di questo quartiere. Invece quelli... ”. Ecco il punto. Lo spacciatore riconosce i condomini e non reca fastidio, il ladro ruba altrove, il cattivo resta quieto in casa sua. Invece il piccolo barcone di Lampedusa che alla fine ha attraccato qui ha rotto ogni equilibrio e spaventato, fatto incazzare tutti per una serie di ragioni. Roberto: “Io sono disoccupato e m’arangio, loro prendono trenta euro al giorno”. Luciana: “Io so quaranta euri”. “Abbiamo le prove”. I soldi che lo Stato spende per il mantenimento provvisorio di questa disperazione umana sono stati visti come un affronto, un gesto offensivo, una incredibile provocazione. Facilissimo alimentare questa nube tossica con altro veleno, e testimoniare l’urgenza di darsi da fare con le proprie mani. Casa Pound ha una cellula attiva a Tor Cervara, due passi da Tor Sapienza, Giulio ha visto l’altra sera, negli scontri tra polizia e manifestanti, saluti romani. “Gridano viva il duce, c’è puzza di fascismo lunga un chilometro in questa protesta. E dentro ci sono pure gli ultras dello stadio. Quelli vedono botte e accorrono”. Luciana: “Non ti permettere di scrivere che siamo fascisti. Noi siamo gente che vuole vivere in tranquillità. Hai sentito di quella ragazza violentata da un immigrato? È stata violentata e poi anche manganellata dalla polizia”.
La passerella dei fascio-leghisti
Botte a non finire due sere fa, la polizia che qui ha steso un cordone di protezione, ha usato i manganelli per resistere alle bombe carta e far fronte agli animi bellicosi, ai pugni mostrati, alle lame dei coltelli”. Ma era solo il primo round. Ieri sera un immigrato è stato preso a botte. Uno a caso, tanto per far capire qual’è la musica. Questi corpi di cemento armato ospiteranno presto il promo di ciò che prevedibilmente interesserà le altre periferie d’Italia. Il sindaco Ignazio Marino verrà nei prossimi giorni, dopo un Consiglio comunale straordinario sulla sicurezza. Ma non esiste la politica nazionale, nessuno si avventura quaggiù. Il premier Renzi tace. L’unica stella che fa capolino è quella di Matteo Salvini che in joint venture con Casa Pound monopolizza temi e simpatie, distribuisce parole d’ordine, accumula slogan e per adesso intenzioni di voto. “Tor Sapienza ha bisogno di noi. Il 23 novembre sarò lì”, ha subito dichiarato. Prima di lui ci sarà già passato il solito Borghezio (domani). Sarà una marcia trionfale e anche il clou di una ribellione di massa, la miccia sul fuoco c’è e il quadrante di Roma attraversato dalla linea ad alta velocità è solo in attesa di mostrare dove la collera può portare e quale dono abbia fatto la crisi economica. Un mese fa un gruppo di abitanti di Corcolle, al di là della linea ferroviaria, avevano preso a sassate i rifugiati africani. Qui hanno alzato il livello e hanno dissotterrato le bombe carta, modelli guerreschi finora in uso alle curve, per “farsi giustizia”. “Abbiamo paura di uscire e di entrare a casa, la vita si fa preoccupante in questa strada”, dice Valentina nel soggiorno a piano terra dell’appartamento. “Ci è costato 75 milioni trent’anni fa, e tanti sacrifici. Si starebbe bene se non ci fossero loro”. Loro chi? “Quelli delle case popolari. Ci sono tante teste calde e tanti fascisti. Vogliono far guerra e adesso hanno trovato il modo per giustificarla”. E allora che si fa? “Mia figlia dice che devo venderla e intanto non mettere il naso fuori. Per fortuna abbiamo il garage con due uscite. Prendiamo sempre quella più lontana e non facciamo mai tardi di sera”.
il Fatto 13.11.14
Il sociologo Marco Revelli
“Tornano le scorie della destra e il Pd è un ogm”
di Tommaso Rodano
Dalle periferie di Roma e di altre città arrivano segnali spaventosi. Stiamo saggiando i limiti della nostra tenuta sociale”. Marco Revelli, intellettuale e sociologo, tra i primi promotori della Lista Tsipras alle scorse Europee, sembra scoraggiato, quasi arreso. “Queste violenze sono uno dei prodotti tipici della crisi. Quando le società marciscono, iniziano i conflitti orizzontali alla base della piramide sociale. I penultimi contro gli ultimi: le guerre tra poveri. I poveri si combattono perché la piramide si è allungata e i ricchi sono fuori tiro”.
E qualcuno ci specula...
C’è chi si arricchisce politicamente su questi sentimenti. È un’operazione indecente.
Nomi e cognomi?
Matteo Salvini. È l’imprenditore dell’odio. Trovo disgustoso questo modo di stare dentro la crisi per qualche pugno di voti in più. Stare contro gli ultimi per conquistare i voti dei penultimi.
Salvini, forse, risponderebbe che lui ascolta la pancia delle persone. Qualcun altro se l’è completamente dimenticate.
Non è l’unico responsabile di questa situazione. Prendiamo i rom: i campi nomadi – dove si vive in condizioni disumane – non se li è inventati certo Salvini. Le amministrazioni pubbliche di ogni colore hanno considerato questa umanità ai margini una zavorra. Salvini incassa, ma sono in molti ad avergli preparato questa situazione.
La Lega ora si allea con Casa Pound.
La crisi sta cambiando i profili delle soggettività politiche. Sta nascendo anche in Italia una destra virulenta, per certi versi persino peggiore del Front National francese, che nel tempo ha smussato alcune sue punte. La destra sta rimettendo in scena le scorie più tossiche della propria identità novecentesca.
E la sinistra?
Simmetricamente, anche la sinistra ha avuto una mutazione genetica. Il Pd è un ogm, in fuga vertiginosa da ogni identità che possa anche lontanamente ricordare le proprie origini. Renzi è impegnato in un’acrobazia spericolata: vuole stare con i ricchi al vertice della piramide (pensiamo alla Leopolda e alle cene per miliardari) e insieme conquistare il voto di chi sta in basso. Un’operazione tenuta insieme dalla sua retorica populista. È molto difficile, perché ad ogni svolta rischia di scontrarsi con la realtà dei fatti. Prima o poi succederà.
Siamo ai limiti. Abbiamo politici spregiudicati: Salvini, Renzi e in qualche momento pure Grillo, che è tentato di appellarsi a certi cattivi sentimenti, come su Ebola e immigrazione. Io avverto con paura degli scricchiolii dell’impalcatura della nostra tenuta civile. Il guappismo renziano ha cancellato anche quella sinistra che per qualche sussulto di memoria, ogni tanto, reagiva. Non rimane che il Papa, l’unica voce che si sforza di comunicare sentimenti e valori positivi.
Corriere 13.11.14
La politica ispirata dal risentimento: una strada pericolosa
di Mauro Magatti
Due episodi in pochi giorni. Stesso scenario: le periferie degradate delle grandi città (Milano e Roma); stessi protagonisti: gruppi sociali marginali, abitanti esasperati, apprendisti stregoni in cerca di riposizionamento politico, gruppi antagonisti e centri sociali, forze dell’ordine. Stesso risultato: la violenza che scoppia e distrugge, confermando ciò che avremmo sperato non vedere più: l’odio che avvelena l’aria delle nostre città e della nostra democrazia.
In un libro di qualche anno fa Zygmunt Bauman ha sostenuto che la crescita tende a creare, come una sorta di effetto collaterale, «scarti umani». Uomini e donne, dice Bauman, che, per una ragione o per l’altra, diventano inadatti a vivere in una società avanzata. «Vite di scarto» che le democrazie tendono a rimuovere, concentrandole ai margini delle proprie città. Dove si pensa non diano fastidio. Almeno alle vite «normali». Salvo poi accorgersi che questa rimozione è un’operazione impossibile: non fosse altro perché c’è sempre qualcuno che è costretto a vivere vicino a questi luoghi della sofferenza contemporanea. Anche se è sgradevole osservarlo, accade cioè qualcosa di simile a quanto succede a proposito delle discariche dei rifiuti. Di cui tutti riconosciamo la necessità, salvo poi volerle sempre altrove e comunque mai nelle vicinanze della propria abitazione.
È attorno a questi luoghi dove concentriamo quelli che sono «scarti» — un campo di rom, un centro per l’accoglienza di immigrati — che è scoppiata anche in questi giorni la violenza. Perché?
È incredibile come le società umane sembrino non imparare mai. Le periferie delle grandi città di tutto il mondo sono contesti fragilissimi, che vivono di equilibri molto precari e instabili. Al loro interno, spesso sono solo le inesauribili risorse di socialità e di umanità presenti nella stragrande maggioranza degli esseri umani a tenere le maglie di un tessuto sociale che manca persino degli elementi più basilari. Ma provate a cambiare, senza nessuna azione di accompagnamento, gli equilibri etnici di questi quartieri (ad esempio attraverso una massiccia immigrazione); aggiungete qualche campo rom o un centro per immigrati illegali, «brillantemente» collocato in un contesto già fragile; fate seguire anni di recessione economica che — come non è difficile immaginare — produce disoccupazione particolarmente elevata, soprattutto tra gli abitanti di questi quartieri. Non è questa la ricetta per il disastro?
Anche se non ce ne rendiamo conto, attorno alle grandi città ci sono quartieri in cui si vive in una condizione di extraterritorialità. Dove i cittadini si sentono letteralmente abbandonati da istituzioni che sembrano non esistere (salvo la scuola che eroicamente continua a essere un presidio in tutta italia) eccetto che per saltuari se non estemporanei interventi repressivi.
In questi quartieri regna un profondo senso di insicurezza che alimenta il risentimento, un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustrazione subita, sia essa reale o immaginaria.
In queste condizioni, basta una scintilla per far scoppiare l’incendio. E basta davvero poco per organizzare una speculazione politica. Che ha gioco facile nello sfruttare il disagio diffuso e volgerlo contro il capro espiatorio di turno — il migrante, il rom — che può facilmente fare da parafulmine per tutte le fatiche di chi vive in questi quartieri. Così che il risentimento — che non saprebbe con chi prendersela per una vita grama privata persino della speranza — riesce così a trovare uno sfogo. È stato questo il caso di Matteo Salvini, a sua volta bersaglio di aggressioni. Il leader della Lega, in cerca di un riposizionamento politico che fa del modello di Le Pen il proprio punto di riferimento, ha il fegato di andarci in questi quartieri. E di dare così la sensazione di essere vicino a chi non si sente ascoltato.
Nei prossimi mesi vedremo gli esiti di una tale campagna. Certo deve preoccupare lo stato di una democrazia dove i soggetti politici percorrono queste vie per ottenere un consenso che non riescono più a costruire con un discorso capace di guardare al futuro. Il risentimento è un’arma pericolosa. Maneggiarla può portare anche là dove non si voleva finire.
Repubblica 13.11.14
Milano. Occupanti, racket, antagonisti : scoppia la battaglia delle case popolari
Da San Siro al Corvetto: 20 mila sfratti da eseguire, 800 palazzi “invasi”
Risse quotidiane. E gruppi di donne “a difendere la legalità”
di Piero Colaprico
MILANO «Una volta sui portoni segnavano una “M”, o una “V”, era il segnale dell’occupazione notturna. Da quando l’abbiamo capito, e ci piazzavano davanti alle porte, hanno cambiato modo di comunicare. Adesso il nostro incubo sono i fischietti. Quando devono occupare le case lasciate vuote, arrivano alla spicciolata, poi fischiano, si avvisano tra loro e irrompono. Ma mentre loro fischiano, noi usiamo i telefonini e corriamo, chiamiamo la polizia... ».
Sono tutte donne, al quartiere San Siro, e in viale Mar Jonio hanno costituito il primo comitato cittadino in grado di trasformare gli stabili delle case popolari in una gigantesca trincea anti-abusivi. A qualcuno dei vicini, «a forza di sentire quei fischietti, è venuto l’esaurimento nervoso». Ma non a Lucia Guerri, 76 anni, anima del comitato: da quando gira con le stampelle per guai al menisco s’è fatta sostituire dalla nipote Giulia Crippa (cognomi milanesissimi), ma non molla. «Al massimo con noi viene un solo uomo, il Gino, anche i poliziotti ce lo dicono: “Ma i mariti dove sono?”. Eh, davanti alla televisione... ».
Lo stesso fenomeno metropolitano — queste donne senza paura di stare in trincea — succede tra Lorenteggio e Giambellino, dove per tre volte, nella scala D di via Odazio 6, sono state le signore di settanta, ottant’anni, a difendere la porta da uno sfondamento, finché l’Aler (che cura le case popolari per conto della Regione Lombardia) non l’ha assegnata a una signora italiana, portatrice di handicap. E chi se l’è presa, però, con questo coraggioso comitato inquilini che lotta contro le occupazioni? Il centro sociale “Base di solidarietà popolare Giambellino”: la sinistra antagonista s’è schierata a favore delle occupazioni, «sono questi giovani che spaventano i vecchi italiani, ci minacciano, provano a farci paura», dice M. P., «perché con i rom, che hanno occupato varie case, non abbiamo problemi, se non — ed è una citazione testuale — per il fatto che non capiscono la raccolta differenziata dei rifiuti».
Rifiuti a parte, il paradosso di questa battaglia “regolari-abusivi” è apparso nitido anche al Corvetto, dove martedì sera, altri gio- vani dei centri sociali antagonisti hanno attaccato con vernice e fumogeni una riunione di abitanti del quartiere che chiedevano gli sfratti: e se ne sono andati solo quando hanno visto gli anziani cominciare a tossire e star male. Le case popolari di Milano sono una polveriera ovunque, in ogni quartiere, e in più, tra pubblico e privato, ci sono in città circa 20mila sfratti da eseguire. Le prime operazioni di sgombero riguardano chi ha occupato le case popolari. «Allora sarà guerra», si sente dire in giro.
Già dalla quotidiana «battaglia dei fischietti » di San Siro si vedono da vicino i tre eserciti schierati in campo: gli inquilini regolari, al grido «no al degrado»; la massa indistinta degli occupanti abusivi legata al racket dei senza-casa; il centro sociale Cantiere, che partecipa alle feste di strada, promuove amicizia tra vicini e spiega che lotta «contro chi della casa ne fa un bene di profitto. Che sieda in poltrona, i nostri governanti, o che stia per strada, il racket». Ma se la politica è riconoscibile, il racket è sfuggente e, nello stesso tempo, sapiente: «Qui a San Siro — racconta uno degli uomini, in segreto dalle donne — bisogna stare molto attenti a come ci si muove. C’è un tariffario per aprire le porte e per entrare nelle case, duemila euro il servizio completo. Ma non lo può fare chiunque, il lavoro del fabbro, bisogna chiedere il “permesso” a qualcuno che può darlo, e sinora nessuno è andato a rompergli le scatole, né la legge, né i centri sociali, vediamo come andrà a finire ».
Se «vediamo» da vicino le strade delle periferie milanesi una cosa è chiara: ad alzare la voce più forte di tutti è chi vive di illegalità. Com’è successo, per esempio, a Crescenzago: alla fine di un’assemblea pubblica contro il degrado, le auto di molti partecipanti sono state trovate con i vetri rotti e le gomme squarciate. La trincea di San Siro invece resiste, è lunga ben 56 portinerie «popolari», a ogni portineria fanno capo dai cento ai centoventi appartamenti. Ma spicca un altro numero: gli abusivi hanno conquistato in zona ben 800 case. I primi sono stati «gli italiani» che venivano, vent’anni fa, dal quartiere Stadera, rettangolo di strade a non bassa densità criminale: sfrattati, scacciati, arrestati nella periferia Ovest, molti di quei gruppi sono saliti nella periferia Nord. E nessuno ha resistito «ai barbari». Poi, con le ondate migratorie, sono approdate accanto allo stadio le famiglie con bambini: chi poteva occupava le case vuote che — e anche questo dato nudo e crudo è tale da far riflettere — ancora oggi sono alcune centinaia.
Case vuote perché? Per una legge della Regione Lombardia, che impone l’affitto solo di case ristrutturate (ma non le ristruttura, o lo fa con il contagocce). Viceversa, il Comune di Milano, da poco, ha tolto le sue case dalla gestione dell’Aler (succederà entro l’anno), le ha affidate alla società che gestisce la Metropolitana milanese, e ha in mente di provare ad affittare le case «allo stato di fatto», scalando i lavori da eseguire dal calcolo dell’affitto.
Nel frattempo, però, nessuno che aspetta la casa sta a guardare. A due passi da viale Mar Jonio, in via Cividale 30, l’altro ieri un clan di nomadi è andato all’arrembaggio di un intero stabile, ma è scattato l’allarme e tutti sono stati scacciati, anche perché nella palazzina mancavano bagni, porte, scale, eppure «quelli ci sarebbero rimasti lo stesso».
il Fatto 13.11.14
Per i diritti dei rom e dei sinti
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, noi rom e sinti siamo la più grande minoranza europea – oltre dodici milioni distribuiti in tutti i Paesi – non abbiamo una terra di riferimento, neppure l'India delle lontane origini, non abbiamo, come altre minoranze disperse, rivendicazioni territoriali, quindi non abbiamo mai fatto guerre per rivendicare una patria. Siamo cittadini del luogo in cui viviamo. Siamo il perfetto popolo europeo, ma ciononostante siamo il popolo più discriminato d’Europa.(...) Per queste ragioni le comunità rappresentate dalla Federazione Rom e Sinti insieme alla Federazione Romani propongono ai cittadini italiani di sottoscrivere una legge di iniziativa popolare per il riconoscimento giuridico della minoranza linguistico-culturale rom e sinta italiana.
Dijana Pavlovic
COME I LETTORI IMMAGINANO la lettera di Dijana Pavlovic è molto più lunga ed è stato inviato in allegato anche il testo della legge, che sarà pubblicato in Rete. Voglio dire le ragioni della mia risposta. La prima è che firmerò la legge, che ritengo necessaria. È una materia fondamentale di diritti civili e di diritti umani per i quali, quando ero in Parlamento, ho avuto il sostegno e la collaborazione solo dei colleghi radicali. La seconda è che Dijana Pavlovic è una collega e amica che scriveva per l'Unità al tempo della direzione mia e di Padellaro. La terza ragione la leggo nella stessa giornata in cui scrivo (12 novembre) a pag. 5 dell'inserto romano del Corriere della Sera. Titolo: “Smantellato campo rom”. Testo: “Sono arrivati con le ruspe, i camion, pattuglie di rinforzo in caso di reazioni degli occupanti. Ma fortunatamente l'operazione è andata in porto senza guai. I vigili urbani, dopo la nostra denuncia sul ‘campeggio’ rom a Ponte Testaccio, hanno rimosso tonnellate di masserizie e favorito la pulizia dell'area. Sono stati portati via mobili, brande, tende, tv e frigoriferi che rendevano inagibile la banchina del ‘parco fluviale’ che oggi è recuperata”. La cronaca non ci dice a che ora sono arrivate le pattuglie di vigili e le ruspe (certamente un po' prima dell'alba), quanti erano i residenti del “campeggio” e quanti di essi erano bambini. Non ci dice neppure perché, per prima cosa, arriva la ruspa, strumento di distruzione all'ingrosso, capace di spazzare e ingoiare anche una culla, una sedia a rotelle o una più che legittima bicicletta. Dove vanno, in casi del genere, “mobili, brande, tv e frigoriferi che rendevano inagibile la banchina”? C'è un sequestro, una ricevuta, un modo di riaverli indietro se sono ancora utilizzabili dopo il buon lavoro della ruspa? È vero che, nella credenza radicata e diffusa, i rom “rubano”. Ma in casi come questi è il Comune di Roma che ruba ai rom, a meno che manchi la notizia di un grande deposito comunale in cui vengono ospitate e restituite a chi ne fa richiesta con ricevuta, le “masserizie”. Voglio chiarire. Non sto facendo, senza diritto, la morale al Corriere, che ha scritto quello che è effettivamente accaduto. Sto dicendo che il breve testo (certamente tratto dal verbale dei vigili) è documento della cultura italiana contemporanea. Nessuno nota immondizie e oggetti ingombranti, abbandonati e visibili, con danno anche al turismo, in molte zone di Roma, simili alla banchina del Te-staccio. Ma la denuncia scatta subito se vi è un insediamento rom. Lo scandalo (e la violazione di norme internazionali ed europee sottoscritte dall'Italia) non è la rimozione, ma la modalità di essa come è stata descritta, la distruzione delle baracche per vivere (in giorni di pioggia violenta e continua), il sequestro d'autorità dei pochi beni (tv, frigorifero) la cacciata, senza alcuna preoccupazione di avere preventivamente indicato un luogo in cui i rom (certamente famiglie) potranno andare a vivere. Sì, la legge di iniziativa popolare è urgente. È necessaria a tutela della immagine di ciò che resta della civiltà italiana, prima ancora che per la protezione dei rom e sinti (che sono in tutto 150 mila in Italia, la metà donne, la metà bambini) ma vengono tenuti d'occhio come il vero pericolo, più del Califfo). La firmerò e vi prego di firmarla.
il Fatto 13.11.14
Segreti sulle stragi Renzi non risponde
di Gianni Barbacetto
RICORDATE la promessa di Matteo Renzi di togliere il segreto ai “misteri d’Italia”? C’è qualcuno che gli chiede conto della promessa. È Paolo Bolognesi, a nome dei familiari delle vittime delle stragi e della Rete degli archivi per non dimenticare. Presidente dell’Unione dei familiari e ora anche deputato Pd, ha ripetutamente chiesto un incontro al presidente del Consiglio, per porre alcune domande sui documenti che dovrebbero diventare pubblici. “Per evitare che un fatto importante come la tua direttiva si risolva, come in altre occasioni, in un modo per aggirare la richiesta di verità dei cittadini e dei familiari delle vittime”. La direttiva di Renzi dell’aprile 2014 assicurava “un versamento della documentazione relativa alle stragi di piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Brescia (1974), Italicus (1974), Ustica (1980), stazione di Bologna (1980), rapido 904 (1984)”. Ora, ricorda Bolognesi, si aprono alcuni problemi. I più concreti sono quelli organizzativi e di spazio: dove “versare” i documenti? All’archivio centrale di Stato o a quelli periferici? E dove trovare lo spazio per conservare carte che occuperanno spazi imponenti? “Appare utile utilizzare le caserme dismesse per creare nuove sedi per gli archivi di Stato”, suggerisce Bolognesi. Sarebbe un “grande giovamento anche in termini di risparmio sugli affitti delle sedi attuali”.
Poi ci sono i problemi più sostanziali: che cosa sarà davvero declassificato? E chi deciderà che cosa declassificare? Perché esistono “fatti di terrorismo e stragi (moltissimi!) che non riguardano le stragi oggetto della direttiva”. Questi come saranno valutati? “Occorrerebbe ragionare su declassifiche progressive e versamenti unitari”, dice Bolognesi, “non per fatto singolo, ma in relazione a tutto ciò che interessa quell’arco di tempo (1969-1984), circa i fatti che coinvolgono persone o organizzazioni presenti in quel periodo, implicati nelle vicende di terrorismo e stragi”.
La domanda delle domande però è: chi decide su quali documenti togliere il segreto? Marco Minniti, sottosegretario con delega ai Servizi segreti, a settembre, al Premio Alpi, non solo ha annunciato la de-classificazione di tutti i documenti relativi all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Krovatin, ma ha anche parlato di “70 metri lineari di documenti dei servizi segreti, relativi alle grandi stragi avvenute tra il 1969 e il 1984, che – in base alla direttiva – sono pronti per essere declassificati e versati all’archivio centrale dello Stato”. Francamente, 70 metri sono davvero pochi per una storia così lunga e così travagliata e complessa. E allora: “Da chi era composta”, chiede ora Bolognesi, “la Commissione che si è occupata di selezionare” quei 70 metri? Oltre alle carte dell’intelligence, la direttiva riguarda i documenti anche di altri enti produttori (la Farnesina, il ministero dell’Interno, quello della Difesa...). Quali sono gli enti produttori interessati? Come si sta procedendo? Che tempi sono previsti? E ancora: i documenti saranno digitalizzati?
INFINE, la domanda delle domande: “Chi deve declassificare e depositare è lo stesso che fino a oggi ha classificato, con sue valutazioni, e coperto i documenti. Quali garanzie possiamo avere che il materiale depositato sia la totalità del materiale? Come sarà possibile controllare?”. Sarebbe per questo opportuno inserire, “nella commissione prevista dalla direttiva, figure quali magistrati, rappresentanti delle associazioni di vittime di stragi e terrorismo e un rappresentante della Rete degli archivi per non dimenticare”. Renzi ha fatto sapere a Bolognesi di avere molto da fare. Per ora, nessuna risposta e nessun incontro.
Corriere 13.11.14
Test di medicina, il timore dei rettori: «Anno accademico pregiudicato»
di Claudia Voltattorni
Dovevano entrarne 10 mila in tutta Italia. Poi ne sono arrivati altri 5 mila. E presto se ne aggiungeranno altri 2 mila. Una situazione «gravissima» e «insostenibile» che «pregiudica il regolare avvio dell’anno accademico». Così i rettori della Crui (la Conferenza dei rettori delle università italiane) hanno scritto al ministro Stefania Giannini chiedendole un incontro urgente per affrontare quella che sta diventando una emergenza: il sovraffollamento di matricole nei corsi di laurea in medicina per l’ingresso dei ricorsisti che, pur non avendo passato il concorso, sono stati riammessi dal Consiglio di Stato. Ciò si è tradotto, in alcuni casi, come quello di Palermo, in quasi il triplo di studenti (intorno ai 1.100) per corsi e spazi pensati invece per un terzo di loro (404). Si parla di aule stracolme e laboratori impossibili da tenere. «Ora stiamo dando una risposta con strumenti straordinari — dice il rettore di Palermo e vicepresidente Crui Roberto Lagalla — ma per i prossimi anni cosa faremo?». Anche perché, scrivono i rettori, «da anni le domande di accesso ai corsi superano le relative offerte, tanto di posti quanto di borse». Il ministro li riceverà domani.
Corriere 13.11.14
L’eterologa e donatrici
Ovociti, il nodo dei compensi
di Luigi Ripamonti
Il problema della mancanza di ovociti per la fecondazione eterologa è puntualmente venuto a galla, come previsto. Del resto accade spesso che l’Italia si areni fra intenzioni e attuazioni. Abbiamo salutato come una vittoria di civiltà la rinnovata possibilità di accedere alla fecondazione eterologa nel nostro Paese, perché poneva fine a una discriminazione su base di censo, visto che chi poteva la faceva all’estero. E ora ci accorgiamo che le cose continuano come prima perché non ci sono donatrici. I motivi? L’assenza di incentivi economici alla donazione (salvo aggirare l’ostacolo con «rimborsi» vari) e, secondo diversi osservatori, la mancanza di cultura della donazione di queste cellule (che richiede una stimolazione ovarica non del tutto priva di rischi).
Su questo punto vale forse la pena osare una riflessione impopolare: donazione per chi? Per una donna di 35 anni in menopausa precoce? Per una devastata dall’endometriosi? Per una che ha avuto un tumore? Pare indiscutibile incoraggiare alla donazione in questi casi.
Promuovere la donazione gratuita per una donna che ha più di 45 anni e che, per libera e legittima scelta, ha deciso di ritardare il momento in cui avere figli? Antipatico dirlo ma l’indicazione medica sarebbe meno stringente e, forse, più comprensibile la richiesta di un compenso. Politicamente scorretti per politicamente scorretti, andiamo oltre: liberalizziamo la vendita degli ovociti? Oggi gli ovociti, domani un rene? Non è la stessa cosa, nel primo caso non ci sarebbe la perdita della possibilità di avere figli, nel secondo se «salta» il rene residuo c’è la dialisi. Però qualche timore di una deriva potrebbe esserci.
E allora? Terza via: mettiamo via gli ovociti, congeliamoli finché siamo giovani così magari ci serviranno più in là negli anni. Niente di male, a meno che non sia il correlato di una cultura che, per varie ragioni, induce a pensare che sia privo di costi il rimandare la gravidanza molto in là nel tempo. Non è senza costi: una cosa è partorire a 25 anni o a 35, un’altra a 48. Però così siamo daccapo e rimane la realtà di oggi, che è quella di ieri: chi vuole può comprarsi gli ovociti all’estero chi non può rimane discriminato. E allora che fare? Ognuno avrà una sua opinione: il dibattito è aperto e complesso.
Non guardare le cose come stanno sarebbe ipocrita, non affrontarle tenendo conto di tutti gli aspetti superficiale. Rimane una considerazione: insieme alla cultura della donazione si potrebbe cominciare a promuovere anche una cultura dell’accettazione (non della rassegnazione) per scongiurare quella della disperazione e arginare quella della commercializzazione eccessiva dei problemi di infertilità.
Repubblica 13.11.14
L’amore non è surrogato
di Michela Marzano
L’ORDINAMENTO italiano, per il quale la madre è colei che partorisce, contiene un espresso divieto della surrogazione di maternità, ossia della pratica secondo cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a partorire un figlio per un’altra donna”. È con queste parole che la Corte di Cassazione ha definitivamente rigettato la domanda di riconoscimento del piccolo Tommaso che era stata depositata da una coppia di Brescia. Avendo problemi di sterilità, la coppia si era recata in Ucraina dove, nel 2011, il bimbo era stato messo al mondo da una madre surrogata prima di essere registrato come figlio della coppia. Dopo il rientro in Italia, però, l’uomo e la donna erano stati smascherati e denunciati per falso anagrafico. Conclusione: Tommaso è oggi “figlio di nessuno”. Punito per colpe non sue, è ora in attesa di essere adottato; in attesa di una nuova famiglia.
Chiamata per la prima volta a pronunciarsi nel caso di un “utero in affitto”, la Corte di Cassazione sbarra la strada alla legittimazione dei figli nati con pratiche vietate in Italia, conferma la decisione presa dal Tribunale dei minori di Brescia e respinge l’idea di riconoscere il diritto alla coppia di tenere il bambino avanzata dalla Procura. Di fatto, la Corte di Cassazione ribadisce il divieto di ogni pratica di “fecondazione extracorporea”. Ma non è questo, a mio avviso, il problema che pone oggi questa sentenza. Non è in questione la legittimità o meno della maternità surrogata — su cui i dibattiti etici e giuridici sono ovunque molto tesi, visto che sono in gioco interessi e valori contraddittori; e che c’è, da un lato, il dramma della sterilità di alcune coppie e la questione della genitorialità delle coppie omosessuali, e, dall’altro, il problema della strumentalizzazione del corpo delle donne. Il vero dilemma riguarda il bambino e il suo futuro. Il benessere e la tranquillità di chi, con il reato commesso dalla coppia bresciana, non c’entra nulla. Perché non è certo Tommaso ad aver chiesto di nascere o di essere partorito da una madre surrogata. Non è certo lui ad aver scelto alcunché.
Il piccolo subisce solo. Fin dall’inizio. Non sarebbe mai nato se questa coppia non l’avesse desiderato, non fosse andata in Ucraina, e non avesse utilizzato l’utero di un’altra donna. Ma è lui, adesso, a non avere più una famiglia e a non averne ancora un’altra. Esattamente come sarà lui, un giorno, a dover fare i conti con tutta questa storia piena di strappi e di abbandoni. È forse per questo che la Procura generale della Cassazione aveva chiesto la revoca dello stato di adottabilità e la restituzione a quelli che si erano spacciati per i suoi genitori. Esattamente come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sollecitata a pronunciarsi sul caso di due coppie francesi, nel giugno del 2014, aveva dato ragione alle coppie. Riconoscendo il danno identitario subito dai bambini, la Cedu aveva chiesto alla Francia di riconoscere ai bimbi nati negli Usa con maternità surrogata lo statuto di “figli legittimi”.
Certo, per la legge italiana “la madre è colei che partorisce”. Ma, per un figlio, la madre e il padre sono soprattutto coloro che lo hanno desiderato, voluto, accolto, coccolato, cresciuto. E poco importa, per lui, quello che possono aver fatto o le leggi che possono aver violato per averlo. Un bimbo si lega e si affeziona a chi comincia ad occuparsi di lui, anche se non si tratta del genitore biologico o non ha ancora lo statuto di genitore adottivo. Che è poi il problema delle famiglie cui si affidano i bambini prima di farli talvolta adottare da altre. Se veramente ciò che conta è il benessere dei più piccoli, non si dovrebbe trovare il modo di proteggerli veramente legiferando? E evitare, così, che l’assenza di regole produca dolorose e ingiuste contraddizioni che poi è fin troppo facile scaricare sulla magistratura.
Il Sole 13.11.14
Lirica. L'audizione del sovrintendente
«Via alternativa ai licenziamenti all'Opera di Roma»
di Antonello Cherchi
ROMA Sull'Opera di Roma c'è la volontà di trovare una strada alternativa ai licenziamenti: lo hanno sottolineato ieri i sindacati e il sovrintendente Carlo Fuortes, entrambi sentiti (ma in momenti diversi) dalla commissione Cultura della Camera. Dopo l'annuncio dell'allontanamento dell'orchestra e del coro e l'esternalizzazione delle attività artistiche, «c'è stato - ha affermato Fuortes - un atteggiamento totalmente diverso da parte dei sindacati, una grande assunzione di responsabilità. Si sono dimostrati disponibili a ridiscutere la parte retributiva e hanno proposto nuove regole sugli scioperi. La fase è ancora aperta, ma nel corso dell'iter che la legge prevede prima di formalizzare i licenziamenti, credo si possa trovare una soluzione».
Anche dalle diverse sigle sindacali sono arrivati conferme in tal senso: «I lavoratori – ha spiegato Alessandro Cucchi segretario generale della Uilcom Roma e Lazio – sono disposti anche a sospendere alcune loro attribuzioni per un periodo determinato, a fronte dell'obiettivo del risanamento, con la possibilità, una volta conseguito, di tornare a recuperare pezzi di salario». «Chiediamo che i posti di lavoro che abbiamo restino e soprattutto chiediamo un progetto cultura», ha aggiunto Maurizio Giustini, segretario della Fistel Cisl.
Su tutto c'è la necessità di risanare i conti del teatro, di aumentare la quota di autofinanziamento e di incrementare la produttività. Per quanto riguarda il pregresso – «una situazione – ha spiegato Fuortes – che non nasce nel 2013, ma è il frutto di interventi stratificati nei decenni che hanno portato ai conti disastrati di oggi» – c'è la possibilità di far ricorso alla legge Bray (legge 91/2013), che ha previsto un fondo di rotazione di 125 milioni di euro per aiutare le fondazioni liriche in grave dissesto, a fronte, però, di un piano di risanamento che l'Opera di Roma ha presentato in luglio al commissario della lirica, Pierfrancesco Pinelli.
Per il futuro, invece, è necessario ridurre le spese e aumentare la produttività. «Dobbiamo incrementare l'autofinanziamento, che ora – ha illustrato Fuortes – è al 17,8%, contro il il 56,6 dell'Arena di Verona, il 51,1 della Scala o il 36,6 di S. Cecilia». In questo modo si sarà meno legati ai contributi pubblici, che all'Opera nel 2013 hanno raggiunto i 41,3 milioni di euro, più anche della Scala, che però ha un valore della produzione di 116,5 milioni, contro i 52 milioni del teatro della capitale. Bisogna, dunque, lavorare di più: «Ora il costo del personale – ha spiegato Fuortes – incide sul valore della produzione per il 76% (39,5 milioni), contro una media del 62%. Eppure l'orchestra "timbra" solo 125 giorni l'anno».
Il Sole 13.11.14
Moro, l'accusa al consulente Usa
Commissione d'inchiesta. I nuovi elementi scaturiti da un'intervista di Minoli trasmessa l'anno scorso da Radio24
Il Pg Ciampoli: «Per Piecznik gravi indizi di concorso morale in omicidio»
di Ivan Cimmarusti, Marco Ludovico
«Concorso morale nell'omicidio» dello statista democristiano Aldo Moro. Un'accusa che adesso pende su Steve Piecznik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa ed ex consulente del Governo italiano in materia di terrorismo dal 1978. Molto vicino all'allora ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, legato a doppio filo con l'intelligence italiana ma non così ben visto in altri ambienti Dc, come quelli andreottiani, che l'avevano soprannominato «il piccolo Eisenhower», Piecznik sarebbe dunque coinvolto in prima persona nell'omicidio dello statista: ne è convinto il procuratore generale della Corte d'appello di Roma, Luigi Ciampoli.
I risultati dei suoi accertamenti, finiti in una relazione di un centinaio di pagine, sono stati illustrati ieri in una lunga audizione alla commissione parlamentare d'inchiesta. Il documento viene trasmesso all'attenzione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a cui il pg chiede di aprire un'inchiesta su Piecznik. Lo stesso documento è stato inviato anche all'ufficio del giudice per le indagini preliminari cui è stata proposta l'archiviazione della vicenda delle rivelazioni dell'ex ispettore di polizia, Enrico Rossi, secondo cui c'erano due agenti dei servizi segreti a bordo di una moto Honda in via Fani a Roma la mattina del sequestro.
Ma è il ruolo di Piecznik a essere al centro delle polemiche. «Abbiamo trovato del materiale interessante – ha detto Ciampoli – nell'analisi dell'intervista all'esperto americano, Piecznik, realizzata da Gianni Minoli anni fa» e trasmessa l'anno scorso da Radio24. L'obiettivo del consulente americano di Cossiga sarebbe stato quello di attuare una «manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia». «Abbiamo registrato una autoreferenzialità quasi schizofrenica da parte di questo soggetto – ha chiarito Ciampoli – che rivendica in maniera diretta di aver determinato l'uccisione di Aldo Moro. La strategia era quella di mettere alle strette le Br che avrebbero ucciso il Presidente quando si erano ormai piegate alla esigenza di liberarlo. Un omicidio indotto». La Procura di Roma, tuttavia, ha già avuto modo di interrogare Piecznik di recente. Nell'intervista, trasmessa il 30 settembre 2013 nel corso nel programma radiofonico Mix24 su Radio24, l'ex funzionario Usa aveva sostenuto di aver collaborato con le autorità italiane durante il sequestro Moro. Dichiarazioni che, tuttavia, non ha confermato nel corso del suo interrogatorio per rogatoria internazionale al sostituto procuratore Luca Palamara e agli investigatori dei carabinieri del Ros Lazio, al comando del colonnello Stefano Russo.
C'è dunque una divaricazione obiettiva tra i risultati delle indagini della procura e le conclusioni del procuratore generale della Corte d'appello. Se, da una parte, Ciampoli parla apertamente di un coinvolgimento nell'affaire Moro anche dell'ex servizio segreto militare, il Sismi - con il colonnello Camillo Guglielmi, ormai deceduto - nel rapimento dello statista democristiano, dall'altra parte l'inchiesta penale condotta dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo sta svelando un intricato giro di "bufale" finite anche su noti libri d'inchiesta sulla vicenda. C'è, infatti, un'ipotesi precisa di reato in questa indagine della procura capitolina: la calunnia verso esponenti dello Stato. Perché gli accertamenti del Ros avrebbero dimostrato come sul sequestro e omicidio Moro siano state diffuse informazioni fasulle per fomentare l'ipotesi del "complotto". Uno dei soggetti coinvolti è il brigadiere in congedo della Guardia di finanza, Giovanni Ladu, autoaccusatosi di aver fatto parte dell'organizzazione para-militare Gladio. L'ipotesi dei magistrati inquirenti è che in due diverse occasioni - una delle quali sotto il falso nome di Oscar Puddu - Ladu avrebbe fornito false informazioni all'ex giudice Ferdinando Imposimato, utilizzate dall'ex magistrato per due diversi libri sul caso Moro: «Doveva morire» e il recente «I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia» che ha spinto il Parlamento a nominare la nuova commissione d'inchiesta. Resta comunque aperto un enorme interrogativo su come sono andati realmente i fatti. Come dice il Democratico Gero Grassi, uno dei deputati che ha voluto la commissione d'inchiesta, «le dichiarazioni del procuratore generale danno all'intera vicenda una patina che fino a oggi non c'era. Assumono così una rilevanza peculiare e fanno riflettere».
La Stampa 13.11.14
Guaio Capitale
Marino e la Panda in divieto di sosta
Se il sindaco di Roma Ignazio Marino avesse in Campidoglio un consigliere almeno fidato, forse gli consiglierebbe di regalare la sua Fiat Panda rossa. La vettura è infatti al centro della discussione politica capitolina dell’ultimo mese. L’intera opposizione in Campidoglio si basa ormai su quella sua automobile, per lo più in uso alla moglie. Prima la polemica perché per un anno è rimasta parcheggiata gratuitamente nell’area riservata del Senato (pur non essendo più il nostro senatore). Poi è finita multata e subito “graziata” dal Comune di Roma per accessi non consentiti nella zona a traffico limitato del centro storico. Infine, l’altra sera, mentre nei pressi del Pantheon era in corso una manifestazione a favore dei due marò trattenuti in India, un consigliere comunale di opposizione (e le telecamere della trasmissione Le Iene), hanno incrociato prima l’auto bianca del sindaco parcheggiata in uno stallo per disabili, poi anche la Panda rossa, pure quella in divieto di sosta. I vigili sono arrivati mezz’ora dopo. Entrambe le auto erano andate via. Ancora una volta troppo tardi.
Corriere 13.11.14
La Panda di Marino di nuovo in divieto
Il sindaco sempre più in bilico: sono sereno
di Ernesto Menicucci
ROMA Prima le multe, ora il divieto di sosta. Una cosa bisogna dirla: ad Ignazio Marino, sindaco «ciclista», questa Panda rossa proprio non porta bene. Perché, dopo il parcheggio nei posti riservati del Senato e l’accesso alla Ztl con un pass scaduto, arriva un nuovo caso. Martedì sera, al termine del «giorno più lungo» del chirurgo dem, inseguito dalle voci di dimissioni, l’auto è stata «avvistata» sotto casa del sindaco, a due passi dal Pantheon, in divieto di sosta.
E qualcuno gli ha immediatamente scattato le foto, finite subito sulla rete. Non solo. Lì c’erano anche le telecamere delle Iene , che ieri sera hanno mandato in onda il servizio. C’è Marino che rientra a casa, su una macchina di servizio del Campidoglio. E, parcheggiata su un lato, c’è la sua Panda, sotto ad un cartello di divieto di sosta «permanente». Telefonini, foto, telecamere. Fino a che, dopo una mezz’ora circa, arriva un uomo (incaricato dal sindaco?) che sale sull’auto e la sposta, poco prima che arrivassero i vigili urbani. L’auto è quella col pass Ztl per il centro che, con ogni probabilità, usa spesso la moglie del primo cittadino, la signora Rossana Parisen Toldin, padovana di Monselice. Lei, raggiunta telefonicamente dal Corriere , non nega: «Non voglio essere scortese, ma non voglio essere intervistata. Tanto sapete già tutto...». Non ci vuole aiutare a capire chi guidava l’auto, quando sono state prese quelle multe? «Non avete bisogno del mio aiuto. Usate le vostre risorse sui giornali per trattare temi più importanti». Gentile, ma ferma. Anche se chi guidava l’auto non è un dettaglio. Marino, chiedendo il pass (pagato, tra l’altro, dal Comune) come sindaco «per lo svolgimento dell’attività istituzionale» è come se avesse «eletto» la Panda ad auto di servizio. E i familiari (a meno che non accompagnino il sindaco ad appuntamenti pubblici) non potrebbero neppure salirci a bordo, figuriamoci guidarla. Marino appare sempre più solo, anche se ostenta tranquillità: «Sono sereno». Però, per togliersi d’impaccio, sta pensando ad un clamoroso dietro-front: «Sono stato tratto in inganno dai miei uffici», la versione che dovrebbe fornire oggi, per scongiurare la mozione di sfiducia del centrodestra. Intanto, però, Renzi lo ha scaricato: «Chi sbaglia deve pagare», le parole del premier. Basta e avanza per aprire la crisi nella Capitale.
Il Fatto 13.11.14
Sterilizzazioni di Stato
India e nascite: non è un paese per donne
di Roberta Zunini
Nel subcontinente indiano, dentro un ospedale del Chhattisgarh, uno degli Stati più poveri, cinquanta ragazze lottano ancora contro la setticemia provocata dagli interventi di sterilizzazione eseguiti 4 giorni fa in un campo “sanitario”. Per la fretta con cui i medici avevano smaltito le operazioni di chiusura delle tube - ottimizzare i tempi significa minori costi - e a causa di una carente disinfezione degli strumenti, 13 sono morte nel giro di poche ore, 20 sono in gravi condizioni.
SE È PROBABILE che l'inchiesta aperta dalla magistratura su espressa richiesta del premier Narendra Modi spedirà in cella i chirurghi, il mandante continuerà a governare a piede libero. Perché il mandante è lo Stato. L'India, volendo mostrare di essere a tutti gli effetti la più grande democrazia del mondo, non ha mai messo a punto una politica ufficiale di pianificazione delle nascite, la cosiddetta politica del figlio unico di cinese memoria. Ecco perciò che dagli anni 70 il metodo più popolare di controllo delle nascite è stata la sterilizzazione. Indira Gandhi fu la prima a imporla inserendola nel pacchetto di leggi di emergenza. Un escamotage per rassicurare l'enorme ceto povero della temporaneità di una misura ontologicamente impopolare. La maggior parte dei più indigenti ancora oggi ritiene i figli una buona garanzia per aumentare le entrate economiche. In seguito, i vari governi, per pulirsi la coscienza e allo stesso tempo incentivare le donne a presentarsi all'appello, hanno introdotto una “ricompensa” in denaro. Con le 1.400 rupie offerte, circa 18 euro, però anche una famiglia povera, non campa più di un mese. Secondo le stime del 2013, le sterilizzazioni sono state quattro milioni. Cifra giustificata dal fatto che gli indiani sono circa 1 miliardo e 200 milioni e potrebbero diventare 1 miliardo e mezzo entro il 2028, superando i cinesi.
A ESSERE sterilizzate sono prevalentemente le donne, troppo deboli socialmente per opporsi alle decisioni dei tanti mariti-padroni. Le morti per questo tipo di interventi sanitari non sono una novità: negli ultimi dieci anni sarebbero state oltre 1.400. Ma sono numeri ufficiali che valgono fino a un certo punto in un Paese dove la corruzione si annida ovunque e le leggi sono tenute a seguirle solo i più deboli e i politici non sono realmente interessati a restringere l'enorme divario sociale. Nonostante il tasso di natalità sia sceso a 2,4 figli per donna, grazie all'accresciuta emancipazione femminile, l'India non ha accennato nemmeno lontanamente a stabilire una data di chiusura del programma di sterilizzazione e nemmeno una diminuzione della quota fissa di donne da sterilizzare annualmente, volente o nolente.
Le vittime della sterilizzazione finora sono state sempre strumentalizzate dalle opposizioni, di qualsiasi colore, per denigrare le maggioranze di volta in volta al potere.
Il vicepresidente del partito del Congresso, Rahul Gandhi, clamorosamente battuto dai nazionalisti del partito induista alle elezioni di maggio, ne ha subito approfittato per polemizzare, dimenticando che fu proprio sua nonna a introdurre questa normativa.
I corpi delle donne in India sono considerati macchine senza anima. Da usare e manomettere a seconda delle esigenze, degli uomini e dello Stato.
Corriere 13.11.14
Processo agli Stati Uniti in un discorso di Putin
risponde Sergio Romano
Il presidente Putin, il 24 ottobre, ha tenuto un interessante discorso programmatico. Mi sembra che nessun giornale italiano ne abbia parlato. Lei certamente lo ha letto. Perché non ce lo commenta?
Ettore Visca
Caro Visca,
Il discorso è stato pronunciato a Sochi in occasione di uno dei periodici incontri del Club Valdai, un foro russo di analisi e discussioni, simile per molti aspetti a quello svizzero di Davos e creato per iniziativa di Vladimir Putin nel 2011. Hanno partecipato a questo appuntamento alcuni uomini politici (fra cui un ex premier francese, Dominique de Villepin, e un ex cancelliere austriaco, Wolfgang Schüssel), giornalisti, direttori di istituzioni accademiche e di centri di studio sulla politica internazionale.
Putin ha colto l’occasione per uno sguardo d’insieme al mondo dopo la fine della Guerra fredda. È convinto che gli Stati Uniti, autoproclamandosi vincitori, si siano altezzosamente sbarazzati di tutti gli strumenti che erano stati costruiti nel corso degli anni per garantire, nei limiti del possibile, l’equilibrio del potere e la convivenza di sistemi politici diversi. L’America impone unilateralmente le sue regole, fa un uso egemonico della propria moneta, sorveglia e ricatta amici e nemici con una rete globale di ascolto e intercettazione. I nemici contro cui deve battersi, come il fanatismo islamico, sono spesso quelli creati dalla sua stessa politica. All’origine di Al Qaeda vi sono i generosi finanziamenti garantiti dall’America alla resistenza antisovietica in Afghanistan negli anni Ottanta. Il vertiginoso aumento del commercio della droga sarebbe collegato alla lunga guerra contro i talebani nello scorso decennio. Gli Stati Uniti sostengono di essere i paladini della libertà dei mercati, ma impongo sanzioni che contraddicono i loro presunti principi liberali.
L’America, secondo Putin, vuole un mondo unipolare, ma deve disporre, per meglio giustificare il proprio potere e la propria leadership, di un «centro del male». Oggi il nemico potrebbe essere la Cina, l’Iran o la Russia. Nelle parole di Putin il processo all’America è molto severo, ma l’analisi non è priva di passaggi interessanti e persuasivi. Il discorso di Sochi merita di essere letto integralmente.
Corriere 13.11.14
Il sigillo di Grossman, i progetti delle scuole e la staffetta con Expo Non saranno applausi a scena vuota quelli che questa sera inaugurano la terza edizione di BookCity. Sul palcoscenico del teatro Dal Verme (ore 20.30) infatti ci sarà David Grossman, uno dei più grandi scrittori israeliani contemporanei, in libreria con il nuovo romanzo, Applausi a scena vuota (Mondadori). Prima di parlare con Edoardo Vigna della «forza delle parole», il sindaco Giuliano Pisapia gli consegnerà il Sigillo della Città, prima edizione di un riconoscimento che diventerà un appuntamento fisso. Da domani l’invasione pacifica dei lettori travolgerà il centro e la città metropolitana, ma oggi è anche il giorno delle scuole, altra grande scommessa (riuscita) di questa manifestazione che ha visto coinvolto oltre ventimila studenti. I materiali prodotti sono molti e di molti generi (libri, e-book, booktrailer, illustrazioni, fumetti, plastici, cartelloni, giornali) e si potranno vedere al Muba della Rotonda di via Besana. Tra i tanti progetti vale la pena segnalare quello realizzato dai ragazzi dell’istituto Kandinsky al Gratosoglio: «Milano come non l’avete mai vista,» un sito in cui virtualmente vengono ridisegnati gli spazi urbani per i coetanei in visita a Milano per Expo.
Corriere 13.11.14
Il «folle volo»
Quel limite che la ragione non supera
di Raffaele La Capria
L’Ulisse di Dante con un racconto di «enigmatica semplicità» (Sermonti) chiude il ventiseiesimo canto dell’ Inferno. Come tanti sono rimasto anch’io affascinato e sconcertato dal «folle volo» che porta Ulisse ad attraversare le Colonne d’Ercole e a naufragare, dopo aver intravisto all’orizzonte una misteriosa «montagna bruna» «tanto alta quanto veduta non avea alcuna». E mi sono domandato anch’io perché Ulisse è condannato all’ Inferno , qual è la sua grandissima colpa, e infine che cosa vuol dire il suo racconto? Uno come me, che dopo i novant’anni pensa spesso alla vita e alla morte, quando legge quest’episodio si domanda: e se Ulisse «per seguir virtute e canoscenza» — due nobili facoltà dell’uomo — avesse commesso una terribile infrazione, un grave peccato, quello di oltrepassare il limite voluto dalla legge di Dio? Dunque il suo peccato sarebbe di aver disobbedito al comando che impone il limite, il limite che è sacro e che per nessuna ragione può essere oltrepassato, neanche «per seguir virtute e canoscenza». C’è un tempo (cioè un limite) per ogni cosa, è scritto nella Bibbia, «un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per la semina e uno per il raccolto». Se superassimo quel limite la sorte che ci spetterebbe è il naufragio, il fallimento. Il limite che Ulisse avrebbe voluto superare è quello imposto dalla morte alla vita umana. Non ci è permesso ignorarlo, e neanche ci è permesso indagare per sapere ad ogni costo cosa c’è oltre quel limite, questo il peccato di Ulisse.
Sono due le possibilità. Una, che oltre quel limite ci sia un aldilà che duri eternamente. Un’altra, che tutto finisca con la morte. Il limite sta tra queste due possibilità. Se penso alla vita eterna la penso con l’idea che in questo mondo dove vivo si ha dell’eternità, e la parola eterno indica qualcosa che non ha mai fine, e proprio per questo mi spaventa. Solo il limite ci libera dalla paura che si prova per qualcosa che non finisce mai e che questa stessa sua infinitezza rende immobile e sempre uguale. Dunque se devo immaginare questa eternità come è solo possibile immaginarla a uno che vive nella vita terrena, ecco che mi si presenta come una ripetizione infinita di ciò che è uguale, perché l’eternità è per forza uniforme e non può avere varianti. Chi vive in questa vita terrena vive nel tempo e solo nel tempo sono possibili varianti. L’eternità è senza tempo, dunque ferma in sé stessa. La morte, il limite, sarebbe dunque un dono che ci fa apprezzare la brevità della vita e ci libera dalla paura dell’eternità.
Ma qui nasce un’altra questione, perché se tutto finisse con la morte non ci sarebbe un aldilà, non solo quello consolatorio dove è possibile ritrovare i propri cari e gli affetti che avemmo da vivi, ma soprattutto non ci sarebbe quello dove Dio ha instaurato il tribunale che giudica il bene e il male da noi commessi nella vita, non ci sarebbero più il paradiso e l’inferno e non ci sarebbe più giustizia. L’uomo invece ha bisogno di giustizia, ha bisogno di credere che chi male ha agito verrà punito, e chi invece ha agito bene verrà premiato. Dunque pensare che tutto finisca con la morte, e che la morte sia un dono e una liberazione, porta a distruggere un principio che per l’uomo è essenziale, senza di esso non varrebbe la pena di vivere, il senso di ogni azione umana e della responsabilità personale andrebbe perduto, tutto sarebbe confuso in un’irrilevanza distruttiva, e neppure una società potrebbe esistere senza questo principio. E dunque, anche tenendo conto del sentimento religioso (che va rispettato) come la mettiamo?
Sono questi i pensieri di un novantenne un po’ ansioso e piuttosto irrequieto che vorrebbe impadronirsi con la ragione di cose di cui la ragione nulla sa e nulla potrà mai sapere. Noi viviamo nel mistero, le cose di cui parliamo sono misteriose e imperscrutabili, e misterioso e imperscrutabile è anche l’Ulisse di Dante e il suo folle volo, che queste considerazioni, chissà quanto apprezzabili, ha suscitato.
Corriere 13.11.14
Non solo prigionieri ma ostaggi
Soldati italiani in mano a Stalin
di Antonio Carioti
Volti esausti, da cui traspare uno sconsolato fatalismo: i soldati italiani fotografati dopo la cattura da parte dei sovietici, nell’inverno 1942-43, sono consapevoli di avere davanti a sé giorni durissimi. E infatti il tasso di mortalità nelle loro file sarà spaventoso, più elevato di quello dei tedeschi. Le immagini qui pubblicate, insieme a molte altre, arricchiscono la nuova edizione del libro I prigionieri italiani in Russia (il Mulino, pp. 495, e 29), frutto di una minuziosa ricerca condotta da Maria Teresa Giusti negli archivi di Mosca e di Roma. Ma l’apparato iconografico non è certo l’unica parte nella quale il volume, in libreria da oggi, si presenta ampliato e approfondito rispetto alla prima versione, edita nel 2003.
In questi anni Maria Teresa Giusti ha infatti proseguito il suo lavoro di scavo, con risultati importanti. Per esempio ha scoperto una direttiva, firmata dallo stesso Stalin nel giugno 1945, contenente ordini dettagliati per lo sfruttamento dei prigionieri come manodopera coatta. Le indicazioni dall’alto però cozzarono spesso con la disorganizzazione delle strutture che avrebbero dovuto applicarle, a partire dai campi di detenzione: qui, soprattutto all’inizio, regnavano la negligenza e il caos, con effetti disastrosi. Lo stesso apparato repressivo sovietico, il famigerato Nkvd, intervenne per migliorare le condizioni dei militari reclusi, che morivano come mosche, ma spesso le disposizioni rimasero sulla carta.
Di notevole interesse anche le novità sui prigionieri italiani a cui vennero addebitati crimini di guerra. Da documenti sovietici risulta che alcuni di loro non avevano compiuto affatto atrocità ed erano colpevoli soltanto di comportarsi da fascisti convinti. Comunque vennero trattenuti dal Cremlino dopo la fine della guerra, insieme al personale diplomatico della repubblica di Salò catturato dall’Armata rossa in Romania e Bulgaria, per essere usati come ostaggi, merce di scambio. E il nostro governo dovette piegarsi: con un accordo del 1949 ottenne il loro rimpatrio, ma dietro la consegna dei cittadini sovietici, donne e bambini inclusi, che si erano rifugiati nel nostro Paese anche prima della guerra, la cui sorte successiva si può facilmente immaginare.
C’è poi un’altra vicenda che Maria Teresa Giusti sottrae all’oblio: quella dei militari italiani catturati e internati dai tedeschi dopo l’8 settembre, i cosiddetti Imi, che caddero nel 1944 in mano sovietica e furono trattati, in modo del tutto arbitrario, come prigionieri di guerra, anche se avevano rifiutato di arruolarsi nella Rsi, nonostante l’Italia del Regno del Sud fosse ormai Paese cobelligerante al fianco degli Alleati. Così circa 1.300 Imi, sopravvissuti ai lager di Hitler, perirono in quelli di Stalin.
Corriere 13.11.14
La lotta partigiana vista da Noventa
Giacomo Noventa (1898-1960) non è stato soltanto un fine letterato, autore del volume Versi e poesie (Edizioni di Comunità, 1956), ma ha saputo svolgere anche un forte impegno civile, di cui è meritoria testimonianza il volumetto Tre parole sulla Resistenza , edito da Castelvecchi (pagine 67, € 9), nel quale sono contenuti appunto tre brevi saggi, felicemente complementari, dell’autore veneto, il cui vero nome era Giacomo Ca’ Zorzi (Noventa di Piave era il suo paese d’origine, in provincia di Venezia). Nel primo saggio, che risale al 1947, Noventa sostiene che «il nemico contro il quale la Resistenza combatteva non era soltanto l’ultimo fascismo e l’ultimo nazismo, ma l’indifferenza popolare italiana dal Risorgimento in qua». Il secondo saggio spiega che la Resistenza «non appartiene al passato», ma al contrario occorre «rompere l’unione sacra con gli ex compagni» e tuttavia «continuare la Resistenza». Infine, nel terzo saggio, che è l’introduzione incompiuta a un ciclo di disegni del pittore siciliano Renato Guttuso, Noventa conclude sostenendo che «l’antifascismo è tutto rivolto al passato», mentre la Resistenza continua a avere davanti «l’avvenire».
Corriere 13.11.14
Dalla fisica al latino, si rinnovano i Lincei
Anche Salvatore Settis e Paolo Prodi tra i venticinque nuovi soci
Anche l’Accademia Nazionale dei Lincei, la più antica del mondo (fondata nel 1602) si rinnova e guarda alle nuove generazioni. Il 14 novembre venticinque nuovi soci «corrispondenti» riceveranno il distintivo con la lince, animale scelto dal fondatore Federico Cesi per l’acutezza attribuita al suo sguardo.
Trattandosi del più prestigioso organismo culturale italiano, dove si entra solo dopo un attento esame dei titoli accademici, è per esempio da considerare «giovane» Guido Martinelli, 52 anni, professore di Fisica Teorica all’Università La Sapienza di Roma. Lo stesso vale per Gianfranco Pacchioni, 50 anni, professore di Chimica generale e inorganica alla Bicocca di Milano e per la coetanea Maria Concetta Morrone, professore di Fisiologia all’università di Pisa.
Prima notizia. Sei soci già «corrispondenti», ovvero ordinari, sono stati promossi a «nazionali», la fascia più ambita. Si tratta di Paolo Fedeli (latinista, università di Bari), Salvatore Settis (archeologo, Normale Superiore di Pisa), Paolo Prodi (storico moderno, università di Bologna), Paolo Galluzzi (storico della scienza, università di Firenze), Renato Guarini (statistico economico, università La Sapienza di Roma), Michele Parrinello, fisico nella Eidgenössische Technische Hochschule di Zurigo e nell’Università della Svizzera Italiana di Lugano).
Tra i nuovi corrispondenti nelle classi di Scienze morali e Scienze fisiche, l’italianista Emilio Pasquini, lo storico della Chiesa Giorgio Cracco, la giurista Lorenza Carlassare, il sociologo Marzio Barbagli, l’iranologo Adriano Valerio Rossi. Tra i soci stranieri, l’egittologo viennese Manfred Bietak, il giurista giapponese Ichiro Kitamura, la sociologa francese Dominique Schnapper.
Repubblica 13.11.14
oramai uno Stato di fatto mai dichiarato e il centro dell’alleanza che frena l’avanzata dell’Is
Nel cuore del Kurdistan iracheno che vola verso l’indipendenza
di Gad Lerner
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO) LA POTENZA emergente del nazionalismo curdo trasformatosi ormai in Stato di fatto, sulle ceneri dell’Iraq avviato alla dissoluzione, si celebra agli incroci delle larghe e trafficate avenues di Erbil. Qui i profughi in fuga da Kobane e Mosul chiedono l’elemosina sovrastati da megaschermi in cui il Falcon Group pubblicizza la ricchezza delle sue torri avveniristiche chiamate Empire Diamond, alternandole con visioni delle raffinerie di petrolio. Riesce difficile pensare alla ferocia della guerra, ai miliziani del Califfato insediati a poche decine di chilometri da una metropoli che per lusso e disegno architettonico cresce a vista d’occhio sul modello di Dubai.
Il mondo guarda con ammirata gratitudine ai curdi che frenano l’avanzata dello Stato Islamico (Is), celebra i peshmerga del loro esercito popolare, mitizza le donne soldato che poco più a Nord, nel Rojava (il Kurdistan siriano) fronteggiano i tagliagole jihadisti. A Erbil giungono armi e rifornimenti dall’Occidente. L’Italia partecipa, inviando 280 addestratori militari nell’ambito della coalizione anti-Is.
È il capolavoro diplomatico di due leader curdi iracheni — l’anziano Jalal Talabani e il presidente Massoud Barzani — che hanno riempito il vuoto di potere del dopo Saddam, realizzando in silenzio il sogno proibito dell’indipendenza. Eredi di una tragedia novecentesca, lo smembramento del popolo curdo nel 1923 in quattro Stati diversi (Turchia, Siria, Iran, Iraq), Talabani e Barzani stanno trasformando un nazionalismo dolce e perseguitato in qualcosa di diverso, al tempo stesso indispensabile e pericoloso.
La foto-simbolo del capolavoro diplomatico curdo risale al marzo 2011: ritrae Barzani mentre inaugura l’aeroporto internazionale di Erbil al fianco del presidente turco Erdogan. Il nemico storico non solo è giunto in visita in quello che di fatto è diventato lo Stato dei curdi, ma vi ha investito miliardi di dollari costruendo un’alleanza di ferro. Oggi un gasdotto rifornisce Ankara col petrolio curdo. Buona parte dei prodotti in vendita nei centri commerciali di Erbil vengono dalla Turchia. L’aeroporto e molti grattacieli sono stati edificati grazie alla partnership col leader neoottomano che in cambio ha solo bisogno di mantenere sottaciuta, non dichiarata, l’indipendenza curda.
Nella hall del sontuoso Hotel Rotana incontro Staffan De Mistura, inviato del segretario generale dell’Onu in Siria. Viene a Erbil perché il governo regionale del Kurdistan iracheno è divenuto protagonista imprescindibile della resistenza all’Is: «Non tutto il male viene per nuocere», spiega. «La capacità strategica dell’Is di manovrare insieme armamenti tradizionali e terrorismo suicida, oltre che una guerra mediatica ferocemente raffinata, costringe il mondo civile a riunire le forze». Il perno della nuo- va alleanza è a Erbil, cioè richiede che venga concessa fiducia alla nuova potenza curda. Pur di vincere le ultime resistenze del turco Erdogan, De Mistura ha fatto ricorso a un paragone imbarazzante col genocidio di Srebrenica: «Poiché la battaglia di Kobane ha assunto un rilievo simbolico, era divenuto essenziale che Ankara autorizzasse il passaggio sul suo territorio dei rinforzi peshmerga curdi». Ma l’autorizzazione non sarebbe mai giunta se Erdogan non si fidasse del senso di responsabilità dei leader curdi iracheni, attenti a non dare fiato alle pretese indipendentiste dei confratelli turchi e siriani.
È un equilibrio delicatissimo, quello che si sta realizzando in questo Stato di fatto mai dichiarato. Lo si verifica, a sud di Erbil, nella città petrolifera di Kirkuk. Se oggi Kirkuk è entrata a far parte dell’area di influenza curda (catastrofica sarebbe la sua caduta nelle mani dell’Is), si evita di chiamare in causa l’articolo 140 della Costituzione irachena, in base al quale un referendum potrebbe ufficializzarne l’ingresso nella giurisdizioÈ ne del Kurdistan. Si fa ma non si dice.
Ciò spiega perché nel vecchio suggestivo caffè Bazco, a ridosso della millenaria cittadella di Erbil, si pronunci malvolentieri il nome di Mustafa Ocalan, il leader del Pkk detenuto da 15 anni nell’isola-prigione turca di Imrali. E ciò nonostante Ocalan stia trasmettendo inviti alla moderazione ai guerriglieri Pkk restii a scendere a patti con Ankara, convinto anche lui della necessità di creare un fronte unito contro i tagliagole Is. Ocalan resta un simbolo amato, e chissà che domani non possa esercitare una funzione benefica di pacificazione dopo tanto sangue versato, ma per il momento va messo in sordina se si vuole realizzare a Kobane la saldatura fra i peshmerga curdi iracheni e i combattenti siriani curdi del Pyd, temuti dalla Turchia per i legami col Pkk. Per coinvolgere davvero la Turchia nella coalizione anti-Is bisogna che l’unica voce ufficiale curda rimanga quella di Erbil.
La simpatia che circonda il nazionalismo curdo non può infatti cancellare gli interrogativi sulla potenza con cui oggi occupa la scena. Chi ha vissuto al fianco dei peshmerga la drammatica estate dell’offensiva jihadista, sottolinea la tradizione pluralista e la disponibilità alla convivenza dei curdi. Il direttore dell’Unicef in Iraq, Marzio Babille, protagonista di coraggiose operazioni di soccorso nelle città assediate dai tagliagole, non si stanca di ripeterlo: «Il Kurdistan iracheno è l’unica regione di quest’area insanguinata nella quale vige il rispetto dei diritti umani; e viene praticata una generosa accoglienza dei profughi di ogni confessione religiosa». Ma è vero anche che le nuove generazioni hanno smesso di imparare l’arabo. Il distacco dall’Iraq è un fatto compiuto. È lecito chiedersi se questo nazionalismo che si fa Stato fuori tempo massimo non darà luogo a nuovi accidenti della storia. Dubbio legittimo. Intanto godiamoci questa isola di libertà in mezzo alla barbarie. Il sole del deserto rende abbaglianti i grattacieli di Erbil, i profughi accampati nelle tende dell’Onu li osservano pieni di speranza.
Repubblica 13.11.14
Herzog “Non so cosa sia la paura”
Il rapporto con il paesaggio, l’arte, la fatica, il cinema e Youtube il grande regista tedesco oggi ospite nelle Langhe si racconta
di Dario Olivero
BAROLO (CUNEO) I FATTI mentono. Quando qualcuno dice «questi sono i fatti, quindi questa è la verità», mente. O meglio, dice solo un aspetto della verità, quella che Werner Herzog definisce «la verità dei contabili ». Ecco i fatti. Herzog è nelle Langhe tra Barolo e Alba per tenere oggi una conferenza sul paesaggio. Sta piovendo ininterrottamente. Dal castello di Grinzane Cavour le colline sono inghiottite dalla foschia come in un quadro di Friedrich.
E quello che è uno dei più grandi registi viventi, quest’uomo di 74 anni vissuti pericolosamente, che ha attraversato gran parte dell’Europa a piedi, ha girato un numero sterminato di film e documentari, ha combattuto contro la natura nella giungla e nei deserti, guardando il paesaggio con gli occhi divenuti due fessure dice tre frasi che forse fatti non sono. «Un paesaggio non ha niente di romantico, un paesaggio ci colpisce per il suo aspetto preistorico. Per quello che suscita nel nostro profondo». Quando e come avviene lo scivolamento da un piano all’altro, dal regno dei contabili a quello nascosto è il mistero racchiuso nei film di Herzog. Ma il mistero resterà tale. Solo film come Cuore di vetro o Aguirre furore di Dio o L’enigma di Kaspar Hauser possono fornire qualche indizio su cosa significa andare oltre i fatti. Perché ogni domanda rivolta a Herzog cade in una terra dove le parole si arrendono e lasciano il campo all’azione. Cercare la verità oltre i fatti è un atto pratico, ha sempre sostenuto Herzog. Essere radicali – ed Herzog lo è sempre stato – significa essere pragmatici. I registi lo sono, devono esserlo. «Bergman – aggiunge Herzog riparandosi dalla pioggia – spesso incominciava la sua ricerca dal volto umano, da un particolare di un viso. Per me è sempre stato più importante un paesaggio».
Che cos’è un paesaggio?
«C’è un uso commerciale del paesaggio, per esempio quello che viene utilizzato come sfondo in uno spot. Ma un paesaggio può avere un significato molto più profondo. Le immagini che lo fissano possono cambiarci prospettiva e percezione. A volte il cinema e la grande pittura possono farlo».
Lei è convinto che le immagini possano causare
una reale trasformazione in chi le guarda?
«Il cinema non ha un potere diretto, a parte alcune eccezioni. Recentemente ho girato un film per la AT&T, la società telefonica. Non volevo farlo, poi mi hanno spiegato che volevano fare una campagna per denunciare che gli incidenti più catastrofici sono causati da chi scrive messaggi sul cellulare mentre guida. Allora l’ho fatto e l’ho messo su Youtube».
Per lei è stato normale metterlo su Youtube?
«Su Youtube tutto quello che supera gli otto minuti non viene guardato. Infatti le cose più viste sono i milioni di video sui crazy cats, i filmati di gatti. Il film è stato visto da mezzo milione di persone, nonostante sia lungo 34 minuti. La conseguenza pratica è che dopo averlo visto non digiterai mai più un messaggio mentre guidi. Questa è appunto un’eccezione. Proposito pratico, risultato pratico. Non è quello che normalmente fa il cinema».
Normalmente il cinema non contempla neanche l’idea di “estasi” che per lei è centrale.
«Estasi è uno stato fisico. È quando salti fuori dal tuo corpo, dalla tua esistenza, dal tuo limite fisico e voli. Ma non siamo nati per volare. Uccelli e frisbee sono fatti per volare. Possiamo volare fuori da noi stessi attraverso il cinema qualche volta. O con la musica, con la poesia. Abbiamo la possibilità di passare a una forma di verità più profonda. Naturalmente questo non ha nulla a che vedere con il cosiddetto cinéma vérité e con la verità dei contabili. È attraverso l’invenzione, che si può giungere a certi momenti di illuminazione. Più che fornire informazione è importante provocare estasi e illuminazione. I fatti non costituiscono la verità: questa è sempre stata una mistificazione. Non esiste nessuna verità dei fatti».
La sua idea di ricreare un universo alternativo alla creazione ha degli aspetti quasi gnostici. Se fosse vissuto nel Medioevo sarebbe stato bollato come eretico. È d’accordo?
«(Ride) Mi sarei trovato più a mio agio in quella che chiamiamo erroneamente preistoria e che invece mostra di avere una civiltà e un’arte. Sono affascinato dalle forme d’arte arcaiche. Penso alle grotte Chauvet del documentario Caves of Forgotten Dreams. Oppure alla Sicilia, alla necropoli di Pantalica».
Si è dato una spiegazione?
«No. Ma il silenzio, il silenzio… Il silenzio che si avverte in quei posti è una diversa forma di silenzio».
Con Fitzcarraldo ha spostato una vera nave su una vera montagna in una vera foresta. Ha mai avvertito la fatica e la disperazione di Sisifo?
«Devo confessare di non essermi mai sentito così perché per Sisifo lo sforzo è vano. La roccia che nel mito greco spinge sulla montagna torna sempre giù, all’infinito. Io ho portato la mia roccia dall’altra parte della montagna. Ho portato a termine una cosa che si può toccare, che si può vedere. Ho sempre finito quello che ho iniziato. Sisifo non riesce a finire il suo lavoro con il masso. Questa è la tragedia. Io non ho vissuto una vita tragica né una vita assurda».
Cambiamo immagine. Un uomo cammina e si allontana, arriva così lontano che le strade sono finite. Procede ancora e vede quello che non dovrebbe essere visto. Quando torna non lo può raccontare a nessuno. È capitato anche a lei? Ci sono cose che non si possono mostrare?
« Grizzly Man è l’esempio. Mi è stato immediatamente chiaro che non potevo mostrare né far udire le scene che riguardavano la morte del ragazzo ucciso da un orso. Più in generale ci sono i video dell’11 settembre. Centinaia di persone si sono gettate dai palazzi del World Trade Center molto vicini alle telecamere ma nessuno ha mai visto quelle immagini. Non si può toccare, oltre alla privacy, la dignità umana. Il mio secondo film, Gioco nella sabbia, non l’ho mai pubblicato e non lo pubblicherò mai. Quando lo girai avevo solo 22 anni, ma capii che c’erano cosa che un film può mostrare e altre che non può mostrare».
Ma oggi è facile trovare ogni tipo di immagine su Internet.
«Internet non ha struttura. Ma la struttura deve essere in te. Per capire le cose devi capirne la grammatica. Solo così riuscirai a muoverti in questa massa amorfa di informazioni. Per farlo devi avere una struttura culturale, ideologica, informativa ed è quello che manca soprattutto ai più giovani».
Perché?
«Perché non leggono abbastanza. Questo vale anche per i film. La cosa che deve essere postulata è leggi, leggi, leggi. Se non leggi non puoi essere un uomo di cinema. Puoi essere un mediocre cineasta, ma non un grande uomo di cinema. Devi leggere. Questa mancanza di grammatica culturale è una delle ragioni per cui la gente oggi vive con un continuo senso di perdita. In Internet perdono se stessi e perdono le cose».
Come si recupera ciò che si perde?
«È come attraversare i paesi a piedi. È difficile da spiegare come il mondo rivela se stesso a chi viaggia a piedi».
Quindi si torna dove eravamo partiti, al paesaggio. C’è una relazione tra paesaggio, estasi, fatica fisica, per esempio camminare.
«A volte quando cammini a lungo, il paesaggio non scompare ma adotta qualità diverse e sviluppa interi romanzi. Quando si cammina la sera e il sole cala e l’oscurità ricopre l’intero paesaggio si perde la direzione eppure si continua a tenere la strada».
Mister Herzog, che cos’è per lei la paura?
«Non lo so. Non esiste nel mio vocabolario».
Repubblica 13.11.14
Ecco che cosa abbiamo imparato da Federico Caffè
L’intervento del presidente Bce al convegno per il centenario dell’economista a Roma
di Mario Draghi
CONOSCENZA della realtà: istituzionale, sociale, comportamentale; capacità di indignarsi per ciò che in questa realtà violava principi etici fondamentali, o anche la razionalità economica, quando vedeva la stupidità prona al servizio dell’avidità; perentorio richiamo ad agire e insieme rimprovero per una accettazione passiva della realtà; cosa fare per porre rimedio alle disuguaglianze ma anche alle inefficienze: questa era la politica economica di Federico Caffè, questa è oggi la Politica Economica nella sua definizione più alta.
È questa sua complessa e completa personalità che reagisce di fronte alla realtà con ragione, con passione, con azione e che sente il bisogno di condividere tutto ciò con i suoi alunni che lo ha reso indimenticabile. Noi, noi studenti (io mi laureai con lui nel ’70 con una tesi sul Piano Werner, il precursore della moneta unica, in cui sostenevo che le condizioni per la sua attuazione allora non esistevano) abbiamo vissuto vite professionali sicuramente diverse tra loro, anche per le diverse interpretazioni che abbiamo dato dei suoi insegnamenti, ma accomunate dalla convinzione che fare politica economica significasse: analisi della realtà, rifiuto delle sue deformazioni, impiego delle nostre conoscenze per sanarle.
È con questa eredità di pensiero che ci confrontiamo e che desidero condividere l’azione che la BCE ha intrapreso per rispondere alla crisi nella quale l’area dell’euro e specialmente l’Italia versa, da ormai molti anni. L’attuale, inaccettabile livello della disoccupazione – il 23% dei giovani tra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro – è contro ogni nozione di equità, è la più grande forma di spreco di risorse, è causa di deterioramento del capitale umano, incide sulle potenzialità delle economie diminuendone la crescita per gli anni a venire. [...] I fattori ciclici hanno avuto un ruolo importante nell’aumento della disoccupazione. La BCE ha reagito alla crisi su tre fronti. Per quanto riguarda la politica monetaria cosiddetta convenzionale, ha portato il livello dei tassi di interesse dal 1,5% nel novembre 2011 allo 0,05% oggi. Ha portato il tasso di interesse pagato dalle banche per i loro depositi presso la stessa BCE dal 75 punti base nel novembre 2011 a -0,20 oggi. Ha inoltre attivato già alla fine del 2011 linee di credito per il sistema bancario per 1 trilione di euro e per una durata senza precedenti di 3 anni. [...] Ma gran parte delle misure intraprese può avere effetto sull’economia reale solo attraverso le banche, che nell’eurozona intermediano circa l’80% del credito. Solo se esse passano a famiglie e imprese le condizioni straordinariamente espansive sia in termini di tasso di interesse, sia di durata, sia di quantità disponibile che la BCE offre loro, la politica monetaria è pienamente efficace nella sua azione di stimolo. Perché ciò avvenga occorre che non solo vi sia domanda di credito da parte di clienti in grado di restituirlo, ma che esse stesse siano sane. È a tal fine che la BCE, alla vigilia del diventare il supervisore unico dell’Eurozona, insieme a tutti gli organismi di vigilanza nazionale, ha lanciato un anno fa e da poco completato un’analisi approfondita, il Comprehensive Assessment , delle 130 banche europee più significative. In tal modo è stato rimosso un altro ostacolo al contributo che la politica monetaria della BCE può dare alla ripresa della crescita. [...] Una politica monetaria espansiva, una politica fiscale, che, nel rispetto delle regole esistenti, veda maggiori investimenti e minori tasse, non sono sufficienti a generare una ripresa della crescita forte e sostenibile senza le necessarie riforme strutturali dei mercati dei prodotti e del lavoro. Maggiore concorrenza, completamento del mercato unico europeo, misure che permettano ai lavoratori disoccupati di trovare un nuovo posto di lavoro diminuendo la durata della disoccupazione, misure che permettano di innalzare il livello di specializzazione e di adattarne le caratteristiche alla domanda sono da tempo nell’agenda della politica economica di molti paesi dell’euro: la riflessione faccia ora posto all’attuazione.
È chiaro che entrambe le politiche, quella della domanda e quella dell’offerta, sono necessarie. La lezione del 2012 ci ha insegnato che la crisi di fiducia nell’euro era anche causata dall’incertezza, rivelatasi infondata, sul futuro della moneta unica. A questa incertezza i leader europei reagirono nel giugno del 2012 con la creazione dell’unione bancaria che ha portato alla vigilanza unica della BCE. Questo è stato l’atto di integrazione più importante che sia mai stato deliberato dalla creazione dell’euro. I paesi dell’eurozona hanno in questi anni rafforzato i loro legami e corrispondentemente allargato la base di fiducia su cui essi poggiano: con la politica monetaria comune, con regole di bilancio comuni, ora con una unione bancaria e una vigilanza bancaria comune e presto con un mercato di capitali comune. La nostra esperienza mostra che la condivisione della sovranità nazionale è condizione necessaria per una fiducia duratura nel disegno del nostro comune viaggio europeo.
Il Sole 13.11.14
Un maestro riformista. «Importante per i giovani pensare con la propria testa»
Visco ricorda la lezione di Federico Caffè
«Fu sempre dalla parte dei più deboli, critico della idealizzazione del mercato e sostenitore di un ruolo attivo dello Stato»
di R.Boc.
ROMA Un riformista vero, un eclettico più per necessità che per scelta, che ha lasciato ai suoi studenti un insegnamento essenziale: quello dell'importanza del pensare con la propria testa. Così il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha delineato ieri il personaggio Federico Caffè, l'economista del quale anch'egli, come Mario Draghi, è stato allievo durante i suoi studi all'Università La Sapienza di Roma. Visco ha sottolineato che Caffè «fu sempre dalla parte dei più deboli, critico esplicito della idealizzazione del mercato e sostenitore di un ruolo attivo dello Stato per correggerne le inefficienze e rimediare alle diseconomie». Quanto al tema del lavoro, il professore del quale quest'anno ricorre il centenario dalla nascita «guardava al lavoro non solo come occupazione ma anche come realizzazione della persona, all'istruzione e alla formazione come componente fondamentale dell'uguaglianza delle opportunità. E guardava con preoccupazione a una finanza speculativa e disgiunta dall'economia reale». Al tempo stesso, ha rievocato ancora Visco, Caffè non fu mai «contro il progresso e la tecnologia, né a favore di un non rispetto dei vincoli di bilancio, né contro il riconoscimento del merito o a favore di un vago "egualitarismo": fu anzi molto critico verso alcune posizioni estreme». Visco ha poi ricordato lo stretto legame fra Caffè e la Banca d'Italia, della quale egli fu a lungo consulente: «Soffrì, negli anni della contestazione studentesca del 1968-69, per sciocche accuse, legate a questo suo rapporto di consulenza, di "connivenza con i difensori del capitale, del potere economico e finanziario, dei padroni", mortificato anche per la ristrettezza mentale ma comprensivo per l'età di chi le avanzava» ha detto ancora Visco. E ha aggiunto: «Vi è da osservare, peraltro, che ogni stagione ha le sue "sciocche interpretazioni" e anche oggi certo esse non non mancano». Visco ha concluso rievocando l'ammonimento di Caffè agli studenti: «Siate sempre vigili, non cedete mai agli idoli del momento, vale a dire alle frasi fatte, alle frasi convenzionali, rifletteteci con il vostro pensiero e la vostra capacità intellettuale». Un motivo in più, quello dell'esigenza di sviluppare l'autonomia intellettuale, che ha spinto ieri, nel corso del convegno, il governatore Visco a battere a lungo sull'esigenza di investire di più sulla scuola, per garantire un'adeguata formazione e per contrastare la disoccupazione tecnologica.
Anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dato ieri il suo contributo alla commemorazione dell'economista scomparso. Anche se i problemi economici odierni sono diversi da quelli di allora, ha scritto il capo dello Stato in un messaggio inviato al convegno, «il fondamento etico del suo pensiero, la passione civile che lo alimentava possono rappresentare valori guida per le prossime generazioni di economisti».
L’Italia in piazza e i 22 giorni di fermo
Le iniziative della Fiom nelle industrie del Nord, poi toccherà ai ferrovieri L’agitazione degli autotrasportatori e i timori degli italiani tra Pil e incertezza Il blocco dell’Autosole ha nella storia politico-sindacale italiana un suo forte valore simbolico, è il segno di un Rubicone varcato, di una rabbia che non trova argini. Ieri le tute blu della Ast di Terni l’hanno fatto e di conseguenza hanno spaccato l’Italia per più d’un paio d’ore. Stiamo parlando di operai che sono arrivati ormai al 22° giorno di sciopero ad oltranza con circa 70 tonnellate di mancata produzione. Numeri che, tanto per capirci, ricordano gli anni 80 e i 35 giorni ai cancelli di Mirafiori. La decisione di invadere le corsie è stata presa in alternativa all’occupazione dalla fabbrica e i sindacalisti si sono accodati di fronte alla determinazione dei delegati di fabbrica. Da più di tre settimane nello stabilimento di Terni sono ferme le forniture di acciai per Electrolux, Indesit e Fiat e questo blocco costa circa 100 mila euro al giorno, solo di penale per il mancato rispetto del contratto di fornitura.
Il sospetto avanzato dai sindacati è che i vertici aziendali della Thyssen giochino a dimostrare che l’impianto umbro non ha futuro e di conseguenza non si straccerebbero le vesti se dovessero perdere i clienti top dell’auto e degli elettrodomestici. Quale che sia la verità gli operai hanno sgomberato l’autostrada solo quando è arrivata la notizia di una convocazione, per questa mattina, nell’ufficio del ministro Federica Guidi. I sindacati ci andranno con un retropensiero: l’idea che si possa coinvolgere la Cassa Depositi e Prestiti anche nel salvataggio di Terni. Intanto l’ipotesi (molto più sensata) di trovare una sponda a Bruxelles e di far saltare il veto anacronistico dell’antitrust europeo, che ha bloccato la vendita dell’Ast ai finlandesi di Outokumpu, purtroppo non decolla. La neo-commissaria alla concorrenza, la danese Margrethe Vestager, ha detto chiaro e tondo che nelle sue stanze non c’è la soluzione per l’Umbria.
L’immagine dell’Italia bloccata però, e purtroppo, non inizia e finisce a Orte. Domani in contemporanea sono previsti lo sciopero delle fabbriche del Nord proclamato dalla Fiom di Maurizio Landini con manifestazione a Milano e un’astensione dal lavoro proclamata dai Cobas del trasporto ferroviario. E proprio ieri è stato indetto con squilli di tromba dalla Cgil di Susanna Camusso uno sciopero di otto ore per venerdì 5 dicembre. Il caso poi ha voluto che ancora ieri arrivasse dalle associazioni degli autotrasportatori l’annuncio della proclamazione dello stato di agitazione contro le proposte per il settore avanzate dal ministro Maurizio Lupi.
E’ chiaro che si tratta di rivendicazioni e azioni di lotta che non si prestano ad essere sommate aritmeticamente. C’è di tutto un po’, timori di chiusura di un impianto efficiente, scioperi a forte valenza politica, il “blocco ergo sum” di piccole sigle sindacali, prove di forza tra categorie e ministero competente, ma il quadro che ne viene fuori non è certo rassicurante.
E’ vero che da qui alla fine dell’anno il Pil non ci lascia presagire niente di buono e scaramanticamente stiamo aspettando il giro di boa del 31 dicembre, l’insieme di queste agitazioni finisce per comunicare però un senso di impotenza e di rabbia sorda. Gli italiani che leggeranno i giornali e ascolteranno i tg ne ricaveranno una sensazione non certo gradevole, saranno portati a pensare che oltre a tutti i guai dell’economia per tre settimane sarà difficile persino muoversi.
P.S. Alla Berto’s di Padova 48 ore fa è stato firmato un accordo integrativo che prevede nel triennio un premio variabile di 5.900 euro. Ieri alla Barilla un’analoga intesa frutterà ai 4 mila dipendenti un premio di produzione che in tre anni equivarrà a 2.600 euro. In Italia succede anche questo.
Corriere 13.11.14
Protesta l’Ast di Terni, autostrada bloccata Camusso: sciopero generale il 5 dicembre
di Francesco Di Frischia
Guidi convoca per oggi i sindacati della fabbrica umbra. Duello nel Pd sulla mobilitazione Cgil Boom della cassa integrazione, più 19,3%. Vertice al Viminale per le manifestazioni di domani ROMA Mentre Susanna Camusso proclama per la Cgil lo sciopero generale di otto ore per il 5 dicembre contro la legge di Stabilità e il Jobs act, il ministro Alfano convoca al Viminale un vertice con i sindacati: teme proteste stile «forconi» e disordini in occasione delle manifestazioni organizzate domani in 16 grandi città da sindacati di base, studenti, centri sociali e precari contro i provvedimenti del governo Renzi, senza dimenticare i metalmeccanici della Fiom che, sempre domani, scendono in corteo a Milano. Nel frattempo, però, centinaia di operai dell’Ast di Terni bloccano a sorpresa l’A1 all’altezza di Orte per circa 4 ore: la protesta per i 291 esuberi annunciati dall’azienda siderurgica termina solo quando il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, anticipa a stamattina la convocazione dei sindacati, fissata per martedì prossimo. Intanto arrivano cattive notizie dall’Inps: le ore di cassa integrazione a ottobre sono cresciute del 19,3% rispetto allo stesso mese del 2013. In particolare la cig straordinaria è aumentata a ottobre del 27,1% rispetto a un anno fa e quella in deroga è addirittura esplosa nello stesso periodo facendo segnare un +136,4%.
Susanna Camusso lancia un appello a Cisl e Uil affinché partecipino alla mobilitazione generale del 5 dicembre. «La proposta parte dalle richieste venute dalle piazze del 25 ottobre e dell’8 novembre e dalla volontà di salvaguardare tutti i punti delle iniziative unitarie», precisa. E la scelta del 5 dicembre, aggiunge, «risponde all’esigenza di raccogliere la mobilitazione unitaria già decisa dai sindacati della scuola» e dalla volontà di proseguire la protesta dei lavoratori pubblici con la manifestazione di sabato scorso a Roma. La convocazione da parte del ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, per il 17 novembre, «non cambia la situazione», secondo la leader della Cgil, perché il governo «non ha intenzione di cambiare la legge di Stabilità». A chi le fa notare le parole del segretario aggiunto della Uil, Carmelo Barbagallo, che vorrebbe «prima sentire le posizioni dell’esecutivo», Camusso replica: «Siamo sempre stati disponibili al confronto» e la convocazione «appare proprio il risultato della mobilitazione dei lavoratori pubblici: per questo va continuata la lotta a sostegno della nostra piattaforma».
Che il clima sia teso lo conferma la rivolta dei lavoratori dell’Ast di Terni, esasperati dopo tre settimane di sciopero: al termine di una assemblea davanti alla fabbrica, bloccano per 4 ore la A1 a Orte, causando 9 chilometri di coda. L’episodio fa solo aumentare la preoccupazione, già grande, al ministero dell’Interno per domani quando si sovrapporranno lo sciopero proclamato dai sindacati di base (Asia-Udb-Rdb) e la manifestazione della Fiom a Milano: tra 24 ore infatti studenti, precari, movimenti, sindacati di base, disoccupati e centri sociali sono in piazza, da Nord a Sud, per il primo #sciopero sociale italiano , come è stato ribattezzato sui social network per opporsi ai provvedimenti del governo Renzi. Le città coinvolte sono Roma, Milano, Padova, Venezia, Genova, Torino, Bologna, Firenze, Pisa, Perugia, Pescara, Chieti, Bari, Napoli, Taranto e Catania.
il Fatto 13.11.14
Sciopero, botte Cgil-Renzi, e ormai ci sono due Pd
Protesta il 5 dicembre, i Matteo-boys: “Così fanno il ponte dell’Immacolata...”
di Salvatore Cannavò
Quando alla segreteria del Pd hanno appreso la data dello sciopero generale della Cgil, il 5 dicembre, hanno festeggiato. Lo scontro mediatico tra il “partito” e il sindacato è tornato di nuovo a livelli altissimi, inondando il web e creando un nuovo motivo di polemica che travalica il merito della protesta. A dare fiato alla contesta è stato Ernesto Carbone, neo-componente della segreteria del Partito democratico, renziano di fresca adesione: “Il 5 dicembre è un venerdì poi sabato, domenica e lunedì 8 dicembre che è festivo... il ponte è servito #Coïncidence”.
IL TWEET SI È COSÌ sommato ai tanti che si sono rincorsi in rete e che hanno visto l’indicazione della vigilia dell’Immacolata come una scelta di cattivo gusto. Tanto che, in serata, ha provato a ricucire il presidente del Pd, Matteo Or-fini, sempre via Twitter: “Non condivido le ragioni dello sciopero della Cgil, ha scritto. Ma un lavoratore che sciopera sacrifica molto. Ironizzare sulla data è un'inutile offesa”. Anche la Cgil ha replicato. Prima con Maurizio Landini che, difendendo la data, ha bollato come “sciocchezze” le polemiche. Lo stesso ha fatto il segretario confederale, Danilo Barbi, il quale ha ricordato che, in ogni caso, il ponte è relativo visto che sono in molti a lavorare il 6 dicembre. Più diretto nel rispondere alla polemica, invece, il portavoce di Susanna Camusso: “I lavoratori italiani – scrive Massimo Gibelli nel suo blog sull’Huffington Post – sciopereranno il primo venerdì di dicembre non certo per andare in vacanza, come raccontano i professionisti e i polemisti della politica, quelli che non sanno le regole e che spesso non hanno mai lavorato; quelli che neppure conoscono i sacrifici che un lavoratore deve compiere quando decide di scioperare e rinunciare alla paga di un'intera giornata. Quegli stessi – continua Gibelli – che pensano ai lavoratori, come fancazzisti, assenteisti, bestie da soma alla ricerca di un ponte per spendere i propri guadagni in un resort o in un viaggio all'estero (perché è questo quello che loro farebbero) ”. Parole durissime, le più dure utilizzate nelle polemiche a sinistra e che danno la misura dello scontro all’ultimo sangue che non sembra ormai più reversibile. La scelta del 5 dicembre, presentata al direttivo della Cgil ieri mattina, ha visto la confederazione tutta unita dietro al segretario generale, tranne i tre membri della piccola minoranza interna. Qualche “perplessità” in platea sulla data prescelta c’è stata, ma chi l’ha avuta ha preferito tenere le critiche per sé. La proclamazione dello sciopero era una scelta obbligata in cui si è rinsaldata l’alleanza tra Landini e Camusso: “Sono d’accordo con la relazione del segretario” è stato l’esordio, il primo dopo tanto tempo, del segretario Fiom. E lo sciopero sarà contro il Jobs Act e contro la legge di Stabilità, “tanto non credo sarà cambiata”, commenta Camusso.
SULLE SCELTE della data, però, ha pesato la logica di scontro diretto con il governo che, oltre a trascurare l’impatto mediatico del “ponte” ha tagliato ulteriormente i ponti con gli altri due sindacati, Cisl e Uil, indisponibili a seguire la sorella maggiore sulla strada dello sciopero generale. Fino a creare anche una “gaffe” nei rapporti sindacali. Nel documento finale approvato dal direttivo, infatti si legge che “la Cgil plaude alla scelta dei sindacati dei comparti pubblici di proclamare per il prossimo 5 dicembre uno sciopero generale unitario”. La propria data, quindi, è offerta come valorizzazione di quella iniziativa. In serata, però, arriva la smentita della Cisl: “Nessuna data di proclamazione di sciopero generale per il giorno 5 dicembre era stata sottoscritta dai sindacati di categoria della Cisl della scuola e del pubblico impiego” “Siamo sorpresi che la Flc Cgil e la Cgil funzione pubblica, che ieri ci avevano preannunciato di fare un’ iniziativa unitaria, abbiano votato uno sciopero generale che nulla ha a che vedere con le rivendicazioni della manifestazione dell’8 novembre per il rinnovo contrattuale”. La scelta di tenere alto lo scontro, dopo la grande manifestazione del 25 ottobre, brucia così anche i legami unitari che ancora tengono unite le tre confederazioni. E così, nonostante Ca-musso abbia presentato la data del 5 dicembre come “l’opportunità di un momento di mobilitazione unitaria e generale” la risposta è stata totalmente negativa. Annamaria Furlan, neo-segretario generale Cisl, ha preferito apprezzare l’apertura ai sindacati del pubblico impiego convocati ieri dalla ministra Marianna Madia per il 17 novembre. E lo stesso ha fatto anche il neo-segretario Uil, Carmelo Barbagallo, che pure aveva lasciato aperta la possibilità, nei giorni scorsi, di uno sciopero a due assieme alla Cgil. La partita, quindi, vede impegnato il sindacato “rosso” contro il partito più grande a sinistra. E contro il suo leader.
La Stampa 13.11.14
Intesa Renzi-Berlusconi
Il premier: avanti con Fi anche se divisi su alcune votazioni
Resta il nodo sbarramento
Renzi salva il Patto e allarga la maggioranza per il Colle
No della minoranza Pd
Nota congiunta: “L’intesa è più solida che mai”
di Fabio Martini
Nello studio foderato di tappezzeria gialla del presidente del Consiglio, i due istrioni si congedano in un clima complice, a base di sorrisi e battutine, con Matteo Renzi che richiude la porta più raggiante che mai e con Silvio Berlusconi che se ne va, senza neppure volere essere presente alla stesura del testo finale congiunto, quello nel quale si dirà che «l’impianto» del Patto del Nazareno è «più solido che mai», salvo glissare sul fatto che le divergenze permangono su punti qualificanti. L’incontro, l’ottavo in undici mesi, è durato una novantina di minuti e si è svolto in un clima di grande simpatia. Ad un certo punto il presidente del Consiglio ha spiegato a Berlusconi: «Silvio, lo capisci bene che non posso disattendere un accordo con i partiti della maggioranza raggiunto soltanto due sere fa...». E il Cavaliere, a quel punto, dando per scontato un dissenso, anziché impuntarsi, ha lasciato correre, anche per non passare alla storia - ha spiegato a Renzi - come il persecutore dei partitini. Alla fine dell’incontro Matteo Renzi era decisamente compiaciuto: sul piano della manovra politico-parlamentare nell’ultima settimana gli è riuscito tutto. In una fase che Renzi stesso, nella riunione della Direzione Pd in serata, ha provato a drammatizzare, sia pure con misura: «Noi siamo al momento forse più delicato della legislatura perché stanno venendo al pettine tutti i principali nodi, in una fase in cui anche a livello internazionale coincidono diversi problemi». E ancora: «È evidente a tutti che nessuno considera la legge elettorale il principale problema con cui gli italiani vanno a dormire. Ma è il pin del telefonino, la password del pc per dire che si fanno le cose sul serio». E da ieri sera Renzi è tornato in possesso del Pin che potrebbe consentirgli di eleggere il Capo dello Stato a lui gradito: ha ricompattato la sua maggioranza, ha salvato il Patto del Nazareno con Berlusconi. Sulla carta da ieri sera dispone di quasi 700 “grandi elettori” per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica e ne bastano 504. Nel corso dell’ultima settimana Renzi è riuscito a far convergere i voti dei parlamentari Cinque Stelle sulla candidata del Pd alla Consulta; ha portato decisamente dalla sua parte i «partitini» della maggioranza; ha fatto trangugiare a Berlusconi il testo di una riforma che l’altro non condivide, ma senza per questo subire la disdetta del controverso Patto del Nazareno. E Renzi, sulla riforma tagliata su sua misura, ha incassato l’impegno di tutti a chiudere la lettura del Senato entro l’anno, per poi andare all’approvazione finale in data da fissare, ma comunque nei primissimi mesi del 2015. Ed entro quella data il presidente del Consiglio - lo ha fatto scrivere anche nel documento congiunto con Berlusconi - conta di aver incassato anche la seconda lettura della riforma che ridimensiona il Senato. Tutti «trofei» in vista di un appuntamento elettorale al quale Matteo Renzi sta pensando davvero, a dispetto di tutte le dietrologie su possibili elezioni anticipate: le elezioni in 9 Regioni che, tra il 23 novembre e la primavera del 2015, porteranno alle urne quasi 30 milioni di italiani. Renzi non può dirlo esplicitamente, ma il suo obiettivo inconfessabile è quello di un 9 a 0, anche se - dicono i suoi - si contenterebbe di recuperare al centrodestra almeno una delle due grandi regioni governate dall’opposizione: la Campania o il Veneto. E così, a fine giornata e una volta ancora, il fronte più dolente per il presidente del Consiglio restava quello interno, quello della minoranza del Pd e quello della piazza anti-Renzi, che da ieri ha anche una data per ritrovarsi: il 5 dicembre per lo sciopero generale indetto dalla Cgil.
La Stampa 13.11.14
Renzi-Berlusconi, accordo a metà
di Ugo Magri
Solo nella patria di Machiavelli può accadere che due leader si dichiarino in disaccordo su altrettanti punti chiave della riforma elettorale, salvo sostenere poi che il loro patto non è mai stato così forte. L’incontro tra Renzi e Berlusconi si è concluso con un comunicato congiunto dove viene argomentato proprio questo paradosso. Per cui viene da domandarsi come ciò sia possibile ed, eventualmente, che cosa si nasconda dietro.
Chi è bene al corrente del colloquio garantisce che davvero quei due sono andati per un’ora e mezzo d’amore e d’accordo. È stato tutto uno scambio di complimenti battute e perfino smancerie. Mai un passaggio scabroso, nemmeno quando si è arrivati a trattare i motivi del dissenso: il premio di maggioranza alla lista anziché alla coalizione (è Renzi che insiste per ottenerlo), la soglia di sbarramento per i «nanetti» al 5 per cento e non al 3 (pretesa come contraccambio da Berlusconi). Tanto Silvio quanto Matteo hanno stabilito che il nodo si scioglierà con calma strada facendo, durante l’iter dell’«Italicum» in Senato che riprenderà il 18 novembre. Straordinaria acrobazia nel comunicato finale: «Le differenze registrate sulla soglia minima di ingresso e sulla attribuzione del premio di maggioranza alla lista, anziché alla coalizione, non impediscono di considerare positivo il lavoro fin qui svolto e di concludere i lavori in aula entro il mese di dicembre e la riforma costituzionale entro gennaio 2015». Non impediscono, okay, ma con i voti di chi?
Al momento non con quelli di Forza Italia che, sui punti in dissenso sembra orientata ad astenersi (e in Senato l’astensione vale voto contrario). Renzi dunque dovrà far leva sulla sua maggioranza, senza «soccorso azzurro». Lui pensa di farcela, i berlusconiani scommettono di no. Possiamo dunque immaginarci il premier e Berlusconi come due giocatori di poker, uno che sostiene di avere le carte vincenti e l’altro che lo sfida: «Vediamo». Però circola un’altra interpretazione: i due non hanno chiarito perché a entrambi fa comodo lasciare per ora dei punti in sospeso. Dimodoché Renzi possa sorridere ad Alfano: «Nonostante il pressing di Forza Italia non ho alzato le soglie, e dunque voi piccoletti mi dovete la pelle». Berlusconi, dal canto suo, può tener buoni Brunetta, Fitto, Romani e Toti (li ha visti tutti quanti ieri sera a cena) con la favola dell’accanita resistenza opposta al premier, il quale voleva imporgli una soglia del 3 per cento e lui non ha ceduto... Salvo che all’ultimo momento, zac, spunterà fuori un numero intermedio, il 4 ad esempio, capace di scontentare tutti e calare il sipario sulla vicenda.
Ma questi tecnicismi non sono il nocciolo vero. La sostanza è che l’ex Cavaliere, spalleggiato da Verdini, darebbe un dito pur di non essere tagliato fuori dai giochi e in particolare dalle scelte del dopo-Napolitano, rimaste sullo sfondo del colloquio. Al punto da sottoscrivere un comunicato entusiasta dove Renzi viene autorizzato a procedere, sui punti di dissenso, fuori dai famosi patti del Nazareno. Berlusconi è come se dicesse al premier: io non sono granché d’accordo ma tu fai pure, non c’è problema. Si sfoga al telefono un esponente «azzurro» di primo piano, a patto di restare anonimo: «È come se io dicessi: sì, mia moglie mi tradisce, però non ho nulla da obiettare e anzi il nostro matrimonio non è mai stato così saldo...».
Repubblica 13.11.14
Perchè Berlusconi ha scelto di perdere
L’ex Cavaliere accetta una nuova architettura dell’Italicum e ora deve placare il disagio di Fi
di Stefano Folli
Sul premio alla lista finale già scritto Renzi riduce Silvio a comprimario
AVOLERLO leggere con attenzione, il comunicato finale sottoscritto da Renzi e Berlusconi è più esplicito di quanto sembri. È tutto costruito per spiegare l’accordo politico sulla legge elettorale, di cui addirittura si annuncia il passaggio in aula al Senato entro la fine dell’anno. Dentro la cornice dell’intesa, si lascia un paragrafo sui punti di dissenso: soglia minima e premio alla lista.
Per paradosso sono proprio questi due punti a dimostrare che Berlusconi ha accettato quasi tutto, al di là della propaganda del giorno dopo. Di solito infatti le divergenze di merito finiscono per prevalere sulla dichiarata sintonia nel metodo. Ma non in questo caso. E si capisce. Sul «quorum» delle liste minori (il 3 oppure il 4 o magari il 5 per cento) c’è, sì, una differenza fra Renzi e il suo alleato: non tale, tuttavia, da far traballare l’impianto della legge. Sarà facile nelle prossime settimane, meglio se in Parlamento, trovare una sintesi, ossia un compromesso. In fondo non è un caso che lo stesso Alfano si sia dichiarato soddisfatto dell’incontro di Palazzo Chigi.
Viceversa, l’altro punto è strategico: non è un «distinguo » di poco conto stabilire se il premio di maggioranza deve essere dato alla lista o alla coalizione. Costituisce anzi lo snodo fondamentale che regge tutta la legge nella nuova versione che Renzi ha offerto, o meglio ha imposto al suo interlocutore. Su questo, se Berlusconi non era d’accordo, c’era solo una risposta possibile: la rottura netta e definitiva. Non è un dettaglio che si aggiusta nell’aula del Senato, bensì la prova che l’intera architettura della legge è stata modificata dal premier-segretario rispetto al vecchio Italicum. Quindi prendere o lasciare.
Brunetta nei giorni scorsi aveva colto nel segno quando dichiarava che la legge era stata stravolta e perciò Forza Italia non doveva votarla. Ma Brunetta ha suscitato il disappunto del capo e si capisce perché: la linea del vecchio leader non è mai stata la spaccatura, bensì la sostanziale copertura delle posizioni «renziane». Per cui la spina dorsale della nuova legge (il premio di maggioranza non più alla coalizione bensì al singolo partito vincitore) viene accettata dal centrodestra; e la divergenza strategica, quella che condannerà il gruppo berlusconiano a essere la terza o forse la quarta forza politica del paese, è derubricata al rango di piccolo particolare destinato a essere chiarito nel corso del dibattito in Parlamento.
In altre parole, Berlusconi ha detto «sì» e semmai con il comunicato di ieri sera ha cercato di tenere a bada i malumori dei suoi. Come dire: tranquilli, non è finita, il confronto- scontro continua, però voi fidatevi di me. La realtà è un po’ diversa. La giornata ha avuto un vincitore ed è Renzi. Nell’altro accampamento, quello del centrodestra, c’è un comprimario che subisce la personalità del premier e fa di necessità virtù, per una serie di ragioni che non sono tutte attinenti alla politica. Ne deriva che Berlusconi deve farsi piacere una legge elettorale che fino a pochi anni fa avrebbe respinto, essendo la meno adatta a ricompattare il centrodestra.
Tutto questo non significa che la nuova norma avrà senz’altro vita facile in Parlamento. Dissidenti ce ne sono nel centrosinistra come nel centrodestra. E i sussulti della minoranza del Pd, contraria ai capilista indicati dalle segreterie dei partiti, lo testimonia. Ma siamo in un campo che permette comunque un certo margine negoziale, sia a Renzi sia a Berlusconi. Ci potranno essere dei ritardi, ma il carro della riforma si è rimesso in moto. E a confermarlo arriva quell’accenno alla revisione costituzionale del Senato da approvare in seconda lettura entro gennaio. Come dire che l’annuncio del prossimo addio di Napolitano è servito a scuotere l’albero dell’inerzia.
Sul quorum per le liste minori la divergenza sarà facile da comporre L’annuncio del prossimo addio di Napolitano accelera l’iter delle riforme
il Fatto 13.11.14
Il Nazareno è fermo nella palude di Silvio
di Fabrizio d’Esposito
DALL’OTTAVO INCONTRO TRA IL PREMIER E L’EX CAVALIERE ESCE UN COMUNICATO IN CUI VA TUTTO OK. MA SENZA LA PISTOLA DELLE ELEZIONI CARICA NON SI PROCEDE
L’Ottava del Nazareno. Al buio, ovviamente. Alle cinque della sera a Palazzo Chigi, con sessanta minuti d’anticipo sull’orario fissato. Il patto segreto tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato cambia colore dopo la sceneggiata delle dimissioni annunciate di Napolitano nello scorso fine settimana. Le tinte renziane si sbiadiscono un po’ e il Condannato riesce a impantanare il tormentone dell’Italicum per allontanare l’incubo delle Politiche nel 2015 e soprattutto a puntellare il suo ruolo di “grande elettore” del prossimo capo dello Stato. Alle fine dell’ottavo vertice tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi c’è persino un comunicato congiunto, in cui si ribadisce “la scadenza naturale della legislatura nel 2018” e il “patto è più solido che mai”. Scrivono Pd e Forza Italia, a proposito della trattativa sulla legge elettorale: “Le differenze registrate sulla soglia minima di ingresso e sulla attribuzione del premio di maggioranza alla lista, anziché alla coalizione, non impediscono di considerare positivo il lavoro fin qui svolto e di concludere i lavori in aula al Senato dell’Italicum entro il mese di dicembre e della riforma costituzionale entro gennaio 2015”.
In pratica, nel colloquio a sei di Palazzo Chigi, da un lato Renzi, Guerini e Lotti, dall’altro Berlusconi, Gianni Letta e Verdini, non è stata raggiunta l’intesa sulla fatidica soglia di sbarramento, che i “piccoli” vogliono al tre per cento, Forza Italia al cinque e il compromesso della vigilia si assestava al quattro per cento. Perdipiù, viene rinviata in Parlamento anche la svolta renziana del premio di lista, alzato comunque al 40 per cento, coalizione o lista che sia. Al contrario, il fronte berlusconiano incassa il numero dei collegi, 100, e soprattutto i capilista nominati mentre il resto saranno tutte preferenze. In questo modo, il Condannato avrà ancora una volta la possibilità di scegliere i suoi parlamentari, collegio per collegio, considerato che con i suoi voti attuali porterà a casa un centinaio di deputati.
L’OTTAVO VERTICE del Nazareno è durato novanta minuti e le colombe forziste riferiscono di “una sintonia totale”, quasi di “un amore ritrovato”. Appena una settimana fa gli umori erano l’opposto, dopo il settimo incontro tra i due contraenti, sempre di mercoledì. A detta dei “nazareni” azzurri B. era stato risucchiato dall’antirenzismo del suo cerchio magico e della fronda pugliese di Raffaele Fitto. A distanza di sette giorni tutti sprizzano gioia dalle parti di Forza Italia. Sia i “nazareni” di Verdini perché “il patto è vivo e vegeto e non è stato ammazzato”. Sia i ribelli perché adesso il patto è stato rimodulato e gli azzurri non subiranno passivamente le offensive renziane. Questione di punti di vista. Basta aspettare i fatti per sapere chi avrà ragione. In ogni caso, il comunicato congiunto di ieri, sottoscritto da Forza Italia e Partito democratico, è il preludio ideale alle grandi manovre per la successione di Napolitano.
Ovviamente se i forzisti godono, dall’altra parte si registra un indebolimento oggettivo di Renzi, che adesso dovrà affrontare tutte le prove parlamentari, compresa quella dell’Italicum, senza la pistola carica del voto anticipato nel 2015. È questo il risultato maggiore della settimana, apertasi nel segno della “stanchezza” di Re Giorgio e dal toto-Quirinale. Non è un caso che, stavolta, pure Angelino Alfano, capofila dei “piccoli” in quanto leader di Ncd, esulta con un tweet: “Ottimo incontro tra Renzi e Berlusconi. Avanti tutta”. Anche questo non era mai accaduto sinora. È la certificazione dell’ammuina in atto sull’Italicum e che sta ingabbiando Renzi. In fondo, il caos scatenato dalle voci su Napolitano era diretto proprio contro il premier. Per la serie: “Non sarò io il capo dello Stato che scioglie le Camere, piuttosto me ne vado”. L’Ottava del Nazareno muta il paesaggio politico del renzismo trionfante. È come se il premier fosse stato spinto in un angolo. Toccherà a lui uscirne e dimostrare di rispettare la tabella di marcia indicata in maniera ambigua nel comunicato di ieri: “Le differenze non impediscono” l’approvazione entro l’anno della nuova legge elettorale. Il significato da attribuire a quel “non impediscono” variano da soggetto a soggetto e soprattutto indica il nuovo stato delle cose. Prima Renzi poteva ricattare tutti, sia la minoranza del Pd, sia Berlusconi e Alfano, con l’arma del voto. Adesso non più.
Corriere 13.10.14
Calcoli errati e vedute corte
di Antonio Polito
Pare proprio che, come aveva minacciato D’Alema in tv, la sinistra pd abbia perso la pazienza. L’alzata di scudi di ieri notte contro il patto del Nazareno bis (o tris) avvia una fase in cui niente più può essere dato per scontato, nemmeno il voto sul Jobs act. È probabile che le piazze sindacali abbiano restituito coraggio e allo stesso tempo costretto a una accelerazione della lotta politica contro Renzi. Ma nel combatterla la minoranza che fa capo a Bersani e D’Alema deve stare attenta a non ripetere gli stessi clamorosi errori che già le costarono il controllo del partito. Con l’aggravante che stavolta non rischierebbe solo in proprio, ma metterebbe a repentaglio la credibilità del governo Renzi in Europa, già in bilico di suo.
Il sospetto di una deriva politica è lecito. Appena qualche giorno fa, con un virtuosismo della litote certamente appreso alla scuola dei padri («Il vivente non umano» di Ingrao e «La non vittoria elettorale» di Bersani), Stefano Fassina è arrivato a proporre sul Foglio non l’uscita dall’euro, come un qualunque Grillo o Salvini, ma «il superamento cooperativo dell’euro», che poi è la stessa cosa, visto che non sembra esserci nessuno in giro disposto a cooperare con noi per farci uscire in modo indolore dalla moneta unica. Così più di vent’anni di zelante europeismo, nuova ideologia di una sinistra che trasferiva a Bruxelles il sol dell’avvenire tramontato all’Est, vengono buttati a mare in un sol colpo. Al posto dell’integrazione europea, cui hanno dedicato la vita leader fino a ieri venerati come Spinelli, Prodi e Napolitano, ecco che si propone la «dis-integrazione ordinata» della moneta unica, così da farne due, o tre, o quindici, come se questo risolvesse il nostro problema cruciale: il costo di un enorme debito.
Il fatto è che il gruppo dei Fassina e dei Cuperlo ha letto fin dall’inizio male il segno politico della crisi economica mondiale, interpretandolo come una potente spinta a sinistra dell’elettorato. Su questa base ha indotto Bersani a fare una campagna elettorale perdente in stile cgil, mentre il suo popolo se ne andava da tutt’altre parti. Ora è sotto choc per aver scoperto che quello stesso popolo segue Renzi, pur bollato come una Thatcher col lifting da Susanna Camusso. Non resta che l’ultimo populismo, quello antieuropeista. Pericoloso ovunque, ma molto di più quando alligna all’interno del partito di maggioranza e di governo di un Paese a rischio come l’Italia.
Non è certo così, facendo i proto-grillini o gli pseudo-leghisti solo un po’ più colti, che la sinistra pd può sperare non dico di riprendersi, ma nemmeno di correggere la barra del timone che ha perso.
Corriere 13.11.14
Patto diseguale e tante trappole
L’accordo sopravvive nel segno del premier
di Massimo Franco
Dopo l’incontro Renzi-Berlusconi conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno ma di quello raggiunto 3 giorni fa tra premier e alleati minori. Il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso.
Più del comunicato congiunto di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi dopo il loro vertice sulla riforma elettorale, ieri hanno colpito le parole abrasive del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Volentieri vorrei che cedessimo a qualcun altro», ha detto con una punta di ironia, «il record mondiale di caduta dei governi». Ha tutta l’aria di un altolà implicito ad una crisi dell’esecutivo e ad elezioni anticipate. Sembra la conferma che il capo dello Stato ha deciso di esorcizzare questa prospettiva anche lasciando trapelare l’intenzione di chiudere il suo mandato all’inizio del 2015. Si tratta appena di un inciso, incorniciato dal discorso sull’Expo di Milano tenuto al Quirinale. Ma pesa su uno sfondo di tensione tra e dentro i partiti: di maggioranza e di opposizione. E si trasforma nell’ennesimo monito ad una classe politica che sbanda tra accordi e minacce di rottura, osservata con diffidenza dall’Unione Europea. Il fatto che ieri la minoranza del Pd abbia deciso di disertare la riunione della Direzione in polemica col segretario-premier indica un malessere persistente; e destinato a riaffiorare nel momento in cui l’arma delle elezioni anticipate si sta spuntando nelle mani di Renzi. È una fronda che si rispecchia anche nelle modifiche chieste da alcuni senatori del Pd sulla riforma della Camera «alta».
Ma si tratta di scarti che non indeboliscono le critiche del presidente del Consiglio ad un Berlusconi accusato di non avere dietro tutte le sue truppe parlamentari. A sinistra rimane un’area di dissenso coriacea, che trova una sponda nella Cgil che conferma lo sciopero generale per il 5 dicembre. Eppure, per quanto esposto al conflitto anche sul piano sociale, il governo va avanti. La tendenza è a considerare i dissensi qualcosa di facilmente superabile. E infatti il 18 novembre la riforma elettorale emersa dal vertice di maggioranza dell’altro giorno comincerà ad essere discussa nella Commissione affari costituzionali. Relatrice: la presidente Anna Finocchiaro.
Rimane da capire quale sistema alla fine emergerà. E soprattutto, se davvero si farà in tempo ad approvare la legge al Senato entro fine anno. A definirlo «impossibile» è il leghista Roberto Calderoli, che mette davanti l’esigenza di approvare i provvedimenti economici. Ma la nota diffusa dopo un’ora e mezzo di colloquio tra Renzi e il sottosegretario Lotti da una parte, e Berlusconi, Gianni Letta e Denis Verdini dall’altra, conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno ma di quello raggiunto tre giorni fa tra il premier e i suoi alleati minori. E rafforza il premier.
Berlusconi ha ottenuto cento capilista bloccati, certo. Ma sbatte contro il limite di accesso in Parlamento al 3 per cento, imposto dai partitini. E il premio in seggi al partito maggiore o alla coalizione rimane in bilico. Sostenere che «l’impianto del patto è più che mai solido, nonostante le differenze», come recita il comunicato congiunto, sa di verità d’ufficio. E non riesce a coprire la sconfitta del leader del centrodestra. La legislatura «dovrà proseguire fino al 2018», concordano i «pattisti». Ma il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso. La legislatura continuerà nel segno di Renzi. Berlusconi può solo inseguire. In affanno.
Corriere 13.11.14
Il leader: Silvio ci seguirà. Vuole stare al tavolo anche nella partita del Colle
«Ognuno ha messo i suoi ingredienti. Ora tutti spingono il carrello»
ROMA A sera, dopo l’incontro con la delegazione di Forza Italia capeggiata da Silvio Berlusconi, Matteo Renzi ha il tempo di rilassarsi un poco con i suoi, prima di prepararsi ad affrontare la riunione della Direzione del suo partito.
Nello staff del presidente del Consiglio circola questa battuta, piuttosto cruda, ma che spiega con una certa efficacia la situazione: «È come se fossimo in un supermercato con il nostro carrello. Ci abbiamo messo il 3 per cento per Alfano, i capilista bloccati per Berlusconi e adesso tutti spingono quel carrello. E questo era quello che ci interessava». Detta così, forse, suona un po’ brutale, ma piuttosto realistica. Perché se è vero che l’ex Cavaliere ieri ha detto «no» al 3 per cento e al premio di lista, è anche vero, come ha spiegato ai collaboratori e ai fedelissimi il premier, che «ci ha assicurato che non farà imboscate e che garantirà che i tempi vengano rispettati».
«Del resto — ha aggiunto Renzi — nessuno si aspettava che ci dicesse di sì, non poteva farlo, dopo aver ricompattato il suo partito, altrimenti Forza Italia si sarebbe nuovamente divisa e Fitto sarebbe tornato alla carica. Insomma, immaginare che Berlusconi fosse disponibile a darci di più era francamente impossibile, ma va bene così». Il presidente del Consiglio è soddisfatto, non dispera di ottenere qualcosina di più durante l’iter parlamentare, ma anche se ciò non dovesse accadere, pazienza. È riuscito a fare un accordo con la sua maggioranza di governo sul premio alla lista (cosa a cui teneva sopra ogni altra cosa, perché è il bipartitismo, in realtà, l’obiettivo finale a cui tende Renzi) e nel contempo non ha provocato la rottura del patto del Nazareno, anche se quell’intesa si è andata modificando nel tempo.
«Non dimentichiamoci — ha spiegato ancora ai suoi il premier — che Berlusconi ci ha anche promesso che andrà avanti con noi sulla riforma del Senato, che non si sfilerà e pure questo è un punto molto importante». Dunque «si può procedere celermente, secondo i tempi stabiliti, senza rinvii e stoppando qualsiasi tattica dilatoria, cosa che era il nostro primo obiettivo».
Per il resto, il premier non è preoccupato per il fatto che Fi voterà a favore solo di determinati punti della riforma elettorale. Sa che sulla soglia del 3 per cento i voti saranno molti di più di quelli dello stretto confine della maggioranza di governo. Per esempio, perché Sel e Fratelli d’Italia dovrebbero dire «no» a uno sbarramento che consente a queste due forze politiche di presentarsi da sole? Quanto al premio di lista, il premier ritene di non avere problemi nemmeno su quel fronte. È convinto che su quel punto il suo partito sarà compatto e che qualche apporto potrebbe venire anche dai banchi dell’opposizione.
Per farla breve, il premier è convinto che la riforma elettorale «verrà approvata entro la fine dell’anno al Senato ed entro febbraio del 2015 alla Camera». Ma non ostenta un po’ troppa sicurezza il presidente del Consiglio? Una fetta della minoranza del Partito democratico potrebbe dargli del filo da torcere al Senato: «Già, ma questa volta — ha spiegato ai più stretti collaboratori — dovranno farlo con il voto palese, mettendoci la faccia e assumendosi le loro responsabilità». Inclusa quella di far fallire una delle riforme che Giorgio Napolitano aveva posto come condizione per accettare il suo secondo mandato.
Renzi, che non è certo un ingenuo, sa bene che sia nel Pd che dentro Forza Italia c’era e c’è chi vuole mandare all’aria tutto e le mosse del vertice di maggioranza di lunedì e dell’incontro di ieri con comunicato incorporato sono servite proprio a sventare queste manovre. Come sa, perché l’ex Cavaliere glielo ha confermato ieri, che Berlusconi vuole stare al tavolo in cui si deciderà la successione a Napolitano: «Lui — ha spiegato ai suoi — mi ha detto di avere tutto l’interesse a essere dentro questa partita». Nei corridoi di Montecitorio, dopo quell’incontro, circola voce che questo sia l’assillo di Berlusconi. Motivo in più perché il leader di Fi non rompa il patto. Motivo in più perché Renzi si senta sufficientemente tranquillo.
Il Sole 13.11.14
Il tentativo di uscire dai poteri di veto
di Sergio Fabbrini
C'è una questione di sostanza e una di metodo, nel negoziato sulle riforme tra Renzi e Berlusconi. Cominciamo dalla sostanza. L'Italia sta aspettando dagli anni Ottanta del secolo scorso (e comunque dalla fine della Guerra Fredda di 25 anni fa) la modernizzazione del proprio sistema istituzionale.
C'è una consapevolezza largamente maggioritaria nel Paese che il nostro sistema di governo deve migliorare le proprie capacità decisionali, così da adeguarsi alla velocità con cui i problemi di politica pubblica si impongono nell'agenda pubblica. Nessun Paese di dimensioni come le nostre (per popolazione, per capacità produttive, per responsabilità politiche) funziona secondo le logiche consensuali, protette dalla diffusione di poteri di veto, che continuano a connotare il nostro sistema di governo. Al di là delle forme costituzionali specifiche, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna sono dotate di governi capaci di decidere, generalmente costituiti da uno o due partiti. Anche quando danno vita a coalizioni (come attualmente in Germania), nessuno mette in dubbio la capacità del cancelliere di avere l'ultima parola sulle questioni cruciali. L'integrazione monetaria ha ulteriormente accentuato l'esigenza di governi decidenti e controllati all'interno delle democrazie europee. In questi Paesi, la modernizzazione delle istituzioni di governo (formale, in Francia, o di fatto, in Gran Bretagna) è un'attività costante, condivisa dalle élite politiche di sinistra e di destra. Non è così in Italia. Non solamente continuiamo ad avere istituzioni pensate per un Paese diviso dallo scontro ideologico della guerra fredda, ma continuiamo a pensare che destra e sinistra debbono dividersi anche relativamente alle caratteristiche che deve assumere il comune sistema di governo.
Il cosiddetto patto del Nazareno, ribadito nell'incontro di ieri tra Renzi e Berlusconi, costituisce uno dei pochi esempi positivi di accordo tra leader politici per disegnare un nuovo sistema riconosciuto dai loro rispettivi elettori. Solamente la faziosità di leader populisti ha potuto portare alla denuncia di quel patto come di un "colpo di Stato", denuncia quindi sottoposta alla magistratura (sfidando il senso del ridicolo). Nella sostanza, insomma, il giudizio su Renzi e Berlusconi, ed i loro rispettivi partiti, sarà commisurato alla loro capacità di tenere fede all'impegno assunto di dare al Paese istituzioni più moderne e funzionanti.
Ma nel patto c'è anche una questione di metodo. L'iniziativa del governo Renzi testimonia che i leader politici non sono necessariamente prigionieri del sistema di veti al cui interno agiscono. Fu un errore assumere, come fece il precedente governo, che il Parlamento può autoriformarsi. Le istituzioni non si cambiano con commissioni di studio, ma con l'iniziativa politica. Anche se certamente quest'ultima (come è avvenuto con il governo Renzi) potrà essere ancora più efficace se sostenuta da alcuni dei risultati di quelle commissioni di studio. Tutte le esperienze di cambiamento istituzionale nelle democrazie sono state l'esito della pressione di attori politici esterni a quelle istituzioni. È bene dunque che il governo Renzi continui ad essere il promotore della riforma, senza subire gli stanchi riti consensuali della politica italiana. Tutti debbono poter contribuire alla discussione, nessuno deve avere però il diritto di veto sulle decisioni che emergono da quella discussione. Il governo deve aprirsi e contemporaneamente andare avanti, proprio perché si è impegnato a dare agli elettori l'ultima parola, convocando un referendum anche se non dovuto. Nello stesso tempo, l'iniziativa del governo sulle riforme istituzionali deve procedere di pari passo con l'iniziativa sulle riforme economiche. La legge delega per la riforma del mercato del lavoro deve essere coerente con l'impegno di aprire quest'ultimo, oltre che di ridurre la precarietà ingiustificata che lo connota. Allo stesso tempo, il governo deve proteggere la sua Legge di stabilità dall'assalto alla diligenza che ha caratterizzato il processo di approvazione delle precedenti leggi finanziarie. La riforma istituzionale e la riforma economica potranno procedere insieme solamente se il governo si dimostrerà in grado di avere l'iniziativa, di tenere il controllo dell'agenda, di opporsi ai particolarismi partitici e funzionali. Occorre cioè prefigurare, attraverso la politica delle riforme, il sistema decisionale che si vuole promuovere in Italia. Il governo deve assumersi le responsabilità delle sue scelte, l'opposizione deve contrapporne altre, gli elettori decideranno sui risultati o non risultati conseguiti. Il sistema politico ed economico vanno semplificati e liberati dai barocchismi che li soffocano. Le regole debbono essere poche e chiare. Soprattutto debbono garantire la competizione in politica e nel mercato. La democrazia muore là dove vi sono monopoli politici ed economici. La lotta ai trusts e ai poteri di veto deve diventare la cifra culturale del riformismo di governo.
il Fatto 13.11.14
Renzi va avanti pure senza il Pd
La minoranza diserta la direzione
Lui va in assemblea e dice: “Non ho bisogno del vostro mandato”
di Wanda Marra
“Per me possiamo votare o no, non cambia niente. Ho già il mandato della direzione”. Matteo Renzi, con mezza battuta, liquida la riunione che ha convocato in fretta e furia, la minoranza dem, e il Pd tutto.
Versione maglioncino, toni bassi, si presenta al Nazareno con un’ora di ritardo, dopo il vertice con Berlusconi. Parla di “tre mesi decisivi”, “i momenti di stretta sui provvedimenti”: la riforma del Senato e il jobs act, da approvare entro dicembre, la legge elettorale entro gennaio. Questa è la road map, che il segretario premier offre, anzi comanda, al partito. Dall’altra parte, la minoranza dem minaccia, annuncia diserzioni rispetto a un voto eventuale, critica e promette barricate. Sul jobs act. Come sull’Italicum 2.0. Armi spuntate, almeno ieri sera, da un voto negato direttamente dai vertici del partito. “Il sistema italicum garantisce sia governabilità che rappresentanza - declama dal palco Renzidiventiamo un partito comunità, che punta a maggioranza e in cui si trova il modo di stare insieme rispettandosi”. Pronto a mediare sul jobs act? È molto fumoso: “L’importante è che le nuove norme entrino in vigore entro il primo gennaio 2015”. Poi, si valuterà se mettere la fiducia.
LE MINORANZE Pd ascoltano, disarmate. Dopo riunioni su riunioni andate avanti per tutto il giorno, stavolta a Matteo Renzi avrebbero voluto mandare un segnale forte e chiaro. A guidare la fronda è Massimo D’Alema che, prontamente in mattinata, fa sapere che non ci sarà in direzione, “causa impegni precedenti”. Si capirà in serata che l’impegno è in un ristorante romano dove si degustano i suoi vini. Polemicamente, si nota il fatto che la riunione è stata convocata all’ultimo momento. Il Lìder Maximo partecipa però alla riunione della minoranza delle 19. Ma, oltre all’ex premier, in serata si siedono allo stesso tavolo esponenti delle principali aree della sinistra Dem: dall’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, al capogruppo alla Camera Roberto Speranza, dal ministro Maurizio Martina a Gianni Cuperlo e Pippo Civati, che passa. Ma partecipa a un’altra, la riunione della mattina, quella del “tutti contro Renzi” (ci sono Francesco Boccia, la bindiana Miotto, Giani Cuperlo, Stefano Fassina, tra gli altri). Dopo una giornata di fibrillazioni, le minoranze decidono di andare e non partecipare al voto (che poi non ci sarà). Spiega Civati: "Personalmente, per non mancare di rispetto al Pd ci sarò per ascoltare il segretario”.
Tiene banco per tutto il pomeriggio la trattativa tra governo e minoranza sul Jobs Act, dove, in commissione Lavoro, quasi tutti i componenti Pd presentano un emendamento che, ripercorrendo quanto deciso nella direzione sulla riforma del lavoro è volto ad “assicurare la garanzia del reintegro nei casi di licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare”. Plasticamente, ci sono due Pd. Per adesso, il Pd non renziano promette una lotta all’ultimo sangue su Italicum e jobs act. Fino a che punto sono disposti a spingere? Non è chiaro, ancora. Ma che si ragioni di scissioni prossime venture non è più un segreto.
I RENZIANI, da un certo punto di vista, si sono già scissi dall’interno. “Non è più tempo di mediare. Adesso noi le riforme le facciamo. E chi ci sta, ci sta”. Reazione a caldo di un fedelissimo all’accordo a metà dopo l’incontro tra Berlusconi e Renzi. Due punti aperti: la soglia di sbarramento (sul 3% Berlusconi non è d’accordo) e il premio alla lista (anche su questo B. non ci sta). Nel frattempo, la minoranza dem grida allo scandalo su un punto di convergenza tra i Nazareni: ovvero, la decisione di 100 collegi, con i capilista bloccati. Troppi posti attribuiti senza voto, protestano. I vertici dem ostentano sicurezza, si appellano al comunicato congiunto. Assicurano che su alcuni punti in Parlamento si voterà a maggioranza, su altri Pd e Forza Italia voteranno insieme. E che gli azzurri non faranno barricate.
Ma il sospetto di tutti lo esprime ad alta voce Fassina: “Qualche dubbio che l’accelerazione sulla legge elettorale serva ad andare al voto ce l’ho”. E in effetti, il piano sembra coerente: dopo l’approvazione delle riforme costituzionali, di quella del lavoro e dell’Italicum, con tutti quelli che ci stanno, Renzi può offrire dei risultati a Napolitano. Il quale, a quel punto, avrebbe un ottimo motivo per sciogliere le Camere: un Parlamento eletto con legge incostituzionale non può eleggere il suo successore.
Repubblica 13.10.14
La minoranza Pd pronta a dire tre no
Vertice con D’Alema-Bersani: ora in trincea contro l’Italicum, Jobs Act e legge di Stabilità Ma il premier vede per un’ora il capogruppo Speranza: “Ho un patto con lui, i giovani sono con me”
di Goffredo De Marchis
ROMA Darsi un’organizzazione per contrastare Matteo Renzi e le sue riforme, dalla legge elettorale al Jobs Act. La minoranza del Pd prova a uscire dalla sindrome Armata Brancaleone, ampiamente dimostrata con i voti in ordine sparso nei gruppi parlamentari, nelle direzioni, e che non hanno fatto altro che rafforzare il premiersegretario. Dunque, una riunione prima della direzione notturna finisce con una decisione univoca: non si deve votare la relazione di Renzi e se si vota bisogna non partecipare. Perché ora è il momento di dire dei “no” solidi: no al nuovo patto del Nazareno, no alla riforma del lavoro, no alla legge di stabilità. Renzi però è convinto di aver già rotto questo fronte sempre fragile. «Ho fatto l’accordo con Orfini», racconta ai suoi collaboratori. Ma questa non è una novità. «E ho stretto un patto con Roberto Speranza », aggiunge il premier. Come dire: la vecchia guardia faccia quello che vuole, il capofila dei giovani all’interno della pattuglia degli oppositori sta dalla mia parte. Questo tassello del puzzle, raccontano a Palazzo Chigi, è stato aggiunto durante un colloquio di un’ora tra Speranza e Renzi, successivo al vertice con Berlusconi. In quel colloquio si è anche deciso di non votare in direzione. Una mano tesa di Renzi a tutti coloro che non vogliono seguire gli oltranzisti della sinistra.
Sono passaggi tuttavia che un pezzo della minoranza dà per scontati. Il capogruppo del Pd alla Camera Speranza viene ormai considerato perso alla causa dell’antirenzismo. Un gruppo di ribelli prova invece a darsi un proprio coordinamento politico e cerca di immaginare i numeri per un’opposizione al governo condotta dentro al Pd. All’ora di pranzo, ieri, si sono visti Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Francesco Boccia, Alfredo D’Attorre e alcuni bindiani. Quante truppe hanno nei due rami del Parlamento è difficile da stabilire, soprattutto perché Renzi ha dimostrato notevoli doti di negoziatore ed è capace di dividere gli avversari. Ma quello che conta, nella composizione del tavolo, sono i nomi che mancano ancora più di quelli presenti. È stata fatta una scrematura rispetto a pontieri, mediatori, ambasciatori che vengono considerati, sostanzialmente, renziani dell’ultima ora o dirigenti che giocano in proprio. «Noi, al contrario, dobbiamo fare squadra — spiega Civati —. Superando le correnti, superando la vecchia guardia e facendo le battaglie sui contenuti dei provvedimenti non sulle appartenenze ». Quindi accanto agli esponenti della sinistra Pd siedono adesso anche ex democristiani come Bindi o ex prodiani come Boccia.
Questa struttura che cerca di scrollarsi di dosso l’ombra dei “vecchi” invera l’incubo di Renzi e dei suoi fedelissimi a cominciare da Luca Lotti: un Vietnam parlamentare guidato dalla vera opposizione, quella del Pd. E lo convince a rimanere agganciato a Silvio Berlusconi, in funzione di contrappeso. Però la minoranza può farsi del male da sola. Renzi infatti ha sottolineato con soddisfazione la presenza di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema alla riunione allargata della sinistra democratica. Come se la loro presenza indebolisse da sola le sfide dei ribelli. Sia l’ex segretario sia l’ex premier sono andati all’attacco di Renzi, sconfessando in blocco la legge elettorale e rifiutando il compromesso delle preferenze con i capolista bloccati. Il sospetto rimane sempre lo stesso: che l’inquilino di Palazzo Chigi sia intenzionato ad andare a votare in primavera.
Il banco di prova sulla tenuta del Pd e del gruppo parlamentare di Montecitorio si avrà nelle prossime ore. Sul Jobs Act, all’esame della commissione Lavoro, i mediatori propongono un emendamento per salvare nell’articolo 18 i licenziamenti disciplinari. Sarebbe un passo avanti. Ma il premier si fida poco. E anche ieri in direzione ha fatto capire di avere in serbo l’arma della fiducia. «Si può chiudere rapidamente con due alternative: procedere con la fiducia o garantire l’entrata in vigore dal primo gennaio anche con modifiche da verificare ».
Corriere 13.11.14
Minoranza in rivolta, attacco sui «nominati»
Anche D’Alema alla «riunione unitaria» della sinistra. E sul Jobs act 550 emendamenti
di Monica Guerzoni
ROMA «Un Parlamento di nominati è inaccettabile, un punto imprescindibile...». Tra la buvette e il Transatlantico di Montecitorio, Bersani non si stanca di declinare i suoi no alle scelte di Renzi, dando corpo e voce allo stato d’animo della minoranza: «Il premier deve sciogliere l’ambiguità, deve spiegarci l’incoerenza. Perché acceleri sulla legge elettorale, se non vuoi andare a votare?».
L’opposizione si è ormai convinta che la corsa sull’Italicum abbia un solo obbiettivo, le urne. Per questo alza i toni e avrebbe alzato fisicamente i tacchi, in direzione, se il segretario-premier avesse chiesto un voto sulla sua relazione.
In vista della convention dei bersaniani sabato a Milano, la sinistra prova a unire le forze. Le diverse anime critiche coordinano ogni mossa e ieri sera anche Massimo D’Alema ha partecipato al vertice che ha preceduto la riunione del parlamentino del Pd (dove però l’ex premier non si è fatto vedere, per impegni precedenti). Alle sette di sera, alla Camera, gli oppositori di Renzi ci sono tutti. Ecco Bersani, D’Alema, Fassina, Damiano, Epifani, Cuperlo, Speranza, D’Attorre, Zoggia... Bindi è impegnata all’Antimafia, ma è come se ci fosse. «Riunione unitaria», sottolineano i partecipanti e concordano la linea. «Se Renzi ci chiede di votare un documento noi ci alziamo e ce ne andiamo», spiega Zoggia. E D’Attorre: «La direzione non può essere il luogo dove si ratificano gli accordi fatti con Berlusconi». Questione di metodo, a cui Renzi risponde con un secco: «Non credo di aver bisogno di un mandato esplicito della direzione».
Il dissenso è a tutto campo, dalla legge elettorale al Jobs act, alla politica economica. Stefano Fassina teorizza l’uscita dall’euro? E Bersani, che pure non è d’accordo, lo difende: «È una posizione paradossale, che non va banalizzata». L’ala civatiana ha voluto rendere ancor più evidente lo smarcamento disertando la direzione «last minute». Alle dieci di sera Pippo Civati sale al Nazareno, ma i suoi delegati, una ventina, restano a casa e annunciano lo strappo criticando lo «scarso preavviso della convocazione» e ironizzando sul patto del Nazareno: «Facciamo tanti auguri a Renzi per gli incontri, sicuramente molto più approfonditi, che dedica a Berlusconi e Verdini».
C’è chi diserta e chi si fa sentire. Fassina chiede «correzioni profonde» alla delega del lavoro e la possibilità, per i cittadini, di scegliere «tutti i parlamentari». I renziani attaccano. Ma Bersani, contro i cento capilista bloccati, è categorico: «Perché dobbiamo andare avanti con i nominati?». Eppure, sul punto cruciale della delega del lavoro, cerca la chiave per conciliare «il dissenso di merito e la lealtà al Pd». E se il governo porrà la fiducia? «Non voglio crederlo».
Sul Jobs act piovono emendamenti: 15 su 550 portano le firme dell’ala sinistra, che chiede paletti anche su demansionamento, voucher e controlli a distanza e non vogliono votare il testo del Senato, quello che cambia lo Statuto dei lavoratori. «Aver messo al centro il tema dell’articolo 18 è stato un errore», attacca Bersani. «Vogliamo correzioni profonde», gli fa eco Fassina. Per scongiurare la fiducia si cerca una mediazione sul reintegro in caso di licenziamento disciplinare ingiusto, oggetto di uno degli emendamenti della minoranza «dem».
Corriere 13.11.14
Quel capannello targato Pds
In Transatlantico
di Monica Guerzoni
Metti un pomeriggio a Montecitorio tra vecchi compagni di partito.
Nel bel mezzo del Transatlantico se ne stavano ieri il leader di Sel Nichi Vendola, l’ex ministro Fabio Mussi, l’onorevole Giorgio Airaudo e l’ex viceministro Stefano Fassina, intenti a commentare l’incontro in corso tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
«Che cos’è, una riunione del Pds?» scherza un giornalista di lungo corso, colpito dal gruppetto che ricorda la vecchia Quercia. E Pippo Civati, che si ferma a far capannello: «Pds, sì... E non vi sfugga che la lettera più importante
è la “s” di sinistra».
Repubblica 13.11.14
L’intervista. Pippo Civati
“Sinistra schiacciata, Matteo punta al partito unico di centro”
di Tommaso Ciriaco
ROMA Pippo Civati mette piede in direzione già sconsolato. «La situazione è al limite, stiamo correndo su un filo sempre più sottile». Dalla riunione spedisce sms amari: «Renzi sta dicendo di sé quello che diceva di Letta...». E ancora: «A parole inizia a preoccuparsi della spaccatura ». Si discute di legge elettorale, intanto. E il deputato punta a salvare il salvabile. «Fossimo fuori dal patto del Nazareno, ci sarebbe il Mattarellum. Ma siccome siamo in questo schema, vogliamo capire se è possibile ridurre i danni. Partendo dalla possibilità per i cittadini di scegliere gli eletti, con le preferenze o i collegi».
Ma lei quando decide se restare nel Pd, Civati? Un paio di settimane fa aveva detto: “Entro un mese”.
«Per me la chiarezza va fatta innanzitutto con gli altri che sono a disagio. Ci stiamo confrontando e questo è molto positivo. Oggi sono passato per un saluto alla riunione con Bersani e D’Alema. Vedremo se uno sarà costretto ad andare via per costruire un progetto più ampio, oppure se sarà possibile restare nel Pd, ma con un’agibilità».
Da cosa dipende?
«Sarà possibile discutere, oltre a dover assistere al solito spettacolo? Voglio capire se il Pd è considerato un luogo di confronto, oppure se il nostro spazio si perde nel flusso renziano... Sa, con Renzi non è facile: banalizza le tue proposte, oppure le assume senza riconoscerne la paternità. Dai prossimi passaggi - legge elettorale, riforme, Jobs act, manovra si capirà tutto. Certo, se passa il progetto del partito unico di centro, la risposta su cosa faremo purtroppo già c’è...».
Il partito unico di centro?
«L’Italicum rischia di diventare l’unicum: così nasce il partito unico di centro, una grande forza che domina il sistema. Attorno c’è una destra anti-euro e antitutto. E una sinistra che viene schiacciata e rinuncia ai tratti riformisti».
Pessimista.
«Ecco il quadro: Renzi in mezzo diventa un leader nazional popolare, senza ideologie, che picchia sempre più spesso sulla sinistra. È un crescendo contro i sindacati, gli intellettuali, la vecchia guardia. Un continuo martellare».
Per lei il Pd sta sparendo a causa di Renzi?
«Io sostenevo che le larghe intese ci avrebbero portato fin qui. E infatti si parla di alleanza con Ncd alle Regionali... Pian piano la differenza tra destra e sinistra non c’è più».
Il patto del Nazareno, intanto, regge alla grande.
«Non mi sorprende. D’altra parte il Nazareno è... eterno. Non c’era motivo di pensare che questa intesa non continuasse, nonostante i distinguo. Crollerebbe tutto, altrimenti. Berlusconi fa sponda a Renzi e si vede in mille occasioni: non ricostruisce il centrodestra e si mostra molto più disponibile del passato a mantenere gli accordi».
Potesse modificare l’accordo sulla legge elettorale, cosa cambierebbe?
«Sono liste bloccate, si tratta di fatto di un’elezione indiretta. Senza contare che un capolista può esserlo in dieci collegi: così, alla fine, la segreteria di partito può decidere anche per i secondi classificati ».
A proposito: sul Jobs act la strada resta sbagliata?
«Sì. Se si continua così, alla Camera il dissenso crescerà».
Repubblica 13.11.14
Sempre daccapo
di Alessandra Longo
HA UN senso il dialogo tra credenti e non credenti? Per Fausto Bertinotti, già affascinato da Giovanni Paolo II e ora ancor di più da papa Francesco, il confronto tra menti libere è addittura necessario soprattutto su terreni di lotta comune come le ingiustizie sociali e la difesa della persona umana. «Sempre Daccapo» (Marcianum Press) è l’ultimo libro dell’ex leader di Rifondazione. Una conversazione con Roberto Donadoni e la prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi. Il presidente del Ponticio Consiglio della Cultura si rivela un grande ammiratore di Bertinotti, ritenuto «un appassionato lettore delle Scritture cristiane e dei testi del magistero ecclesiale» («Parlare con lui è come guardare il flusso dell’Etna...»). Una citazione paolina, usata nel libro, quasi con intento testamentario, emoziona il cardinale: «Ho terminato la corsa, ho conservato la fede».
La Stampa 13.11.14
Il dubbio di Fassina:
“C’è aria di elezioni”
di Carlo Bertini
Ci sono i venti civatiani che non vanno in Direzione perché avvisati troppo tardi, c’è Civati che va e provoca Renzi, «faccia venire in Direzione Berlusconi e Verdini». Ci sono i bersaniani che per tutto il giorno si arrovellano se sia meglio andare e votare contro o uscire dalla sala al momento del voto, «perché un’astensione non verrebbe capita», dice Davide Zoggia. Ci sono i dalemiani che vanno, mentre D’Alema non rinuncia a un impegno enogastronomico e diserta la Direzione. Ha buon gioco il renziano Andrea Marcucci a sfottere evocando il morettiano dilemma, «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo affatto?». È una delle riunioni di svolta, dove Renzi deve dimostrare a Berlusconi di essere quello che controlla davvero il suo partito, che chiama all’appello perfino gli eurodeputati, ma alla fine accetta la richiesta di evitare la conta interna. La minoranza fino a mezz’ora prima della riunione non sa come regolarsi. «Va trovata la chiave, la misura per mostrare lealtà alla ditta e dissenso nel merito», si imbarazza non a caso Bersani quando gli si chiede cosa farà al momento del voto in aula sul Jobs Act. Dove i dissidenti Pd voteranno sì se verranno recepite le richieste sull’articolo 18, le stesse su cui avevano votato contro in Direzione a fine settembre.
Per decidere la linea un affollato vertice pre-Direzione. Nella sala Berlinguer al secondo piano “dei gruppi” arrivano Bersani e D’Alema, il ministro Martina e Nico Stumpo, ma anche Cuperlo e Civati: tutte le tribù si riuniscono alla ricerca di un fronte comune. Si discetta per un’ora e alla fine la linea unitaria è: si va, si parla e non si vota. Lo schema del nuovo Italicum in realtà non dispiace alla minoranza Pd, che però solleva le barricate sui parlamentari nominati, «no ai 100 capilista bloccati», alza la diga la sinistra.
Ci pensa Stefano Fassina a dare corpo al dubbio che «l’accelerazione sull’Italicum - anche leggendo la legge di stabilità - serva ad andare a votare». Ed ecco le ragioni del dissenso: «Sulla legge elettorale chiediamo vi sia la scelta dei cittadini di eleggere tutti i deputati». Quindi, no ai nominati con i capilista bloccati. «E sul lavoro bisogna correggere la delega che aggrava la precarietà». Tradotto, ci vogliono più soldi per i disoccupati e va messo nero su bianco che la tutela dell’articolo 18 vale per i licenziamenti disciplinari.
il Fatto 13.11.14
Vannino Chiti E sul Senato sarà battaglia
“Matteo non può fare l’Italicum solo con B.”
di Gianluca Roselli
“Sulla legge elettorale ci sono luci e ombre. Matteo Renzi fa bene a cercare l’intesa con l’opposizione. Ma non bisogna dare l’idea di deciderla solo con Forza Italia”. Vannino Chiti, uno dei senatori ribelli del Pd in prima fila contro la riforma costituzionale, è pronto a dare battaglia anche sul sistema di voto. Ma la sua preoccupazione maggiore resta la legge costituzionale ferma alla Camera. “Io sul Senato elettivo non mollo”, avverte.
Senatore Chiti, come giudica l’ipotesi di legge elettorale in discussione tra Renzi e Berlusconi?
Apprezzo la soglia di sbarramento unica, spero bassa, e il premio di maggioranza che scatta oltre il 40 per cento. In questo modo si garantisce rappresentatività e governabilità. Poi però mancano le preferenze. Le vorrei almeno per il 75 per cento degli eletti. Inoltre vanno tolte le pluricandidature. Come dice il professor Ainis, un candidato deve presentarsi in un solo collegio, altrimenti viene meno il rapporto con il territorio. E non è così che la politica riacquista fiducia agli occhi dei cittadini.
Secondo lei l’accelerazione sulla legge elettorale significa che Renzi vuole andare presto alle urne?
La riforma non è per forza il grimaldello per andare al voto. Si andrà alle urne quando in Parlamento non ci sarà più una maggioranza. Chi pensa il contrario deve stare attento a non scherzare col fuoco, perché la situazione economica e occupazionale è grave e ci vuole prudenza.
Renzi sul sistema di voto sembra procedere come sulla riforma costituzionale: prima mi accordo con Berlusconi e poi con gli altri.
Sarebbe un grave errore. Su questi temi il governo deve confrontarsi con tutte le opposizioni. Il rapporto con Forza Italia è importante, ma non deve essere esclusivo. In Parlamento ci sarà spazio per discutere anche con Sel e 5 Stelle.
La scorsa estate lei è stato uno dei più battaglieri contro la riforma costituzionale.
E non sono affatto pentito. Anzi, sono pronto a continuare la mia battaglia per evitare che l’elezione dei senatori diventi una mostruosità come il sistema che abbiamo visto per le Province. Un vero obbrobrio. La mia proposta era eleggere i senatori contestualmente al voto regionale. Se non sarà possibile, ne ho altre.
Ovvero?
Legare il numero dei senatori alle percentuali prese dai partiti alle Regionali al netto del premio di maggioranza; gruppi in Senato su base territoriale; la Camera che può modificare le leggi che escono da Palazzo Madama solo se si arriva alla stessa percentuale. Altrimenti il Senato diventa un semplice “parerificio” senza alcun potere. Poi occorre diminuire il numero dei deputati e cambiare il sistema delle immunità.
Il testo sulle riforme ora è arenato alla Camera.
A Montecitorio dovrà essere modificato. Altrimenti ci penseremo noi quando tornerà in Senato. Come le ho detto, sul Senato elettivo non mi arrendo.
La minoranza del Pd, dal Jobs act alla legge elettorale, ha ridato segnali di vita. Lei ci s'iscriverebbe?
Io non mi muovo su logiche correntizie, ma faccio battaglie sui contenuti. Detto questo, una minoranza forte e organizzata farebbe bene al Pd. Invece, forse per scarsa generosità dei protagonisti, è divisa e va in ordine sparso. Ma ci sono tanti elettori del Pd che non si riconoscono in Renzi e vorrebbero avere un punto di riferimento alternativo.
Nel frattempo si è aperta la partita anche per il presidente della Repubblica.
Il toto nomi che sento in questi giorni mi sembra irrispettoso per Napolitano, che è ancora in carica e non ha ancora ufficialmente annunciato di voler lasciare.
La Stampa 13.11.14
E D’Alema preferisce il suo vino: il “rosso” che non lo tradisce
L’ex premier sottolinea i pregi dell’“invecchiamento”
di Mattia Feltri
Anche qui si è presa una direzione, e decisamente più piacevole: aperitivo con rosé frizzante e resto della serata con Sfide e Pinot nero, bicchieri di rosso che sono passati sopra un menù di tartare di manzo, ravioli di carne e stracotto.
Su quest’ultimo piatto, Matteo Renzi ci avrebbe fatto della feroce ironia, visto che il grande protagonista della serata è stato Massimo D’Alema: perché incupirsi in Direzione - in questo caso con la d maiuscola - se la vita riserva nuove occasioni di trionfo?
Diluvia a Roma, via Boito, ristorante Mamma Angelina: qui ieri sera l’ex premier ha organizzato - da qualche settimana, quindi da tempi non sospetti - la sua serata di gloria enologica.
Poco meno di un centinaio di amici, ristoratori, esperti, stampa specializzata e tre o quattro parlamentari (Luca Sani e Cristina Bargero) come lui più interessati ai retrogusti che ai retroscena. In fondo D’Alema è ormai un politico a tempo perso, sebbene conservi il cattivo umore di sempre.
A fine agosto, per esempio, era finalmente una pasqua sulla piazza di Otricoli, borgo umbro sulle sponde del Tevere, col suo banchetto per la sagra VinOtricolando, e le bottiglie in vendita. «Massimo, il frizzantino è buonissimo» gli dicevano i paesani con meritata familiarità. Niente acidità di stomaco, prodotta dal riflettere e discutere del giovane usurpatore fiorentino. Certo, fa un pochino impressione che D’Alema diserti proprio l’occasione ufficiale per dire al presidente del Consiglio, e dirglielo in faccia, tutto quello che pensa di lui. Ma ormai il pallino del produttore lo ha preso quantomeno per maggior soddisfazione. Gli capita persino di scaricare le cassette d’uva, dice con goduria da riscoperta della fatica da peone. Il suo vino, prodotto con una certa serietà, a decine di migliaia di bottiglie, va giù che è uno spettacolo, dicono i commensali rapiti e morbidosi. La segretissima cena è stata messa in piedi con la speranza di piazzare il prodotto in qualche ristorante, ma non soltanto: lui vorrebbe varcare le frontiere, se non più per i tavoli delle trattative senz’altro per quelli del rifocillarsi. Ieri sera si è alzato e - mentre all’altro capo della città Renzi si saziava di potere - ha parlato di solfiti e sapori tannici e soprattutto di invecchiamento, settore in cui è ancora un pregio.
Ecco, gli applausi li ha avuti anche lui, nonostante abbia chiuso il discorso di apertura, prima di darci dentro con le forchette, con uno splendido «A noi». Gastronomicamente parlando.
La Stampa 13.11.14
I «Professoroni» contro il governo
di David Allegranti
«Riforme contro la Costituzione?». Quantomeno ci hanno messo un punto interrogativo, quelli della sinistra radical, che dopo essere scesi in piazza contro il berlusconismo adesso organizzano manifestazioni contro il renzismo. «Il governo Renzi si rappresenta come promotore di riforme. La Costituzione dovrebbe essere l’architrave che le sorregge, ma si può temere che varie riforme volute dal governo producano distorsioni incisive dell’assetto costituzionale», si legge nel volantino che pubblicizza l’incontro. Sabato 18 novembre, alle 15, a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, torna il vecchio partito dei professori. Con Francesco Pancho Pardi, Piercamillo Davigo, Salvatore Settis e Anna Marson, a parlare di riforme e dintorni, dalla legge elettorale a quella urbanistica. Special guest, Pippo Civati. Capo della sinistra antirenzista.
Corriere 13.11.14
Il nuovo linguaggio che divide la sinistra
di Massimo Nava
L’effetto più evidente di polemiche e contrapposizioni fra Matteo Renzi e la coppia sindacale Landini-Camusso, è di avere aperto negli ambiti più diversi — partito, sindacato, elettori Pd, intellettuali, giornali — una riflessione su che cosa sia oggi la sinistra, o meglio, su che cosa voglia dire fare (o poter fare) cose di sinistra, rispetto alla crisi del Paese e in rapporto al quadro di trattati e politiche europee.
Se l’effetto fosse solo questo, la riflessione, per quanto lacerante, si potrebbe rivelare utile, sia per il governo che deve prendere decisioni continuando a dichiararsi «di sinistra» e appartenente alla grande famiglia riformista, sia per il sindacato e per la minoranza pd che intravedono nella scelte del presidente Renzi una sorta di diluizione di ideali e soprattutto troppe dimenticanze sui bisogni dei ceti più deboli.
Ciò che si vede meno e che rischia di avere effetti più sgradevoli, non solo per la sinistra, è una sorta di strisciante rivoluzione del linguaggio con cui si tendono a definire valori, categorie sociali, classi di età, diritti. Il nuovo linguaggio divide con una certa interessata disinvoltura ciò che è sinonimo di giovane o di vecchio, di moderno o di antico, di conservatore o progressista. Lentamente, si tende a condizionare la morale corrente, definendo anche ciò che è buono, onesto, utile per il Paese.
Giustamente, come ha detto ironicamente Renzi, a nessuno verrebbe in mente di infilare un gettone nell’iPhone, ma possiamo provare a definire un po’ più nel merito il concetto di modernità? È di sicuro moderna una politica che informatizzi la burocrazia, diffonda la banda larga, semplifichi la fiscalità, riformi istituzioni obsolete come il Senato. Ma è sinonimo di modernità ridurre diritti conquistati in decenni, tagliare pensioni finanziate con i contributi, tassare fondi alimentati dai risparmi e, in ultima analisi, definire il tutto come sacrificio «necessario» e la critica come una difesa del «privilegio»?
Ha senso alimentare, anziché la solidarietà fra generazioni, una sorta di conflitto generazionale che ha per conseguenza, praticamente in ogni ambito sociale e di lavoro un’esaltazione del giovane (che per forza è quindi anche «moderno») rispetto alla inutilità dell’esperienza e alla necessaria rottamazione di ogni forma di vecchiaia?
È possibile, poiché potrebbe essere considerata un’operazione di modernità, che di questo passo si passi all’attacco della sanità pubblica, confondendo sacrosante esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa con l’erogazione di servizi e diritti.
Già si sente teorizzare il concetto di vecchiaia come «costo sociale»: ne consegue che l’allungamento della vita non è una conquista moderna della medicina e del progresso, bensì un privilegio dell’Occidente e dei ceti più benestanti che potranno permettersi cure private e pensioni elevate.
Esempi del genere si potrebbero fare anche guardando all’Europa. Anche un bambino, che normalmente non ha una grande padronanza del linguaggio, oggi comprende che le parole usate per definire le politiche europee di questi anni raccontano un’Europa che esiste soltanto nella fantasia dei dépliant o nella testa di alcuni burocrati, per lo più residenti a Berlino e Bruxelles.
Con il termine «austerità» si sono autorizzate e imposte le politiche più rovinose e sciagurate, salvo poi esaltare in corsa la «crescita» che non c’è e non potrà mai esserci con queste politiche monetarie, con queste regole, con questa «modernità» di un’Europa che appare invece molto più vecchia, finendo oggi per assomigliare a quella degli Stati nazionali in conflitto, dei potentati finanziari, delle mire espansionistiche e di dominio del Paese più forte. Esempi di stravolgimento del significato delle parole, meno comprensibili ai più, ma ben noti a tecnici e addetti ai lavori, si potrebbero fare quando vengono definiti Paesi «virtuosi» quelli che hanno imposto lacrime e sangue ai cittadini senza essere usciti dalla crisi e aggravando il proprio debito pubblico. Oppure quando si prendono per oro colato le valutazioni delle agenzie di rating, ossia la «moderna» versione degli editti imperiali o delle bolle papali cui sono obbligati a uniformarsi le comunità, i fedeli, i sudditi.
Può sembrare banale l’auspicio a chiamare le cose con il loro nome e a dare alle parole il loro corretto significato. Di certo, continuando a fare confusione, si rischiano soltanto contrapposizioni sterili, con il risultato che nessuno comprenda (e tantomeno condivida) il significato della parola cambiamento.
Corriere 13.11.14
Gli scontri alla periferia di Roma
Nei due fortini di Tor Sapienza «Qui non si cade, si mena e basta»
di Goffredo Buccini
Pochi denti in bocca e molta rabbia in testa, lo stigma dell’eroina e della miseria. «Ci sarà una grande pulizia, vedrai!», giurano i vecchi di Tor Sapienza, quelli entrati nelle prime case Ater trent’anni fa — una specie di nobiltà locale —, seduti sul muretto dietro al Lory Bar, che è il quartier generale di questo caos: «I neri protetti dal Vaticano e dai comunisti devono anna’ affa...», sibilano.
Terza sera di paura, dopo botte e bombe carta, cortei e sassaiole: ora però ci sono molti blindati, tanti poliziotti, tute antisommossa. Bianchi e neri sono pronti a scannarsi come in una banlieue, come a Soweto, in questa periferia est di Roma. Il civico 142 di viale Morandi è un falansterio di degrado popolato da 500 famiglie, un circolo di otto piani di cemento con quattro pini piantati in mezzo, romeni abusivi subentrati nei sottoscala a 300 euro al mese, vecchi negozi occupati dai rom. «Non ho più il mio metro quadrato per respirare», ghigna Gino, e giura che negli anni Ottanta «qua era un paradiso, prima che venisse ’sta gente».
Le spedizioni degli incappucciati sono partite da qui, dai giardinetti, strillando «viva il Duce!», agitando mazze, confuse dentro i cortei di protesta degli abitanti. Bilancio: quattordici feriti, tra cui molti poliziotti e un cameraman di Raidue. Davanti alla scala DD (ogni civico ha lettere e sottolettere) c’è ancora qualche macchia di sangue di martedì.
I «nemici» sono dall’altra parte di viale Morandi, al civico 153 e seguenti, in un altro casermone, dipinto fresco di arancione: 430 metri quadrati per sette piani più due di seminterrato. Proprio di fronte, stanno. E dalle finestre guardano spaventati, in realtà non hanno gran voglia di combattere, anche se si preparano a barricare di nuovo l’ingresso contro i tentativi di irruzione. Sono ospiti della onlus «Un sorriso», che impiega una quarantina di operatori al centro d’accoglienza. I ragazzi hanno faccette implumi ma già segnate anche loro. Vengono da dove si combatte sul serio, Libia, Siria, Egitto. In tutto trentasei minorenni, per legge sotto la tutela del sindaco Marino. E trentasei adulti rifugiati. Parlano a fatica: «Sono scappato dalla guerra e ho trovato un’altra guerra», «ho più paura di prima», «meglio che morivo a casa mia».
Uno di loro, un bengalese, dimostrerà dieci anni ma ne ha quattordici, è stato preso a bastonate in testa l’altro giorno al parco. Il parco Barone Rampante è un posto sconsigliabile. I romeni ci si sono accampati e lunedì uno di loro avrebbe infastidito una ragazza romana con la coda di capelli bionda e un pitbull al guinzaglio. Quando si usa troppo la locuzione «uno di loro» significa che le cose si mettono male. Ora tutti dicono «tentato stupro», ma non c’è denuncia. La scintilla è stata quella. Il romeno è stato pestato, ma poche ore dopo è partito il primo assalto alla onlus. Negli scontri, anche la ragazza con la coda bionda ha preso un paio di manganellate.
Qua tutti menano tutti, è la legge di questo inferno che ha venti identiche succursali tutt’attorno alla periferia romana, venti focolai in attesa.
Un mese fa toccò a Corcolle. Tra un mese magari sarà la volta di Ponte Mammolo o della Romanina. La tensione gira come una pallina di roulette, il copione non cambia, quelli che soffiano sul fuoco fanno la fila. Lunedì e martedì la polizia ha individuato tra i picchiatori noti fascisti e ultrà. Ieri, rispondendo all’appello «di solidarietà» diffuso dalla onlus, sono apparsi antagonisti e vecchi militanti di Action. L’incendiario leghista Salvini, che pure ha annunciato la sua venuta, stavolta arriverà buon ultimo. Molto atteso sarebbe Ignazio Marino, che tra le grane della sua Panda Rossa ha trovato il tempo per incontrare in Campidoglio alcuni residenti. Ed è certo ingeneroso prendersela con lui, fresco arrivato. Tuttavia un suo comunicato che promette di «individuare soluzioni condivise», «una presa di distanza dagli episodi di violenza» e una visita «a breve», suona inadeguato se non grottesco.
«Qua è ‘na tragedia», inquadra la situazione Gabriella Errico, presidentessa della cooperativa che gestisce il centro d’accoglienza, «l’altra sera hanno tirato sedici bombe carta. Ma, vede, noi non ce ne possiamo andare. Come dicono i colleghi delle altre cooperative, poi si sposterebbero alla Prenestina, all’Ardeatina...», come la pallina della roulette appunto. Gli ospiti del centro sono accusati di furti, provocazioni, persino di cambiarsi nudi alla finestra.
Francesca, dirigente della struttura, calabrese, sospira: «La verità? I ragazzini sono quasi ingestibili. Vengono qui direttamente dallo sbarco. Su di loro devi partire da zero... avessimo cinque anni di tempo! Nessuno ruba. Ma qui si aggiunge disagio a disagio». Accanto, due dei più giovani si azzuffano. Gabriella Errico sospira: «Giocano, sono esuberanti. Sa, gli egiziani?».
In questa storia non si vedono ragioni, tutto sembra un torto. Persino le dimensioni del centro «Un sorriso», quasi quattromila metri quadrati per una settantina di rifugiati a 25 mila euro al mese di affitto pagati da Europa, Stato italiano e Comune di Roma. Certi spazi fanno gola in un quartiere dove prima si occupa e poi si dice buongiorno. «Ma questa è la sede della cooperativa sociale, non c’è solo l’accoglienza», spiega ancora Francesca. Di sicuro il centro attira molta polizia e la cosa non può far piacere ai padroncini dello spaccio locale: anche qualcuno di loro era in mezzo ai tafferugli.
Dalla trincea del Lory Bar, Marina dice che «no! Noi non difendiamo gli spacciatori». Ha una faccia patita per i suoi trent’anni, un cappuccio di lana in testa e, attorno, il gruppo dei vecchi tossici. Qui è nata, sua madre c’è venuta nel ‘78. Ammette: «Sì, l’altra sera c’eravamo noi. Ma abbiamo fatto un’ istigazione ». Cioè? «Ha presente nel Sessantotto quando c’erano i comunisti? Uguale a loro. Abbiamo fatto un’istigazione per farci vedere! Io nun so’ razzista. Negro non lo dico a nessuno perché è una diffamazione. Ma, scusi, se nel suo quartiere le arriva gente così lei che fa?». Un’istigazione? «No, nooo! Una rivoluzione!».
Sotto la pioggerella della sera, un cinquantenne congolese si accascia sul marciapiede della onlus, un taglio in fronte, chiedendo aiuto. Capannelli, polizia, ambulanza. Forse è caduto? Una vocina da dietro risponde: «Qua nun cade nessuno, qua se mena e basta».
il Fatto 13.11.14
Tor Sapienza. Caccia al negro
di Antonello Caporale
ROMA EST. NOTTE DI GUERRIGLIA, ESASPERAZIONE E VIOLENZA PER IL CENTRO MIGRANTI. NERVI TESI
Roma “Te venimo a prenne, nun te preoccupà che entramo e ve svotamo”. C’è una frenesia di botte, di spranghe e mortai di varia intensità nel corpo a corpo di TorSapienza, lungo i metri che separano i due muri di viale Giorgio Morandi, nel rettilineo di periferia che conduce dritti all’inferno. Nel primo blocco di case popolari, un serpentone appena più gentile di quello famoso, sono ospitati i romani residenti e acquisiti. Brava gente, famiglie di lavoratori insieme a teste calde di varia umanità e provenienza. Nel muro opposto, dentro stanze che oramai sono gabbie, resistono asserragliati nel centro di accoglienza una cinquantina di immigrati, il cui destino è però segnato. Dovranno sloggiare presto da qui. O ci pensa la polizia oppure provvedono loro, gli amici di Luciano, una lieve balbuzie, l’animo semplice e tanta voglia di farla finita con gli intrusi: “Nun ce l’ho con i negri ma con gli arabi. Gli arabi fanno schifo, sono stronzi, come pure i rumeni e questi sono arabi e li dovemo caccià”.
Borgata da 16 mila anime
Tor Sapienza conta 16 mila abitanti, è la borgata romana con più ordine apparente, resiste una geometria urbana, un decoro e una mitezza dei colori e degli alloggi tra la via Prenestina e la Collatina, a est di Roma. Trent’anni fa, il Campidoglio decise di posizionare un torrione di case popolari ai margini del quartiere. “Aveva ordine e gradevolezza, tanto che comprai casa lì vicino in unacooperativa”, diceGiuliano, 64 anni, pensionato. “Oggi però è l’inferno. È una rabbia sorda che monta, un’intolleranza che prende piede e ogni giorno si fa più dura. I miei figli mi supplicano di vender casa e trasferirmi in un luogo più tranquillo”. L’ordine era già da tempo divenuto disordine, con una delinquenza organizzata al dettaglio, una piazza speciale nello spaccio di droga, traffici di crimini comuni, un’area eletta per i transessuali e il sesso en plein air. La politica ha fatto il resto e ha trasformato Tor Sapienza, già piegata e depauperata dalla crisi, in una discarica umana. Qui dietro i rom, nel campo selvaggio di via Salviotti, qui davanti gli immigrati. Perfino il costruttore Caltagirone si è arreso all’evidenza e ha lasciato i suoi palazzi con lo scheletro a vista, senza tompagnature per paura delle occupazioni abusive. Cemento issato e invenduto. Meglio fuggire da qui. E dunque sono rimasti solo i nuovi poveri contro questi diseredati, nel più classico e conosciuto revival della disperazione. E le spranghe da due giorni sono iniziate a farsi sentire. Luciana, del comitato di quartiere: “Ci pisciano addosso, fannoladoccianudi”. Roberto, disoccupato: “M’hanno tirato un posacenere”. Carla, in auto: “Li dovete menà”. Roberto: “La situazione è insostenibile”. Signora in pantofole: “La nostra delinquenza ha rispettato ogni abitante di questo quartiere. Invece quelli... ”. Ecco il punto. Lo spacciatore riconosce i condomini e non reca fastidio, il ladro ruba altrove, il cattivo resta quieto in casa sua. Invece il piccolo barcone di Lampedusa che alla fine ha attraccato qui ha rotto ogni equilibrio e spaventato, fatto incazzare tutti per una serie di ragioni. Roberto: “Io sono disoccupato e m’arangio, loro prendono trenta euro al giorno”. Luciana: “Io so quaranta euri”. “Abbiamo le prove”. I soldi che lo Stato spende per il mantenimento provvisorio di questa disperazione umana sono stati visti come un affronto, un gesto offensivo, una incredibile provocazione. Facilissimo alimentare questa nube tossica con altro veleno, e testimoniare l’urgenza di darsi da fare con le proprie mani. Casa Pound ha una cellula attiva a Tor Cervara, due passi da Tor Sapienza, Giulio ha visto l’altra sera, negli scontri tra polizia e manifestanti, saluti romani. “Gridano viva il duce, c’è puzza di fascismo lunga un chilometro in questa protesta. E dentro ci sono pure gli ultras dello stadio. Quelli vedono botte e accorrono”. Luciana: “Non ti permettere di scrivere che siamo fascisti. Noi siamo gente che vuole vivere in tranquillità. Hai sentito di quella ragazza violentata da un immigrato? È stata violentata e poi anche manganellata dalla polizia”.
La passerella dei fascio-leghisti
Botte a non finire due sere fa, la polizia che qui ha steso un cordone di protezione, ha usato i manganelli per resistere alle bombe carta e far fronte agli animi bellicosi, ai pugni mostrati, alle lame dei coltelli”. Ma era solo il primo round. Ieri sera un immigrato è stato preso a botte. Uno a caso, tanto per far capire qual’è la musica. Questi corpi di cemento armato ospiteranno presto il promo di ciò che prevedibilmente interesserà le altre periferie d’Italia. Il sindaco Ignazio Marino verrà nei prossimi giorni, dopo un Consiglio comunale straordinario sulla sicurezza. Ma non esiste la politica nazionale, nessuno si avventura quaggiù. Il premier Renzi tace. L’unica stella che fa capolino è quella di Matteo Salvini che in joint venture con Casa Pound monopolizza temi e simpatie, distribuisce parole d’ordine, accumula slogan e per adesso intenzioni di voto. “Tor Sapienza ha bisogno di noi. Il 23 novembre sarò lì”, ha subito dichiarato. Prima di lui ci sarà già passato il solito Borghezio (domani). Sarà una marcia trionfale e anche il clou di una ribellione di massa, la miccia sul fuoco c’è e il quadrante di Roma attraversato dalla linea ad alta velocità è solo in attesa di mostrare dove la collera può portare e quale dono abbia fatto la crisi economica. Un mese fa un gruppo di abitanti di Corcolle, al di là della linea ferroviaria, avevano preso a sassate i rifugiati africani. Qui hanno alzato il livello e hanno dissotterrato le bombe carta, modelli guerreschi finora in uso alle curve, per “farsi giustizia”. “Abbiamo paura di uscire e di entrare a casa, la vita si fa preoccupante in questa strada”, dice Valentina nel soggiorno a piano terra dell’appartamento. “Ci è costato 75 milioni trent’anni fa, e tanti sacrifici. Si starebbe bene se non ci fossero loro”. Loro chi? “Quelli delle case popolari. Ci sono tante teste calde e tanti fascisti. Vogliono far guerra e adesso hanno trovato il modo per giustificarla”. E allora che si fa? “Mia figlia dice che devo venderla e intanto non mettere il naso fuori. Per fortuna abbiamo il garage con due uscite. Prendiamo sempre quella più lontana e non facciamo mai tardi di sera”.
il Fatto 13.11.14
Il sociologo Marco Revelli
“Tornano le scorie della destra e il Pd è un ogm”
di Tommaso Rodano
Dalle periferie di Roma e di altre città arrivano segnali spaventosi. Stiamo saggiando i limiti della nostra tenuta sociale”. Marco Revelli, intellettuale e sociologo, tra i primi promotori della Lista Tsipras alle scorse Europee, sembra scoraggiato, quasi arreso. “Queste violenze sono uno dei prodotti tipici della crisi. Quando le società marciscono, iniziano i conflitti orizzontali alla base della piramide sociale. I penultimi contro gli ultimi: le guerre tra poveri. I poveri si combattono perché la piramide si è allungata e i ricchi sono fuori tiro”.
E qualcuno ci specula...
C’è chi si arricchisce politicamente su questi sentimenti. È un’operazione indecente.
Nomi e cognomi?
Matteo Salvini. È l’imprenditore dell’odio. Trovo disgustoso questo modo di stare dentro la crisi per qualche pugno di voti in più. Stare contro gli ultimi per conquistare i voti dei penultimi.
Salvini, forse, risponderebbe che lui ascolta la pancia delle persone. Qualcun altro se l’è completamente dimenticate.
Non è l’unico responsabile di questa situazione. Prendiamo i rom: i campi nomadi – dove si vive in condizioni disumane – non se li è inventati certo Salvini. Le amministrazioni pubbliche di ogni colore hanno considerato questa umanità ai margini una zavorra. Salvini incassa, ma sono in molti ad avergli preparato questa situazione.
La Lega ora si allea con Casa Pound.
La crisi sta cambiando i profili delle soggettività politiche. Sta nascendo anche in Italia una destra virulenta, per certi versi persino peggiore del Front National francese, che nel tempo ha smussato alcune sue punte. La destra sta rimettendo in scena le scorie più tossiche della propria identità novecentesca.
E la sinistra?
Simmetricamente, anche la sinistra ha avuto una mutazione genetica. Il Pd è un ogm, in fuga vertiginosa da ogni identità che possa anche lontanamente ricordare le proprie origini. Renzi è impegnato in un’acrobazia spericolata: vuole stare con i ricchi al vertice della piramide (pensiamo alla Leopolda e alle cene per miliardari) e insieme conquistare il voto di chi sta in basso. Un’operazione tenuta insieme dalla sua retorica populista. È molto difficile, perché ad ogni svolta rischia di scontrarsi con la realtà dei fatti. Prima o poi succederà.
Siamo ai limiti. Abbiamo politici spregiudicati: Salvini, Renzi e in qualche momento pure Grillo, che è tentato di appellarsi a certi cattivi sentimenti, come su Ebola e immigrazione. Io avverto con paura degli scricchiolii dell’impalcatura della nostra tenuta civile. Il guappismo renziano ha cancellato anche quella sinistra che per qualche sussulto di memoria, ogni tanto, reagiva. Non rimane che il Papa, l’unica voce che si sforza di comunicare sentimenti e valori positivi.
Corriere 13.11.14
La politica ispirata dal risentimento: una strada pericolosa
di Mauro Magatti
Due episodi in pochi giorni. Stesso scenario: le periferie degradate delle grandi città (Milano e Roma); stessi protagonisti: gruppi sociali marginali, abitanti esasperati, apprendisti stregoni in cerca di riposizionamento politico, gruppi antagonisti e centri sociali, forze dell’ordine. Stesso risultato: la violenza che scoppia e distrugge, confermando ciò che avremmo sperato non vedere più: l’odio che avvelena l’aria delle nostre città e della nostra democrazia.
In un libro di qualche anno fa Zygmunt Bauman ha sostenuto che la crescita tende a creare, come una sorta di effetto collaterale, «scarti umani». Uomini e donne, dice Bauman, che, per una ragione o per l’altra, diventano inadatti a vivere in una società avanzata. «Vite di scarto» che le democrazie tendono a rimuovere, concentrandole ai margini delle proprie città. Dove si pensa non diano fastidio. Almeno alle vite «normali». Salvo poi accorgersi che questa rimozione è un’operazione impossibile: non fosse altro perché c’è sempre qualcuno che è costretto a vivere vicino a questi luoghi della sofferenza contemporanea. Anche se è sgradevole osservarlo, accade cioè qualcosa di simile a quanto succede a proposito delle discariche dei rifiuti. Di cui tutti riconosciamo la necessità, salvo poi volerle sempre altrove e comunque mai nelle vicinanze della propria abitazione.
È attorno a questi luoghi dove concentriamo quelli che sono «scarti» — un campo di rom, un centro per l’accoglienza di immigrati — che è scoppiata anche in questi giorni la violenza. Perché?
È incredibile come le società umane sembrino non imparare mai. Le periferie delle grandi città di tutto il mondo sono contesti fragilissimi, che vivono di equilibri molto precari e instabili. Al loro interno, spesso sono solo le inesauribili risorse di socialità e di umanità presenti nella stragrande maggioranza degli esseri umani a tenere le maglie di un tessuto sociale che manca persino degli elementi più basilari. Ma provate a cambiare, senza nessuna azione di accompagnamento, gli equilibri etnici di questi quartieri (ad esempio attraverso una massiccia immigrazione); aggiungete qualche campo rom o un centro per immigrati illegali, «brillantemente» collocato in un contesto già fragile; fate seguire anni di recessione economica che — come non è difficile immaginare — produce disoccupazione particolarmente elevata, soprattutto tra gli abitanti di questi quartieri. Non è questa la ricetta per il disastro?
Anche se non ce ne rendiamo conto, attorno alle grandi città ci sono quartieri in cui si vive in una condizione di extraterritorialità. Dove i cittadini si sentono letteralmente abbandonati da istituzioni che sembrano non esistere (salvo la scuola che eroicamente continua a essere un presidio in tutta italia) eccetto che per saltuari se non estemporanei interventi repressivi.
In questi quartieri regna un profondo senso di insicurezza che alimenta il risentimento, un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustrazione subita, sia essa reale o immaginaria.
In queste condizioni, basta una scintilla per far scoppiare l’incendio. E basta davvero poco per organizzare una speculazione politica. Che ha gioco facile nello sfruttare il disagio diffuso e volgerlo contro il capro espiatorio di turno — il migrante, il rom — che può facilmente fare da parafulmine per tutte le fatiche di chi vive in questi quartieri. Così che il risentimento — che non saprebbe con chi prendersela per una vita grama privata persino della speranza — riesce così a trovare uno sfogo. È stato questo il caso di Matteo Salvini, a sua volta bersaglio di aggressioni. Il leader della Lega, in cerca di un riposizionamento politico che fa del modello di Le Pen il proprio punto di riferimento, ha il fegato di andarci in questi quartieri. E di dare così la sensazione di essere vicino a chi non si sente ascoltato.
Nei prossimi mesi vedremo gli esiti di una tale campagna. Certo deve preoccupare lo stato di una democrazia dove i soggetti politici percorrono queste vie per ottenere un consenso che non riescono più a costruire con un discorso capace di guardare al futuro. Il risentimento è un’arma pericolosa. Maneggiarla può portare anche là dove non si voleva finire.
Repubblica 13.11.14
Milano. Occupanti, racket, antagonisti : scoppia la battaglia delle case popolari
Da San Siro al Corvetto: 20 mila sfratti da eseguire, 800 palazzi “invasi”
Risse quotidiane. E gruppi di donne “a difendere la legalità”
di Piero Colaprico
MILANO «Una volta sui portoni segnavano una “M”, o una “V”, era il segnale dell’occupazione notturna. Da quando l’abbiamo capito, e ci piazzavano davanti alle porte, hanno cambiato modo di comunicare. Adesso il nostro incubo sono i fischietti. Quando devono occupare le case lasciate vuote, arrivano alla spicciolata, poi fischiano, si avvisano tra loro e irrompono. Ma mentre loro fischiano, noi usiamo i telefonini e corriamo, chiamiamo la polizia... ».
Sono tutte donne, al quartiere San Siro, e in viale Mar Jonio hanno costituito il primo comitato cittadino in grado di trasformare gli stabili delle case popolari in una gigantesca trincea anti-abusivi. A qualcuno dei vicini, «a forza di sentire quei fischietti, è venuto l’esaurimento nervoso». Ma non a Lucia Guerri, 76 anni, anima del comitato: da quando gira con le stampelle per guai al menisco s’è fatta sostituire dalla nipote Giulia Crippa (cognomi milanesissimi), ma non molla. «Al massimo con noi viene un solo uomo, il Gino, anche i poliziotti ce lo dicono: “Ma i mariti dove sono?”. Eh, davanti alla televisione... ».
Lo stesso fenomeno metropolitano — queste donne senza paura di stare in trincea — succede tra Lorenteggio e Giambellino, dove per tre volte, nella scala D di via Odazio 6, sono state le signore di settanta, ottant’anni, a difendere la porta da uno sfondamento, finché l’Aler (che cura le case popolari per conto della Regione Lombardia) non l’ha assegnata a una signora italiana, portatrice di handicap. E chi se l’è presa, però, con questo coraggioso comitato inquilini che lotta contro le occupazioni? Il centro sociale “Base di solidarietà popolare Giambellino”: la sinistra antagonista s’è schierata a favore delle occupazioni, «sono questi giovani che spaventano i vecchi italiani, ci minacciano, provano a farci paura», dice M. P., «perché con i rom, che hanno occupato varie case, non abbiamo problemi, se non — ed è una citazione testuale — per il fatto che non capiscono la raccolta differenziata dei rifiuti».
Rifiuti a parte, il paradosso di questa battaglia “regolari-abusivi” è apparso nitido anche al Corvetto, dove martedì sera, altri gio- vani dei centri sociali antagonisti hanno attaccato con vernice e fumogeni una riunione di abitanti del quartiere che chiedevano gli sfratti: e se ne sono andati solo quando hanno visto gli anziani cominciare a tossire e star male. Le case popolari di Milano sono una polveriera ovunque, in ogni quartiere, e in più, tra pubblico e privato, ci sono in città circa 20mila sfratti da eseguire. Le prime operazioni di sgombero riguardano chi ha occupato le case popolari. «Allora sarà guerra», si sente dire in giro.
Già dalla quotidiana «battaglia dei fischietti » di San Siro si vedono da vicino i tre eserciti schierati in campo: gli inquilini regolari, al grido «no al degrado»; la massa indistinta degli occupanti abusivi legata al racket dei senza-casa; il centro sociale Cantiere, che partecipa alle feste di strada, promuove amicizia tra vicini e spiega che lotta «contro chi della casa ne fa un bene di profitto. Che sieda in poltrona, i nostri governanti, o che stia per strada, il racket». Ma se la politica è riconoscibile, il racket è sfuggente e, nello stesso tempo, sapiente: «Qui a San Siro — racconta uno degli uomini, in segreto dalle donne — bisogna stare molto attenti a come ci si muove. C’è un tariffario per aprire le porte e per entrare nelle case, duemila euro il servizio completo. Ma non lo può fare chiunque, il lavoro del fabbro, bisogna chiedere il “permesso” a qualcuno che può darlo, e sinora nessuno è andato a rompergli le scatole, né la legge, né i centri sociali, vediamo come andrà a finire ».
Se «vediamo» da vicino le strade delle periferie milanesi una cosa è chiara: ad alzare la voce più forte di tutti è chi vive di illegalità. Com’è successo, per esempio, a Crescenzago: alla fine di un’assemblea pubblica contro il degrado, le auto di molti partecipanti sono state trovate con i vetri rotti e le gomme squarciate. La trincea di San Siro invece resiste, è lunga ben 56 portinerie «popolari», a ogni portineria fanno capo dai cento ai centoventi appartamenti. Ma spicca un altro numero: gli abusivi hanno conquistato in zona ben 800 case. I primi sono stati «gli italiani» che venivano, vent’anni fa, dal quartiere Stadera, rettangolo di strade a non bassa densità criminale: sfrattati, scacciati, arrestati nella periferia Ovest, molti di quei gruppi sono saliti nella periferia Nord. E nessuno ha resistito «ai barbari». Poi, con le ondate migratorie, sono approdate accanto allo stadio le famiglie con bambini: chi poteva occupava le case vuote che — e anche questo dato nudo e crudo è tale da far riflettere — ancora oggi sono alcune centinaia.
Case vuote perché? Per una legge della Regione Lombardia, che impone l’affitto solo di case ristrutturate (ma non le ristruttura, o lo fa con il contagocce). Viceversa, il Comune di Milano, da poco, ha tolto le sue case dalla gestione dell’Aler (succederà entro l’anno), le ha affidate alla società che gestisce la Metropolitana milanese, e ha in mente di provare ad affittare le case «allo stato di fatto», scalando i lavori da eseguire dal calcolo dell’affitto.
Nel frattempo, però, nessuno che aspetta la casa sta a guardare. A due passi da viale Mar Jonio, in via Cividale 30, l’altro ieri un clan di nomadi è andato all’arrembaggio di un intero stabile, ma è scattato l’allarme e tutti sono stati scacciati, anche perché nella palazzina mancavano bagni, porte, scale, eppure «quelli ci sarebbero rimasti lo stesso».
il Fatto 13.11.14
Per i diritti dei rom e dei sinti
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, noi rom e sinti siamo la più grande minoranza europea – oltre dodici milioni distribuiti in tutti i Paesi – non abbiamo una terra di riferimento, neppure l'India delle lontane origini, non abbiamo, come altre minoranze disperse, rivendicazioni territoriali, quindi non abbiamo mai fatto guerre per rivendicare una patria. Siamo cittadini del luogo in cui viviamo. Siamo il perfetto popolo europeo, ma ciononostante siamo il popolo più discriminato d’Europa.(...) Per queste ragioni le comunità rappresentate dalla Federazione Rom e Sinti insieme alla Federazione Romani propongono ai cittadini italiani di sottoscrivere una legge di iniziativa popolare per il riconoscimento giuridico della minoranza linguistico-culturale rom e sinta italiana.
Dijana Pavlovic
COME I LETTORI IMMAGINANO la lettera di Dijana Pavlovic è molto più lunga ed è stato inviato in allegato anche il testo della legge, che sarà pubblicato in Rete. Voglio dire le ragioni della mia risposta. La prima è che firmerò la legge, che ritengo necessaria. È una materia fondamentale di diritti civili e di diritti umani per i quali, quando ero in Parlamento, ho avuto il sostegno e la collaborazione solo dei colleghi radicali. La seconda è che Dijana Pavlovic è una collega e amica che scriveva per l'Unità al tempo della direzione mia e di Padellaro. La terza ragione la leggo nella stessa giornata in cui scrivo (12 novembre) a pag. 5 dell'inserto romano del Corriere della Sera. Titolo: “Smantellato campo rom”. Testo: “Sono arrivati con le ruspe, i camion, pattuglie di rinforzo in caso di reazioni degli occupanti. Ma fortunatamente l'operazione è andata in porto senza guai. I vigili urbani, dopo la nostra denuncia sul ‘campeggio’ rom a Ponte Testaccio, hanno rimosso tonnellate di masserizie e favorito la pulizia dell'area. Sono stati portati via mobili, brande, tende, tv e frigoriferi che rendevano inagibile la banchina del ‘parco fluviale’ che oggi è recuperata”. La cronaca non ci dice a che ora sono arrivate le pattuglie di vigili e le ruspe (certamente un po' prima dell'alba), quanti erano i residenti del “campeggio” e quanti di essi erano bambini. Non ci dice neppure perché, per prima cosa, arriva la ruspa, strumento di distruzione all'ingrosso, capace di spazzare e ingoiare anche una culla, una sedia a rotelle o una più che legittima bicicletta. Dove vanno, in casi del genere, “mobili, brande, tv e frigoriferi che rendevano inagibile la banchina”? C'è un sequestro, una ricevuta, un modo di riaverli indietro se sono ancora utilizzabili dopo il buon lavoro della ruspa? È vero che, nella credenza radicata e diffusa, i rom “rubano”. Ma in casi come questi è il Comune di Roma che ruba ai rom, a meno che manchi la notizia di un grande deposito comunale in cui vengono ospitate e restituite a chi ne fa richiesta con ricevuta, le “masserizie”. Voglio chiarire. Non sto facendo, senza diritto, la morale al Corriere, che ha scritto quello che è effettivamente accaduto. Sto dicendo che il breve testo (certamente tratto dal verbale dei vigili) è documento della cultura italiana contemporanea. Nessuno nota immondizie e oggetti ingombranti, abbandonati e visibili, con danno anche al turismo, in molte zone di Roma, simili alla banchina del Te-staccio. Ma la denuncia scatta subito se vi è un insediamento rom. Lo scandalo (e la violazione di norme internazionali ed europee sottoscritte dall'Italia) non è la rimozione, ma la modalità di essa come è stata descritta, la distruzione delle baracche per vivere (in giorni di pioggia violenta e continua), il sequestro d'autorità dei pochi beni (tv, frigorifero) la cacciata, senza alcuna preoccupazione di avere preventivamente indicato un luogo in cui i rom (certamente famiglie) potranno andare a vivere. Sì, la legge di iniziativa popolare è urgente. È necessaria a tutela della immagine di ciò che resta della civiltà italiana, prima ancora che per la protezione dei rom e sinti (che sono in tutto 150 mila in Italia, la metà donne, la metà bambini) ma vengono tenuti d'occhio come il vero pericolo, più del Califfo). La firmerò e vi prego di firmarla.
il Fatto 13.11.14
Segreti sulle stragi Renzi non risponde
di Gianni Barbacetto
RICORDATE la promessa di Matteo Renzi di togliere il segreto ai “misteri d’Italia”? C’è qualcuno che gli chiede conto della promessa. È Paolo Bolognesi, a nome dei familiari delle vittime delle stragi e della Rete degli archivi per non dimenticare. Presidente dell’Unione dei familiari e ora anche deputato Pd, ha ripetutamente chiesto un incontro al presidente del Consiglio, per porre alcune domande sui documenti che dovrebbero diventare pubblici. “Per evitare che un fatto importante come la tua direttiva si risolva, come in altre occasioni, in un modo per aggirare la richiesta di verità dei cittadini e dei familiari delle vittime”. La direttiva di Renzi dell’aprile 2014 assicurava “un versamento della documentazione relativa alle stragi di piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Brescia (1974), Italicus (1974), Ustica (1980), stazione di Bologna (1980), rapido 904 (1984)”. Ora, ricorda Bolognesi, si aprono alcuni problemi. I più concreti sono quelli organizzativi e di spazio: dove “versare” i documenti? All’archivio centrale di Stato o a quelli periferici? E dove trovare lo spazio per conservare carte che occuperanno spazi imponenti? “Appare utile utilizzare le caserme dismesse per creare nuove sedi per gli archivi di Stato”, suggerisce Bolognesi. Sarebbe un “grande giovamento anche in termini di risparmio sugli affitti delle sedi attuali”.
Poi ci sono i problemi più sostanziali: che cosa sarà davvero declassificato? E chi deciderà che cosa declassificare? Perché esistono “fatti di terrorismo e stragi (moltissimi!) che non riguardano le stragi oggetto della direttiva”. Questi come saranno valutati? “Occorrerebbe ragionare su declassifiche progressive e versamenti unitari”, dice Bolognesi, “non per fatto singolo, ma in relazione a tutto ciò che interessa quell’arco di tempo (1969-1984), circa i fatti che coinvolgono persone o organizzazioni presenti in quel periodo, implicati nelle vicende di terrorismo e stragi”.
La domanda delle domande però è: chi decide su quali documenti togliere il segreto? Marco Minniti, sottosegretario con delega ai Servizi segreti, a settembre, al Premio Alpi, non solo ha annunciato la de-classificazione di tutti i documenti relativi all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Krovatin, ma ha anche parlato di “70 metri lineari di documenti dei servizi segreti, relativi alle grandi stragi avvenute tra il 1969 e il 1984, che – in base alla direttiva – sono pronti per essere declassificati e versati all’archivio centrale dello Stato”. Francamente, 70 metri sono davvero pochi per una storia così lunga e così travagliata e complessa. E allora: “Da chi era composta”, chiede ora Bolognesi, “la Commissione che si è occupata di selezionare” quei 70 metri? Oltre alle carte dell’intelligence, la direttiva riguarda i documenti anche di altri enti produttori (la Farnesina, il ministero dell’Interno, quello della Difesa...). Quali sono gli enti produttori interessati? Come si sta procedendo? Che tempi sono previsti? E ancora: i documenti saranno digitalizzati?
INFINE, la domanda delle domande: “Chi deve declassificare e depositare è lo stesso che fino a oggi ha classificato, con sue valutazioni, e coperto i documenti. Quali garanzie possiamo avere che il materiale depositato sia la totalità del materiale? Come sarà possibile controllare?”. Sarebbe per questo opportuno inserire, “nella commissione prevista dalla direttiva, figure quali magistrati, rappresentanti delle associazioni di vittime di stragi e terrorismo e un rappresentante della Rete degli archivi per non dimenticare”. Renzi ha fatto sapere a Bolognesi di avere molto da fare. Per ora, nessuna risposta e nessun incontro.
Corriere 13.11.14
Test di medicina, il timore dei rettori: «Anno accademico pregiudicato»
di Claudia Voltattorni
Dovevano entrarne 10 mila in tutta Italia. Poi ne sono arrivati altri 5 mila. E presto se ne aggiungeranno altri 2 mila. Una situazione «gravissima» e «insostenibile» che «pregiudica il regolare avvio dell’anno accademico». Così i rettori della Crui (la Conferenza dei rettori delle università italiane) hanno scritto al ministro Stefania Giannini chiedendole un incontro urgente per affrontare quella che sta diventando una emergenza: il sovraffollamento di matricole nei corsi di laurea in medicina per l’ingresso dei ricorsisti che, pur non avendo passato il concorso, sono stati riammessi dal Consiglio di Stato. Ciò si è tradotto, in alcuni casi, come quello di Palermo, in quasi il triplo di studenti (intorno ai 1.100) per corsi e spazi pensati invece per un terzo di loro (404). Si parla di aule stracolme e laboratori impossibili da tenere. «Ora stiamo dando una risposta con strumenti straordinari — dice il rettore di Palermo e vicepresidente Crui Roberto Lagalla — ma per i prossimi anni cosa faremo?». Anche perché, scrivono i rettori, «da anni le domande di accesso ai corsi superano le relative offerte, tanto di posti quanto di borse». Il ministro li riceverà domani.
Corriere 13.11.14
L’eterologa e donatrici
Ovociti, il nodo dei compensi
di Luigi Ripamonti
Il problema della mancanza di ovociti per la fecondazione eterologa è puntualmente venuto a galla, come previsto. Del resto accade spesso che l’Italia si areni fra intenzioni e attuazioni. Abbiamo salutato come una vittoria di civiltà la rinnovata possibilità di accedere alla fecondazione eterologa nel nostro Paese, perché poneva fine a una discriminazione su base di censo, visto che chi poteva la faceva all’estero. E ora ci accorgiamo che le cose continuano come prima perché non ci sono donatrici. I motivi? L’assenza di incentivi economici alla donazione (salvo aggirare l’ostacolo con «rimborsi» vari) e, secondo diversi osservatori, la mancanza di cultura della donazione di queste cellule (che richiede una stimolazione ovarica non del tutto priva di rischi).
Su questo punto vale forse la pena osare una riflessione impopolare: donazione per chi? Per una donna di 35 anni in menopausa precoce? Per una devastata dall’endometriosi? Per una che ha avuto un tumore? Pare indiscutibile incoraggiare alla donazione in questi casi.
Promuovere la donazione gratuita per una donna che ha più di 45 anni e che, per libera e legittima scelta, ha deciso di ritardare il momento in cui avere figli? Antipatico dirlo ma l’indicazione medica sarebbe meno stringente e, forse, più comprensibile la richiesta di un compenso. Politicamente scorretti per politicamente scorretti, andiamo oltre: liberalizziamo la vendita degli ovociti? Oggi gli ovociti, domani un rene? Non è la stessa cosa, nel primo caso non ci sarebbe la perdita della possibilità di avere figli, nel secondo se «salta» il rene residuo c’è la dialisi. Però qualche timore di una deriva potrebbe esserci.
E allora? Terza via: mettiamo via gli ovociti, congeliamoli finché siamo giovani così magari ci serviranno più in là negli anni. Niente di male, a meno che non sia il correlato di una cultura che, per varie ragioni, induce a pensare che sia privo di costi il rimandare la gravidanza molto in là nel tempo. Non è senza costi: una cosa è partorire a 25 anni o a 35, un’altra a 48. Però così siamo daccapo e rimane la realtà di oggi, che è quella di ieri: chi vuole può comprarsi gli ovociti all’estero chi non può rimane discriminato. E allora che fare? Ognuno avrà una sua opinione: il dibattito è aperto e complesso.
Non guardare le cose come stanno sarebbe ipocrita, non affrontarle tenendo conto di tutti gli aspetti superficiale. Rimane una considerazione: insieme alla cultura della donazione si potrebbe cominciare a promuovere anche una cultura dell’accettazione (non della rassegnazione) per scongiurare quella della disperazione e arginare quella della commercializzazione eccessiva dei problemi di infertilità.
Repubblica 13.11.14
L’amore non è surrogato
di Michela Marzano
L’ORDINAMENTO italiano, per il quale la madre è colei che partorisce, contiene un espresso divieto della surrogazione di maternità, ossia della pratica secondo cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a partorire un figlio per un’altra donna”. È con queste parole che la Corte di Cassazione ha definitivamente rigettato la domanda di riconoscimento del piccolo Tommaso che era stata depositata da una coppia di Brescia. Avendo problemi di sterilità, la coppia si era recata in Ucraina dove, nel 2011, il bimbo era stato messo al mondo da una madre surrogata prima di essere registrato come figlio della coppia. Dopo il rientro in Italia, però, l’uomo e la donna erano stati smascherati e denunciati per falso anagrafico. Conclusione: Tommaso è oggi “figlio di nessuno”. Punito per colpe non sue, è ora in attesa di essere adottato; in attesa di una nuova famiglia.
Chiamata per la prima volta a pronunciarsi nel caso di un “utero in affitto”, la Corte di Cassazione sbarra la strada alla legittimazione dei figli nati con pratiche vietate in Italia, conferma la decisione presa dal Tribunale dei minori di Brescia e respinge l’idea di riconoscere il diritto alla coppia di tenere il bambino avanzata dalla Procura. Di fatto, la Corte di Cassazione ribadisce il divieto di ogni pratica di “fecondazione extracorporea”. Ma non è questo, a mio avviso, il problema che pone oggi questa sentenza. Non è in questione la legittimità o meno della maternità surrogata — su cui i dibattiti etici e giuridici sono ovunque molto tesi, visto che sono in gioco interessi e valori contraddittori; e che c’è, da un lato, il dramma della sterilità di alcune coppie e la questione della genitorialità delle coppie omosessuali, e, dall’altro, il problema della strumentalizzazione del corpo delle donne. Il vero dilemma riguarda il bambino e il suo futuro. Il benessere e la tranquillità di chi, con il reato commesso dalla coppia bresciana, non c’entra nulla. Perché non è certo Tommaso ad aver chiesto di nascere o di essere partorito da una madre surrogata. Non è certo lui ad aver scelto alcunché.
Il piccolo subisce solo. Fin dall’inizio. Non sarebbe mai nato se questa coppia non l’avesse desiderato, non fosse andata in Ucraina, e non avesse utilizzato l’utero di un’altra donna. Ma è lui, adesso, a non avere più una famiglia e a non averne ancora un’altra. Esattamente come sarà lui, un giorno, a dover fare i conti con tutta questa storia piena di strappi e di abbandoni. È forse per questo che la Procura generale della Cassazione aveva chiesto la revoca dello stato di adottabilità e la restituzione a quelli che si erano spacciati per i suoi genitori. Esattamente come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sollecitata a pronunciarsi sul caso di due coppie francesi, nel giugno del 2014, aveva dato ragione alle coppie. Riconoscendo il danno identitario subito dai bambini, la Cedu aveva chiesto alla Francia di riconoscere ai bimbi nati negli Usa con maternità surrogata lo statuto di “figli legittimi”.
Certo, per la legge italiana “la madre è colei che partorisce”. Ma, per un figlio, la madre e il padre sono soprattutto coloro che lo hanno desiderato, voluto, accolto, coccolato, cresciuto. E poco importa, per lui, quello che possono aver fatto o le leggi che possono aver violato per averlo. Un bimbo si lega e si affeziona a chi comincia ad occuparsi di lui, anche se non si tratta del genitore biologico o non ha ancora lo statuto di genitore adottivo. Che è poi il problema delle famiglie cui si affidano i bambini prima di farli talvolta adottare da altre. Se veramente ciò che conta è il benessere dei più piccoli, non si dovrebbe trovare il modo di proteggerli veramente legiferando? E evitare, così, che l’assenza di regole produca dolorose e ingiuste contraddizioni che poi è fin troppo facile scaricare sulla magistratura.
Il Sole 13.11.14
Lirica. L'audizione del sovrintendente
«Via alternativa ai licenziamenti all'Opera di Roma»
di Antonello Cherchi
ROMA Sull'Opera di Roma c'è la volontà di trovare una strada alternativa ai licenziamenti: lo hanno sottolineato ieri i sindacati e il sovrintendente Carlo Fuortes, entrambi sentiti (ma in momenti diversi) dalla commissione Cultura della Camera. Dopo l'annuncio dell'allontanamento dell'orchestra e del coro e l'esternalizzazione delle attività artistiche, «c'è stato - ha affermato Fuortes - un atteggiamento totalmente diverso da parte dei sindacati, una grande assunzione di responsabilità. Si sono dimostrati disponibili a ridiscutere la parte retributiva e hanno proposto nuove regole sugli scioperi. La fase è ancora aperta, ma nel corso dell'iter che la legge prevede prima di formalizzare i licenziamenti, credo si possa trovare una soluzione».
Anche dalle diverse sigle sindacali sono arrivati conferme in tal senso: «I lavoratori – ha spiegato Alessandro Cucchi segretario generale della Uilcom Roma e Lazio – sono disposti anche a sospendere alcune loro attribuzioni per un periodo determinato, a fronte dell'obiettivo del risanamento, con la possibilità, una volta conseguito, di tornare a recuperare pezzi di salario». «Chiediamo che i posti di lavoro che abbiamo restino e soprattutto chiediamo un progetto cultura», ha aggiunto Maurizio Giustini, segretario della Fistel Cisl.
Su tutto c'è la necessità di risanare i conti del teatro, di aumentare la quota di autofinanziamento e di incrementare la produttività. Per quanto riguarda il pregresso – «una situazione – ha spiegato Fuortes – che non nasce nel 2013, ma è il frutto di interventi stratificati nei decenni che hanno portato ai conti disastrati di oggi» – c'è la possibilità di far ricorso alla legge Bray (legge 91/2013), che ha previsto un fondo di rotazione di 125 milioni di euro per aiutare le fondazioni liriche in grave dissesto, a fronte, però, di un piano di risanamento che l'Opera di Roma ha presentato in luglio al commissario della lirica, Pierfrancesco Pinelli.
Per il futuro, invece, è necessario ridurre le spese e aumentare la produttività. «Dobbiamo incrementare l'autofinanziamento, che ora – ha illustrato Fuortes – è al 17,8%, contro il il 56,6 dell'Arena di Verona, il 51,1 della Scala o il 36,6 di S. Cecilia». In questo modo si sarà meno legati ai contributi pubblici, che all'Opera nel 2013 hanno raggiunto i 41,3 milioni di euro, più anche della Scala, che però ha un valore della produzione di 116,5 milioni, contro i 52 milioni del teatro della capitale. Bisogna, dunque, lavorare di più: «Ora il costo del personale – ha spiegato Fuortes – incide sul valore della produzione per il 76% (39,5 milioni), contro una media del 62%. Eppure l'orchestra "timbra" solo 125 giorni l'anno».
Il Sole 13.11.14
Moro, l'accusa al consulente Usa
Commissione d'inchiesta. I nuovi elementi scaturiti da un'intervista di Minoli trasmessa l'anno scorso da Radio24
Il Pg Ciampoli: «Per Piecznik gravi indizi di concorso morale in omicidio»
di Ivan Cimmarusti, Marco Ludovico
«Concorso morale nell'omicidio» dello statista democristiano Aldo Moro. Un'accusa che adesso pende su Steve Piecznik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa ed ex consulente del Governo italiano in materia di terrorismo dal 1978. Molto vicino all'allora ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, legato a doppio filo con l'intelligence italiana ma non così ben visto in altri ambienti Dc, come quelli andreottiani, che l'avevano soprannominato «il piccolo Eisenhower», Piecznik sarebbe dunque coinvolto in prima persona nell'omicidio dello statista: ne è convinto il procuratore generale della Corte d'appello di Roma, Luigi Ciampoli.
I risultati dei suoi accertamenti, finiti in una relazione di un centinaio di pagine, sono stati illustrati ieri in una lunga audizione alla commissione parlamentare d'inchiesta. Il documento viene trasmesso all'attenzione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a cui il pg chiede di aprire un'inchiesta su Piecznik. Lo stesso documento è stato inviato anche all'ufficio del giudice per le indagini preliminari cui è stata proposta l'archiviazione della vicenda delle rivelazioni dell'ex ispettore di polizia, Enrico Rossi, secondo cui c'erano due agenti dei servizi segreti a bordo di una moto Honda in via Fani a Roma la mattina del sequestro.
Ma è il ruolo di Piecznik a essere al centro delle polemiche. «Abbiamo trovato del materiale interessante – ha detto Ciampoli – nell'analisi dell'intervista all'esperto americano, Piecznik, realizzata da Gianni Minoli anni fa» e trasmessa l'anno scorso da Radio24. L'obiettivo del consulente americano di Cossiga sarebbe stato quello di attuare una «manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia». «Abbiamo registrato una autoreferenzialità quasi schizofrenica da parte di questo soggetto – ha chiarito Ciampoli – che rivendica in maniera diretta di aver determinato l'uccisione di Aldo Moro. La strategia era quella di mettere alle strette le Br che avrebbero ucciso il Presidente quando si erano ormai piegate alla esigenza di liberarlo. Un omicidio indotto». La Procura di Roma, tuttavia, ha già avuto modo di interrogare Piecznik di recente. Nell'intervista, trasmessa il 30 settembre 2013 nel corso nel programma radiofonico Mix24 su Radio24, l'ex funzionario Usa aveva sostenuto di aver collaborato con le autorità italiane durante il sequestro Moro. Dichiarazioni che, tuttavia, non ha confermato nel corso del suo interrogatorio per rogatoria internazionale al sostituto procuratore Luca Palamara e agli investigatori dei carabinieri del Ros Lazio, al comando del colonnello Stefano Russo.
C'è dunque una divaricazione obiettiva tra i risultati delle indagini della procura e le conclusioni del procuratore generale della Corte d'appello. Se, da una parte, Ciampoli parla apertamente di un coinvolgimento nell'affaire Moro anche dell'ex servizio segreto militare, il Sismi - con il colonnello Camillo Guglielmi, ormai deceduto - nel rapimento dello statista democristiano, dall'altra parte l'inchiesta penale condotta dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo sta svelando un intricato giro di "bufale" finite anche su noti libri d'inchiesta sulla vicenda. C'è, infatti, un'ipotesi precisa di reato in questa indagine della procura capitolina: la calunnia verso esponenti dello Stato. Perché gli accertamenti del Ros avrebbero dimostrato come sul sequestro e omicidio Moro siano state diffuse informazioni fasulle per fomentare l'ipotesi del "complotto". Uno dei soggetti coinvolti è il brigadiere in congedo della Guardia di finanza, Giovanni Ladu, autoaccusatosi di aver fatto parte dell'organizzazione para-militare Gladio. L'ipotesi dei magistrati inquirenti è che in due diverse occasioni - una delle quali sotto il falso nome di Oscar Puddu - Ladu avrebbe fornito false informazioni all'ex giudice Ferdinando Imposimato, utilizzate dall'ex magistrato per due diversi libri sul caso Moro: «Doveva morire» e il recente «I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia» che ha spinto il Parlamento a nominare la nuova commissione d'inchiesta. Resta comunque aperto un enorme interrogativo su come sono andati realmente i fatti. Come dice il Democratico Gero Grassi, uno dei deputati che ha voluto la commissione d'inchiesta, «le dichiarazioni del procuratore generale danno all'intera vicenda una patina che fino a oggi non c'era. Assumono così una rilevanza peculiare e fanno riflettere».
La Stampa 13.11.14
Guaio Capitale
Marino e la Panda in divieto di sosta
Se il sindaco di Roma Ignazio Marino avesse in Campidoglio un consigliere almeno fidato, forse gli consiglierebbe di regalare la sua Fiat Panda rossa. La vettura è infatti al centro della discussione politica capitolina dell’ultimo mese. L’intera opposizione in Campidoglio si basa ormai su quella sua automobile, per lo più in uso alla moglie. Prima la polemica perché per un anno è rimasta parcheggiata gratuitamente nell’area riservata del Senato (pur non essendo più il nostro senatore). Poi è finita multata e subito “graziata” dal Comune di Roma per accessi non consentiti nella zona a traffico limitato del centro storico. Infine, l’altra sera, mentre nei pressi del Pantheon era in corso una manifestazione a favore dei due marò trattenuti in India, un consigliere comunale di opposizione (e le telecamere della trasmissione Le Iene), hanno incrociato prima l’auto bianca del sindaco parcheggiata in uno stallo per disabili, poi anche la Panda rossa, pure quella in divieto di sosta. I vigili sono arrivati mezz’ora dopo. Entrambe le auto erano andate via. Ancora una volta troppo tardi.
Corriere 13.11.14
La Panda di Marino di nuovo in divieto
Il sindaco sempre più in bilico: sono sereno
di Ernesto Menicucci
ROMA Prima le multe, ora il divieto di sosta. Una cosa bisogna dirla: ad Ignazio Marino, sindaco «ciclista», questa Panda rossa proprio non porta bene. Perché, dopo il parcheggio nei posti riservati del Senato e l’accesso alla Ztl con un pass scaduto, arriva un nuovo caso. Martedì sera, al termine del «giorno più lungo» del chirurgo dem, inseguito dalle voci di dimissioni, l’auto è stata «avvistata» sotto casa del sindaco, a due passi dal Pantheon, in divieto di sosta.
E qualcuno gli ha immediatamente scattato le foto, finite subito sulla rete. Non solo. Lì c’erano anche le telecamere delle Iene , che ieri sera hanno mandato in onda il servizio. C’è Marino che rientra a casa, su una macchina di servizio del Campidoglio. E, parcheggiata su un lato, c’è la sua Panda, sotto ad un cartello di divieto di sosta «permanente». Telefonini, foto, telecamere. Fino a che, dopo una mezz’ora circa, arriva un uomo (incaricato dal sindaco?) che sale sull’auto e la sposta, poco prima che arrivassero i vigili urbani. L’auto è quella col pass Ztl per il centro che, con ogni probabilità, usa spesso la moglie del primo cittadino, la signora Rossana Parisen Toldin, padovana di Monselice. Lei, raggiunta telefonicamente dal Corriere , non nega: «Non voglio essere scortese, ma non voglio essere intervistata. Tanto sapete già tutto...». Non ci vuole aiutare a capire chi guidava l’auto, quando sono state prese quelle multe? «Non avete bisogno del mio aiuto. Usate le vostre risorse sui giornali per trattare temi più importanti». Gentile, ma ferma. Anche se chi guidava l’auto non è un dettaglio. Marino, chiedendo il pass (pagato, tra l’altro, dal Comune) come sindaco «per lo svolgimento dell’attività istituzionale» è come se avesse «eletto» la Panda ad auto di servizio. E i familiari (a meno che non accompagnino il sindaco ad appuntamenti pubblici) non potrebbero neppure salirci a bordo, figuriamoci guidarla. Marino appare sempre più solo, anche se ostenta tranquillità: «Sono sereno». Però, per togliersi d’impaccio, sta pensando ad un clamoroso dietro-front: «Sono stato tratto in inganno dai miei uffici», la versione che dovrebbe fornire oggi, per scongiurare la mozione di sfiducia del centrodestra. Intanto, però, Renzi lo ha scaricato: «Chi sbaglia deve pagare», le parole del premier. Basta e avanza per aprire la crisi nella Capitale.
Il Fatto 13.11.14
Sterilizzazioni di Stato
India e nascite: non è un paese per donne
di Roberta Zunini
Nel subcontinente indiano, dentro un ospedale del Chhattisgarh, uno degli Stati più poveri, cinquanta ragazze lottano ancora contro la setticemia provocata dagli interventi di sterilizzazione eseguiti 4 giorni fa in un campo “sanitario”. Per la fretta con cui i medici avevano smaltito le operazioni di chiusura delle tube - ottimizzare i tempi significa minori costi - e a causa di una carente disinfezione degli strumenti, 13 sono morte nel giro di poche ore, 20 sono in gravi condizioni.
SE È PROBABILE che l'inchiesta aperta dalla magistratura su espressa richiesta del premier Narendra Modi spedirà in cella i chirurghi, il mandante continuerà a governare a piede libero. Perché il mandante è lo Stato. L'India, volendo mostrare di essere a tutti gli effetti la più grande democrazia del mondo, non ha mai messo a punto una politica ufficiale di pianificazione delle nascite, la cosiddetta politica del figlio unico di cinese memoria. Ecco perciò che dagli anni 70 il metodo più popolare di controllo delle nascite è stata la sterilizzazione. Indira Gandhi fu la prima a imporla inserendola nel pacchetto di leggi di emergenza. Un escamotage per rassicurare l'enorme ceto povero della temporaneità di una misura ontologicamente impopolare. La maggior parte dei più indigenti ancora oggi ritiene i figli una buona garanzia per aumentare le entrate economiche. In seguito, i vari governi, per pulirsi la coscienza e allo stesso tempo incentivare le donne a presentarsi all'appello, hanno introdotto una “ricompensa” in denaro. Con le 1.400 rupie offerte, circa 18 euro, però anche una famiglia povera, non campa più di un mese. Secondo le stime del 2013, le sterilizzazioni sono state quattro milioni. Cifra giustificata dal fatto che gli indiani sono circa 1 miliardo e 200 milioni e potrebbero diventare 1 miliardo e mezzo entro il 2028, superando i cinesi.
A ESSERE sterilizzate sono prevalentemente le donne, troppo deboli socialmente per opporsi alle decisioni dei tanti mariti-padroni. Le morti per questo tipo di interventi sanitari non sono una novità: negli ultimi dieci anni sarebbero state oltre 1.400. Ma sono numeri ufficiali che valgono fino a un certo punto in un Paese dove la corruzione si annida ovunque e le leggi sono tenute a seguirle solo i più deboli e i politici non sono realmente interessati a restringere l'enorme divario sociale. Nonostante il tasso di natalità sia sceso a 2,4 figli per donna, grazie all'accresciuta emancipazione femminile, l'India non ha accennato nemmeno lontanamente a stabilire una data di chiusura del programma di sterilizzazione e nemmeno una diminuzione della quota fissa di donne da sterilizzare annualmente, volente o nolente.
Le vittime della sterilizzazione finora sono state sempre strumentalizzate dalle opposizioni, di qualsiasi colore, per denigrare le maggioranze di volta in volta al potere.
Il vicepresidente del partito del Congresso, Rahul Gandhi, clamorosamente battuto dai nazionalisti del partito induista alle elezioni di maggio, ne ha subito approfittato per polemizzare, dimenticando che fu proprio sua nonna a introdurre questa normativa.
I corpi delle donne in India sono considerati macchine senza anima. Da usare e manomettere a seconda delle esigenze, degli uomini e dello Stato.
Corriere 13.11.14
Processo agli Stati Uniti in un discorso di Putin
risponde Sergio Romano
Il presidente Putin, il 24 ottobre, ha tenuto un interessante discorso programmatico. Mi sembra che nessun giornale italiano ne abbia parlato. Lei certamente lo ha letto. Perché non ce lo commenta?
Ettore Visca
Caro Visca,
Il discorso è stato pronunciato a Sochi in occasione di uno dei periodici incontri del Club Valdai, un foro russo di analisi e discussioni, simile per molti aspetti a quello svizzero di Davos e creato per iniziativa di Vladimir Putin nel 2011. Hanno partecipato a questo appuntamento alcuni uomini politici (fra cui un ex premier francese, Dominique de Villepin, e un ex cancelliere austriaco, Wolfgang Schüssel), giornalisti, direttori di istituzioni accademiche e di centri di studio sulla politica internazionale.
Putin ha colto l’occasione per uno sguardo d’insieme al mondo dopo la fine della Guerra fredda. È convinto che gli Stati Uniti, autoproclamandosi vincitori, si siano altezzosamente sbarazzati di tutti gli strumenti che erano stati costruiti nel corso degli anni per garantire, nei limiti del possibile, l’equilibrio del potere e la convivenza di sistemi politici diversi. L’America impone unilateralmente le sue regole, fa un uso egemonico della propria moneta, sorveglia e ricatta amici e nemici con una rete globale di ascolto e intercettazione. I nemici contro cui deve battersi, come il fanatismo islamico, sono spesso quelli creati dalla sua stessa politica. All’origine di Al Qaeda vi sono i generosi finanziamenti garantiti dall’America alla resistenza antisovietica in Afghanistan negli anni Ottanta. Il vertiginoso aumento del commercio della droga sarebbe collegato alla lunga guerra contro i talebani nello scorso decennio. Gli Stati Uniti sostengono di essere i paladini della libertà dei mercati, ma impongo sanzioni che contraddicono i loro presunti principi liberali.
L’America, secondo Putin, vuole un mondo unipolare, ma deve disporre, per meglio giustificare il proprio potere e la propria leadership, di un «centro del male». Oggi il nemico potrebbe essere la Cina, l’Iran o la Russia. Nelle parole di Putin il processo all’America è molto severo, ma l’analisi non è priva di passaggi interessanti e persuasivi. Il discorso di Sochi merita di essere letto integralmente.
Corriere 13.11.14
Il sigillo di Grossman, i progetti delle scuole e la staffetta con Expo Non saranno applausi a scena vuota quelli che questa sera inaugurano la terza edizione di BookCity. Sul palcoscenico del teatro Dal Verme (ore 20.30) infatti ci sarà David Grossman, uno dei più grandi scrittori israeliani contemporanei, in libreria con il nuovo romanzo, Applausi a scena vuota (Mondadori). Prima di parlare con Edoardo Vigna della «forza delle parole», il sindaco Giuliano Pisapia gli consegnerà il Sigillo della Città, prima edizione di un riconoscimento che diventerà un appuntamento fisso. Da domani l’invasione pacifica dei lettori travolgerà il centro e la città metropolitana, ma oggi è anche il giorno delle scuole, altra grande scommessa (riuscita) di questa manifestazione che ha visto coinvolto oltre ventimila studenti. I materiali prodotti sono molti e di molti generi (libri, e-book, booktrailer, illustrazioni, fumetti, plastici, cartelloni, giornali) e si potranno vedere al Muba della Rotonda di via Besana. Tra i tanti progetti vale la pena segnalare quello realizzato dai ragazzi dell’istituto Kandinsky al Gratosoglio: «Milano come non l’avete mai vista,» un sito in cui virtualmente vengono ridisegnati gli spazi urbani per i coetanei in visita a Milano per Expo.
Corriere 13.11.14
Il «folle volo»
Quel limite che la ragione non supera
di Raffaele La Capria
L’Ulisse di Dante con un racconto di «enigmatica semplicità» (Sermonti) chiude il ventiseiesimo canto dell’ Inferno. Come tanti sono rimasto anch’io affascinato e sconcertato dal «folle volo» che porta Ulisse ad attraversare le Colonne d’Ercole e a naufragare, dopo aver intravisto all’orizzonte una misteriosa «montagna bruna» «tanto alta quanto veduta non avea alcuna». E mi sono domandato anch’io perché Ulisse è condannato all’ Inferno , qual è la sua grandissima colpa, e infine che cosa vuol dire il suo racconto? Uno come me, che dopo i novant’anni pensa spesso alla vita e alla morte, quando legge quest’episodio si domanda: e se Ulisse «per seguir virtute e canoscenza» — due nobili facoltà dell’uomo — avesse commesso una terribile infrazione, un grave peccato, quello di oltrepassare il limite voluto dalla legge di Dio? Dunque il suo peccato sarebbe di aver disobbedito al comando che impone il limite, il limite che è sacro e che per nessuna ragione può essere oltrepassato, neanche «per seguir virtute e canoscenza». C’è un tempo (cioè un limite) per ogni cosa, è scritto nella Bibbia, «un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per la semina e uno per il raccolto». Se superassimo quel limite la sorte che ci spetterebbe è il naufragio, il fallimento. Il limite che Ulisse avrebbe voluto superare è quello imposto dalla morte alla vita umana. Non ci è permesso ignorarlo, e neanche ci è permesso indagare per sapere ad ogni costo cosa c’è oltre quel limite, questo il peccato di Ulisse.
Sono due le possibilità. Una, che oltre quel limite ci sia un aldilà che duri eternamente. Un’altra, che tutto finisca con la morte. Il limite sta tra queste due possibilità. Se penso alla vita eterna la penso con l’idea che in questo mondo dove vivo si ha dell’eternità, e la parola eterno indica qualcosa che non ha mai fine, e proprio per questo mi spaventa. Solo il limite ci libera dalla paura che si prova per qualcosa che non finisce mai e che questa stessa sua infinitezza rende immobile e sempre uguale. Dunque se devo immaginare questa eternità come è solo possibile immaginarla a uno che vive nella vita terrena, ecco che mi si presenta come una ripetizione infinita di ciò che è uguale, perché l’eternità è per forza uniforme e non può avere varianti. Chi vive in questa vita terrena vive nel tempo e solo nel tempo sono possibili varianti. L’eternità è senza tempo, dunque ferma in sé stessa. La morte, il limite, sarebbe dunque un dono che ci fa apprezzare la brevità della vita e ci libera dalla paura dell’eternità.
Ma qui nasce un’altra questione, perché se tutto finisse con la morte non ci sarebbe un aldilà, non solo quello consolatorio dove è possibile ritrovare i propri cari e gli affetti che avemmo da vivi, ma soprattutto non ci sarebbe quello dove Dio ha instaurato il tribunale che giudica il bene e il male da noi commessi nella vita, non ci sarebbero più il paradiso e l’inferno e non ci sarebbe più giustizia. L’uomo invece ha bisogno di giustizia, ha bisogno di credere che chi male ha agito verrà punito, e chi invece ha agito bene verrà premiato. Dunque pensare che tutto finisca con la morte, e che la morte sia un dono e una liberazione, porta a distruggere un principio che per l’uomo è essenziale, senza di esso non varrebbe la pena di vivere, il senso di ogni azione umana e della responsabilità personale andrebbe perduto, tutto sarebbe confuso in un’irrilevanza distruttiva, e neppure una società potrebbe esistere senza questo principio. E dunque, anche tenendo conto del sentimento religioso (che va rispettato) come la mettiamo?
Sono questi i pensieri di un novantenne un po’ ansioso e piuttosto irrequieto che vorrebbe impadronirsi con la ragione di cose di cui la ragione nulla sa e nulla potrà mai sapere. Noi viviamo nel mistero, le cose di cui parliamo sono misteriose e imperscrutabili, e misterioso e imperscrutabile è anche l’Ulisse di Dante e il suo folle volo, che queste considerazioni, chissà quanto apprezzabili, ha suscitato.
Corriere 13.11.14
Non solo prigionieri ma ostaggi
Soldati italiani in mano a Stalin
di Antonio Carioti
Volti esausti, da cui traspare uno sconsolato fatalismo: i soldati italiani fotografati dopo la cattura da parte dei sovietici, nell’inverno 1942-43, sono consapevoli di avere davanti a sé giorni durissimi. E infatti il tasso di mortalità nelle loro file sarà spaventoso, più elevato di quello dei tedeschi. Le immagini qui pubblicate, insieme a molte altre, arricchiscono la nuova edizione del libro I prigionieri italiani in Russia (il Mulino, pp. 495, e 29), frutto di una minuziosa ricerca condotta da Maria Teresa Giusti negli archivi di Mosca e di Roma. Ma l’apparato iconografico non è certo l’unica parte nella quale il volume, in libreria da oggi, si presenta ampliato e approfondito rispetto alla prima versione, edita nel 2003.
In questi anni Maria Teresa Giusti ha infatti proseguito il suo lavoro di scavo, con risultati importanti. Per esempio ha scoperto una direttiva, firmata dallo stesso Stalin nel giugno 1945, contenente ordini dettagliati per lo sfruttamento dei prigionieri come manodopera coatta. Le indicazioni dall’alto però cozzarono spesso con la disorganizzazione delle strutture che avrebbero dovuto applicarle, a partire dai campi di detenzione: qui, soprattutto all’inizio, regnavano la negligenza e il caos, con effetti disastrosi. Lo stesso apparato repressivo sovietico, il famigerato Nkvd, intervenne per migliorare le condizioni dei militari reclusi, che morivano come mosche, ma spesso le disposizioni rimasero sulla carta.
Di notevole interesse anche le novità sui prigionieri italiani a cui vennero addebitati crimini di guerra. Da documenti sovietici risulta che alcuni di loro non avevano compiuto affatto atrocità ed erano colpevoli soltanto di comportarsi da fascisti convinti. Comunque vennero trattenuti dal Cremlino dopo la fine della guerra, insieme al personale diplomatico della repubblica di Salò catturato dall’Armata rossa in Romania e Bulgaria, per essere usati come ostaggi, merce di scambio. E il nostro governo dovette piegarsi: con un accordo del 1949 ottenne il loro rimpatrio, ma dietro la consegna dei cittadini sovietici, donne e bambini inclusi, che si erano rifugiati nel nostro Paese anche prima della guerra, la cui sorte successiva si può facilmente immaginare.
C’è poi un’altra vicenda che Maria Teresa Giusti sottrae all’oblio: quella dei militari italiani catturati e internati dai tedeschi dopo l’8 settembre, i cosiddetti Imi, che caddero nel 1944 in mano sovietica e furono trattati, in modo del tutto arbitrario, come prigionieri di guerra, anche se avevano rifiutato di arruolarsi nella Rsi, nonostante l’Italia del Regno del Sud fosse ormai Paese cobelligerante al fianco degli Alleati. Così circa 1.300 Imi, sopravvissuti ai lager di Hitler, perirono in quelli di Stalin.
Corriere 13.11.14
La lotta partigiana vista da Noventa
Giacomo Noventa (1898-1960) non è stato soltanto un fine letterato, autore del volume Versi e poesie (Edizioni di Comunità, 1956), ma ha saputo svolgere anche un forte impegno civile, di cui è meritoria testimonianza il volumetto Tre parole sulla Resistenza , edito da Castelvecchi (pagine 67, € 9), nel quale sono contenuti appunto tre brevi saggi, felicemente complementari, dell’autore veneto, il cui vero nome era Giacomo Ca’ Zorzi (Noventa di Piave era il suo paese d’origine, in provincia di Venezia). Nel primo saggio, che risale al 1947, Noventa sostiene che «il nemico contro il quale la Resistenza combatteva non era soltanto l’ultimo fascismo e l’ultimo nazismo, ma l’indifferenza popolare italiana dal Risorgimento in qua». Il secondo saggio spiega che la Resistenza «non appartiene al passato», ma al contrario occorre «rompere l’unione sacra con gli ex compagni» e tuttavia «continuare la Resistenza». Infine, nel terzo saggio, che è l’introduzione incompiuta a un ciclo di disegni del pittore siciliano Renato Guttuso, Noventa conclude sostenendo che «l’antifascismo è tutto rivolto al passato», mentre la Resistenza continua a avere davanti «l’avvenire».
Corriere 13.11.14
Dalla fisica al latino, si rinnovano i Lincei
Anche Salvatore Settis e Paolo Prodi tra i venticinque nuovi soci
Anche l’Accademia Nazionale dei Lincei, la più antica del mondo (fondata nel 1602) si rinnova e guarda alle nuove generazioni. Il 14 novembre venticinque nuovi soci «corrispondenti» riceveranno il distintivo con la lince, animale scelto dal fondatore Federico Cesi per l’acutezza attribuita al suo sguardo.
Trattandosi del più prestigioso organismo culturale italiano, dove si entra solo dopo un attento esame dei titoli accademici, è per esempio da considerare «giovane» Guido Martinelli, 52 anni, professore di Fisica Teorica all’Università La Sapienza di Roma. Lo stesso vale per Gianfranco Pacchioni, 50 anni, professore di Chimica generale e inorganica alla Bicocca di Milano e per la coetanea Maria Concetta Morrone, professore di Fisiologia all’università di Pisa.
Prima notizia. Sei soci già «corrispondenti», ovvero ordinari, sono stati promossi a «nazionali», la fascia più ambita. Si tratta di Paolo Fedeli (latinista, università di Bari), Salvatore Settis (archeologo, Normale Superiore di Pisa), Paolo Prodi (storico moderno, università di Bologna), Paolo Galluzzi (storico della scienza, università di Firenze), Renato Guarini (statistico economico, università La Sapienza di Roma), Michele Parrinello, fisico nella Eidgenössische Technische Hochschule di Zurigo e nell’Università della Svizzera Italiana di Lugano).
Tra i nuovi corrispondenti nelle classi di Scienze morali e Scienze fisiche, l’italianista Emilio Pasquini, lo storico della Chiesa Giorgio Cracco, la giurista Lorenza Carlassare, il sociologo Marzio Barbagli, l’iranologo Adriano Valerio Rossi. Tra i soci stranieri, l’egittologo viennese Manfred Bietak, il giurista giapponese Ichiro Kitamura, la sociologa francese Dominique Schnapper.
Repubblica 13.11.14
oramai uno Stato di fatto mai dichiarato e il centro dell’alleanza che frena l’avanzata dell’Is
Nel cuore del Kurdistan iracheno che vola verso l’indipendenza
di Gad Lerner
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO) LA POTENZA emergente del nazionalismo curdo trasformatosi ormai in Stato di fatto, sulle ceneri dell’Iraq avviato alla dissoluzione, si celebra agli incroci delle larghe e trafficate avenues di Erbil. Qui i profughi in fuga da Kobane e Mosul chiedono l’elemosina sovrastati da megaschermi in cui il Falcon Group pubblicizza la ricchezza delle sue torri avveniristiche chiamate Empire Diamond, alternandole con visioni delle raffinerie di petrolio. Riesce difficile pensare alla ferocia della guerra, ai miliziani del Califfato insediati a poche decine di chilometri da una metropoli che per lusso e disegno architettonico cresce a vista d’occhio sul modello di Dubai.
Il mondo guarda con ammirata gratitudine ai curdi che frenano l’avanzata dello Stato Islamico (Is), celebra i peshmerga del loro esercito popolare, mitizza le donne soldato che poco più a Nord, nel Rojava (il Kurdistan siriano) fronteggiano i tagliagole jihadisti. A Erbil giungono armi e rifornimenti dall’Occidente. L’Italia partecipa, inviando 280 addestratori militari nell’ambito della coalizione anti-Is.
È il capolavoro diplomatico di due leader curdi iracheni — l’anziano Jalal Talabani e il presidente Massoud Barzani — che hanno riempito il vuoto di potere del dopo Saddam, realizzando in silenzio il sogno proibito dell’indipendenza. Eredi di una tragedia novecentesca, lo smembramento del popolo curdo nel 1923 in quattro Stati diversi (Turchia, Siria, Iran, Iraq), Talabani e Barzani stanno trasformando un nazionalismo dolce e perseguitato in qualcosa di diverso, al tempo stesso indispensabile e pericoloso.
La foto-simbolo del capolavoro diplomatico curdo risale al marzo 2011: ritrae Barzani mentre inaugura l’aeroporto internazionale di Erbil al fianco del presidente turco Erdogan. Il nemico storico non solo è giunto in visita in quello che di fatto è diventato lo Stato dei curdi, ma vi ha investito miliardi di dollari costruendo un’alleanza di ferro. Oggi un gasdotto rifornisce Ankara col petrolio curdo. Buona parte dei prodotti in vendita nei centri commerciali di Erbil vengono dalla Turchia. L’aeroporto e molti grattacieli sono stati edificati grazie alla partnership col leader neoottomano che in cambio ha solo bisogno di mantenere sottaciuta, non dichiarata, l’indipendenza curda.
Nella hall del sontuoso Hotel Rotana incontro Staffan De Mistura, inviato del segretario generale dell’Onu in Siria. Viene a Erbil perché il governo regionale del Kurdistan iracheno è divenuto protagonista imprescindibile della resistenza all’Is: «Non tutto il male viene per nuocere», spiega. «La capacità strategica dell’Is di manovrare insieme armamenti tradizionali e terrorismo suicida, oltre che una guerra mediatica ferocemente raffinata, costringe il mondo civile a riunire le forze». Il perno della nuo- va alleanza è a Erbil, cioè richiede che venga concessa fiducia alla nuova potenza curda. Pur di vincere le ultime resistenze del turco Erdogan, De Mistura ha fatto ricorso a un paragone imbarazzante col genocidio di Srebrenica: «Poiché la battaglia di Kobane ha assunto un rilievo simbolico, era divenuto essenziale che Ankara autorizzasse il passaggio sul suo territorio dei rinforzi peshmerga curdi». Ma l’autorizzazione non sarebbe mai giunta se Erdogan non si fidasse del senso di responsabilità dei leader curdi iracheni, attenti a non dare fiato alle pretese indipendentiste dei confratelli turchi e siriani.
È un equilibrio delicatissimo, quello che si sta realizzando in questo Stato di fatto mai dichiarato. Lo si verifica, a sud di Erbil, nella città petrolifera di Kirkuk. Se oggi Kirkuk è entrata a far parte dell’area di influenza curda (catastrofica sarebbe la sua caduta nelle mani dell’Is), si evita di chiamare in causa l’articolo 140 della Costituzione irachena, in base al quale un referendum potrebbe ufficializzarne l’ingresso nella giurisdizioÈ ne del Kurdistan. Si fa ma non si dice.
Ciò spiega perché nel vecchio suggestivo caffè Bazco, a ridosso della millenaria cittadella di Erbil, si pronunci malvolentieri il nome di Mustafa Ocalan, il leader del Pkk detenuto da 15 anni nell’isola-prigione turca di Imrali. E ciò nonostante Ocalan stia trasmettendo inviti alla moderazione ai guerriglieri Pkk restii a scendere a patti con Ankara, convinto anche lui della necessità di creare un fronte unito contro i tagliagole Is. Ocalan resta un simbolo amato, e chissà che domani non possa esercitare una funzione benefica di pacificazione dopo tanto sangue versato, ma per il momento va messo in sordina se si vuole realizzare a Kobane la saldatura fra i peshmerga curdi iracheni e i combattenti siriani curdi del Pyd, temuti dalla Turchia per i legami col Pkk. Per coinvolgere davvero la Turchia nella coalizione anti-Is bisogna che l’unica voce ufficiale curda rimanga quella di Erbil.
La simpatia che circonda il nazionalismo curdo non può infatti cancellare gli interrogativi sulla potenza con cui oggi occupa la scena. Chi ha vissuto al fianco dei peshmerga la drammatica estate dell’offensiva jihadista, sottolinea la tradizione pluralista e la disponibilità alla convivenza dei curdi. Il direttore dell’Unicef in Iraq, Marzio Babille, protagonista di coraggiose operazioni di soccorso nelle città assediate dai tagliagole, non si stanca di ripeterlo: «Il Kurdistan iracheno è l’unica regione di quest’area insanguinata nella quale vige il rispetto dei diritti umani; e viene praticata una generosa accoglienza dei profughi di ogni confessione religiosa». Ma è vero anche che le nuove generazioni hanno smesso di imparare l’arabo. Il distacco dall’Iraq è un fatto compiuto. È lecito chiedersi se questo nazionalismo che si fa Stato fuori tempo massimo non darà luogo a nuovi accidenti della storia. Dubbio legittimo. Intanto godiamoci questa isola di libertà in mezzo alla barbarie. Il sole del deserto rende abbaglianti i grattacieli di Erbil, i profughi accampati nelle tende dell’Onu li osservano pieni di speranza.
Repubblica 13.11.14
Herzog “Non so cosa sia la paura”
Il rapporto con il paesaggio, l’arte, la fatica, il cinema e Youtube il grande regista tedesco oggi ospite nelle Langhe si racconta
di Dario Olivero
BAROLO (CUNEO) I FATTI mentono. Quando qualcuno dice «questi sono i fatti, quindi questa è la verità», mente. O meglio, dice solo un aspetto della verità, quella che Werner Herzog definisce «la verità dei contabili ». Ecco i fatti. Herzog è nelle Langhe tra Barolo e Alba per tenere oggi una conferenza sul paesaggio. Sta piovendo ininterrottamente. Dal castello di Grinzane Cavour le colline sono inghiottite dalla foschia come in un quadro di Friedrich.
E quello che è uno dei più grandi registi viventi, quest’uomo di 74 anni vissuti pericolosamente, che ha attraversato gran parte dell’Europa a piedi, ha girato un numero sterminato di film e documentari, ha combattuto contro la natura nella giungla e nei deserti, guardando il paesaggio con gli occhi divenuti due fessure dice tre frasi che forse fatti non sono. «Un paesaggio non ha niente di romantico, un paesaggio ci colpisce per il suo aspetto preistorico. Per quello che suscita nel nostro profondo». Quando e come avviene lo scivolamento da un piano all’altro, dal regno dei contabili a quello nascosto è il mistero racchiuso nei film di Herzog. Ma il mistero resterà tale. Solo film come Cuore di vetro o Aguirre furore di Dio o L’enigma di Kaspar Hauser possono fornire qualche indizio su cosa significa andare oltre i fatti. Perché ogni domanda rivolta a Herzog cade in una terra dove le parole si arrendono e lasciano il campo all’azione. Cercare la verità oltre i fatti è un atto pratico, ha sempre sostenuto Herzog. Essere radicali – ed Herzog lo è sempre stato – significa essere pragmatici. I registi lo sono, devono esserlo. «Bergman – aggiunge Herzog riparandosi dalla pioggia – spesso incominciava la sua ricerca dal volto umano, da un particolare di un viso. Per me è sempre stato più importante un paesaggio».
Che cos’è un paesaggio?
«C’è un uso commerciale del paesaggio, per esempio quello che viene utilizzato come sfondo in uno spot. Ma un paesaggio può avere un significato molto più profondo. Le immagini che lo fissano possono cambiarci prospettiva e percezione. A volte il cinema e la grande pittura possono farlo».
Lei è convinto che le immagini possano causare
una reale trasformazione in chi le guarda?
«Il cinema non ha un potere diretto, a parte alcune eccezioni. Recentemente ho girato un film per la AT&T, la società telefonica. Non volevo farlo, poi mi hanno spiegato che volevano fare una campagna per denunciare che gli incidenti più catastrofici sono causati da chi scrive messaggi sul cellulare mentre guida. Allora l’ho fatto e l’ho messo su Youtube».
Per lei è stato normale metterlo su Youtube?
«Su Youtube tutto quello che supera gli otto minuti non viene guardato. Infatti le cose più viste sono i milioni di video sui crazy cats, i filmati di gatti. Il film è stato visto da mezzo milione di persone, nonostante sia lungo 34 minuti. La conseguenza pratica è che dopo averlo visto non digiterai mai più un messaggio mentre guidi. Questa è appunto un’eccezione. Proposito pratico, risultato pratico. Non è quello che normalmente fa il cinema».
Normalmente il cinema non contempla neanche l’idea di “estasi” che per lei è centrale.
«Estasi è uno stato fisico. È quando salti fuori dal tuo corpo, dalla tua esistenza, dal tuo limite fisico e voli. Ma non siamo nati per volare. Uccelli e frisbee sono fatti per volare. Possiamo volare fuori da noi stessi attraverso il cinema qualche volta. O con la musica, con la poesia. Abbiamo la possibilità di passare a una forma di verità più profonda. Naturalmente questo non ha nulla a che vedere con il cosiddetto cinéma vérité e con la verità dei contabili. È attraverso l’invenzione, che si può giungere a certi momenti di illuminazione. Più che fornire informazione è importante provocare estasi e illuminazione. I fatti non costituiscono la verità: questa è sempre stata una mistificazione. Non esiste nessuna verità dei fatti».
La sua idea di ricreare un universo alternativo alla creazione ha degli aspetti quasi gnostici. Se fosse vissuto nel Medioevo sarebbe stato bollato come eretico. È d’accordo?
«(Ride) Mi sarei trovato più a mio agio in quella che chiamiamo erroneamente preistoria e che invece mostra di avere una civiltà e un’arte. Sono affascinato dalle forme d’arte arcaiche. Penso alle grotte Chauvet del documentario Caves of Forgotten Dreams. Oppure alla Sicilia, alla necropoli di Pantalica».
Si è dato una spiegazione?
«No. Ma il silenzio, il silenzio… Il silenzio che si avverte in quei posti è una diversa forma di silenzio».
Con Fitzcarraldo ha spostato una vera nave su una vera montagna in una vera foresta. Ha mai avvertito la fatica e la disperazione di Sisifo?
«Devo confessare di non essermi mai sentito così perché per Sisifo lo sforzo è vano. La roccia che nel mito greco spinge sulla montagna torna sempre giù, all’infinito. Io ho portato la mia roccia dall’altra parte della montagna. Ho portato a termine una cosa che si può toccare, che si può vedere. Ho sempre finito quello che ho iniziato. Sisifo non riesce a finire il suo lavoro con il masso. Questa è la tragedia. Io non ho vissuto una vita tragica né una vita assurda».
Cambiamo immagine. Un uomo cammina e si allontana, arriva così lontano che le strade sono finite. Procede ancora e vede quello che non dovrebbe essere visto. Quando torna non lo può raccontare a nessuno. È capitato anche a lei? Ci sono cose che non si possono mostrare?
« Grizzly Man è l’esempio. Mi è stato immediatamente chiaro che non potevo mostrare né far udire le scene che riguardavano la morte del ragazzo ucciso da un orso. Più in generale ci sono i video dell’11 settembre. Centinaia di persone si sono gettate dai palazzi del World Trade Center molto vicini alle telecamere ma nessuno ha mai visto quelle immagini. Non si può toccare, oltre alla privacy, la dignità umana. Il mio secondo film, Gioco nella sabbia, non l’ho mai pubblicato e non lo pubblicherò mai. Quando lo girai avevo solo 22 anni, ma capii che c’erano cosa che un film può mostrare e altre che non può mostrare».
Ma oggi è facile trovare ogni tipo di immagine su Internet.
«Internet non ha struttura. Ma la struttura deve essere in te. Per capire le cose devi capirne la grammatica. Solo così riuscirai a muoverti in questa massa amorfa di informazioni. Per farlo devi avere una struttura culturale, ideologica, informativa ed è quello che manca soprattutto ai più giovani».
Perché?
«Perché non leggono abbastanza. Questo vale anche per i film. La cosa che deve essere postulata è leggi, leggi, leggi. Se non leggi non puoi essere un uomo di cinema. Puoi essere un mediocre cineasta, ma non un grande uomo di cinema. Devi leggere. Questa mancanza di grammatica culturale è una delle ragioni per cui la gente oggi vive con un continuo senso di perdita. In Internet perdono se stessi e perdono le cose».
Come si recupera ciò che si perde?
«È come attraversare i paesi a piedi. È difficile da spiegare come il mondo rivela se stesso a chi viaggia a piedi».
Quindi si torna dove eravamo partiti, al paesaggio. C’è una relazione tra paesaggio, estasi, fatica fisica, per esempio camminare.
«A volte quando cammini a lungo, il paesaggio non scompare ma adotta qualità diverse e sviluppa interi romanzi. Quando si cammina la sera e il sole cala e l’oscurità ricopre l’intero paesaggio si perde la direzione eppure si continua a tenere la strada».
Mister Herzog, che cos’è per lei la paura?
«Non lo so. Non esiste nel mio vocabolario».
Repubblica 13.11.14
Ecco che cosa abbiamo imparato da Federico Caffè
L’intervento del presidente Bce al convegno per il centenario dell’economista a Roma
di Mario Draghi
CONOSCENZA della realtà: istituzionale, sociale, comportamentale; capacità di indignarsi per ciò che in questa realtà violava principi etici fondamentali, o anche la razionalità economica, quando vedeva la stupidità prona al servizio dell’avidità; perentorio richiamo ad agire e insieme rimprovero per una accettazione passiva della realtà; cosa fare per porre rimedio alle disuguaglianze ma anche alle inefficienze: questa era la politica economica di Federico Caffè, questa è oggi la Politica Economica nella sua definizione più alta.
È questa sua complessa e completa personalità che reagisce di fronte alla realtà con ragione, con passione, con azione e che sente il bisogno di condividere tutto ciò con i suoi alunni che lo ha reso indimenticabile. Noi, noi studenti (io mi laureai con lui nel ’70 con una tesi sul Piano Werner, il precursore della moneta unica, in cui sostenevo che le condizioni per la sua attuazione allora non esistevano) abbiamo vissuto vite professionali sicuramente diverse tra loro, anche per le diverse interpretazioni che abbiamo dato dei suoi insegnamenti, ma accomunate dalla convinzione che fare politica economica significasse: analisi della realtà, rifiuto delle sue deformazioni, impiego delle nostre conoscenze per sanarle.
È con questa eredità di pensiero che ci confrontiamo e che desidero condividere l’azione che la BCE ha intrapreso per rispondere alla crisi nella quale l’area dell’euro e specialmente l’Italia versa, da ormai molti anni. L’attuale, inaccettabile livello della disoccupazione – il 23% dei giovani tra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro – è contro ogni nozione di equità, è la più grande forma di spreco di risorse, è causa di deterioramento del capitale umano, incide sulle potenzialità delle economie diminuendone la crescita per gli anni a venire. [...] I fattori ciclici hanno avuto un ruolo importante nell’aumento della disoccupazione. La BCE ha reagito alla crisi su tre fronti. Per quanto riguarda la politica monetaria cosiddetta convenzionale, ha portato il livello dei tassi di interesse dal 1,5% nel novembre 2011 allo 0,05% oggi. Ha portato il tasso di interesse pagato dalle banche per i loro depositi presso la stessa BCE dal 75 punti base nel novembre 2011 a -0,20 oggi. Ha inoltre attivato già alla fine del 2011 linee di credito per il sistema bancario per 1 trilione di euro e per una durata senza precedenti di 3 anni. [...] Ma gran parte delle misure intraprese può avere effetto sull’economia reale solo attraverso le banche, che nell’eurozona intermediano circa l’80% del credito. Solo se esse passano a famiglie e imprese le condizioni straordinariamente espansive sia in termini di tasso di interesse, sia di durata, sia di quantità disponibile che la BCE offre loro, la politica monetaria è pienamente efficace nella sua azione di stimolo. Perché ciò avvenga occorre che non solo vi sia domanda di credito da parte di clienti in grado di restituirlo, ma che esse stesse siano sane. È a tal fine che la BCE, alla vigilia del diventare il supervisore unico dell’Eurozona, insieme a tutti gli organismi di vigilanza nazionale, ha lanciato un anno fa e da poco completato un’analisi approfondita, il Comprehensive Assessment , delle 130 banche europee più significative. In tal modo è stato rimosso un altro ostacolo al contributo che la politica monetaria della BCE può dare alla ripresa della crescita. [...] Una politica monetaria espansiva, una politica fiscale, che, nel rispetto delle regole esistenti, veda maggiori investimenti e minori tasse, non sono sufficienti a generare una ripresa della crescita forte e sostenibile senza le necessarie riforme strutturali dei mercati dei prodotti e del lavoro. Maggiore concorrenza, completamento del mercato unico europeo, misure che permettano ai lavoratori disoccupati di trovare un nuovo posto di lavoro diminuendo la durata della disoccupazione, misure che permettano di innalzare il livello di specializzazione e di adattarne le caratteristiche alla domanda sono da tempo nell’agenda della politica economica di molti paesi dell’euro: la riflessione faccia ora posto all’attuazione.
È chiaro che entrambe le politiche, quella della domanda e quella dell’offerta, sono necessarie. La lezione del 2012 ci ha insegnato che la crisi di fiducia nell’euro era anche causata dall’incertezza, rivelatasi infondata, sul futuro della moneta unica. A questa incertezza i leader europei reagirono nel giugno del 2012 con la creazione dell’unione bancaria che ha portato alla vigilanza unica della BCE. Questo è stato l’atto di integrazione più importante che sia mai stato deliberato dalla creazione dell’euro. I paesi dell’eurozona hanno in questi anni rafforzato i loro legami e corrispondentemente allargato la base di fiducia su cui essi poggiano: con la politica monetaria comune, con regole di bilancio comuni, ora con una unione bancaria e una vigilanza bancaria comune e presto con un mercato di capitali comune. La nostra esperienza mostra che la condivisione della sovranità nazionale è condizione necessaria per una fiducia duratura nel disegno del nostro comune viaggio europeo.
Il Sole 13.11.14
Un maestro riformista. «Importante per i giovani pensare con la propria testa»
Visco ricorda la lezione di Federico Caffè
«Fu sempre dalla parte dei più deboli, critico della idealizzazione del mercato e sostenitore di un ruolo attivo dello Stato»
di R.Boc.
ROMA Un riformista vero, un eclettico più per necessità che per scelta, che ha lasciato ai suoi studenti un insegnamento essenziale: quello dell'importanza del pensare con la propria testa. Così il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha delineato ieri il personaggio Federico Caffè, l'economista del quale anch'egli, come Mario Draghi, è stato allievo durante i suoi studi all'Università La Sapienza di Roma. Visco ha sottolineato che Caffè «fu sempre dalla parte dei più deboli, critico esplicito della idealizzazione del mercato e sostenitore di un ruolo attivo dello Stato per correggerne le inefficienze e rimediare alle diseconomie». Quanto al tema del lavoro, il professore del quale quest'anno ricorre il centenario dalla nascita «guardava al lavoro non solo come occupazione ma anche come realizzazione della persona, all'istruzione e alla formazione come componente fondamentale dell'uguaglianza delle opportunità. E guardava con preoccupazione a una finanza speculativa e disgiunta dall'economia reale». Al tempo stesso, ha rievocato ancora Visco, Caffè non fu mai «contro il progresso e la tecnologia, né a favore di un non rispetto dei vincoli di bilancio, né contro il riconoscimento del merito o a favore di un vago "egualitarismo": fu anzi molto critico verso alcune posizioni estreme». Visco ha poi ricordato lo stretto legame fra Caffè e la Banca d'Italia, della quale egli fu a lungo consulente: «Soffrì, negli anni della contestazione studentesca del 1968-69, per sciocche accuse, legate a questo suo rapporto di consulenza, di "connivenza con i difensori del capitale, del potere economico e finanziario, dei padroni", mortificato anche per la ristrettezza mentale ma comprensivo per l'età di chi le avanzava» ha detto ancora Visco. E ha aggiunto: «Vi è da osservare, peraltro, che ogni stagione ha le sue "sciocche interpretazioni" e anche oggi certo esse non non mancano». Visco ha concluso rievocando l'ammonimento di Caffè agli studenti: «Siate sempre vigili, non cedete mai agli idoli del momento, vale a dire alle frasi fatte, alle frasi convenzionali, rifletteteci con il vostro pensiero e la vostra capacità intellettuale». Un motivo in più, quello dell'esigenza di sviluppare l'autonomia intellettuale, che ha spinto ieri, nel corso del convegno, il governatore Visco a battere a lungo sull'esigenza di investire di più sulla scuola, per garantire un'adeguata formazione e per contrastare la disoccupazione tecnologica.
Anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dato ieri il suo contributo alla commemorazione dell'economista scomparso. Anche se i problemi economici odierni sono diversi da quelli di allora, ha scritto il capo dello Stato in un messaggio inviato al convegno, «il fondamento etico del suo pensiero, la passione civile che lo alimentava possono rappresentare valori guida per le prossime generazioni di economisti».